Come salvare le idee dal mercato
La crisi dei modelli di business tradizionali di editoria, nei giornali come nei libri, è un problema democratico. E servono soluzioni creative
Di recente comitati editoriali di due importantissime riviste di teoria politica si sono dimessi di fronte alla richiesta di contribuire a maggiori profitti della casa editrice, aumentando il numero di articoli pubblicati
Gianfranco Pellegrino
Buongiorno a tutte e tutti,
la comunità di Appunti è sempre più vitale e innesca dibattiti che poi prendono pieghe impreviste.
Nelle scorse settimane, avevo raccontato uno degli sviluppi più notevoli (e anche incoraggianti) nel mondo dei media: la fine del modello di business dei giornali basato sul traffico che ha generato l’invasione di contenuti spazzatura pensati solo per i motori di ricerca.
Quell’articolo ha stimolato la riflessione di Lia Di Trapani, editor di Laterza, su come stia cambiando in parallelo il mercato dell’editoria libraria: lì, a differenza che nei giornali, i bilanci sono in attivo e sembra che tutto vada bene. Ma in realtà i libri che dovrebbero stimolare la discussione e giustificare la missione intellettuale delle case editrici hanno sempre meno lettori.
E quindi? Bisogna ripensare i modelli di business o sottrarre la cultura al mercato delle idee?
Il filosofo Gianfranco Pellegrino, docente alla Luiss, ha sempre punti di vista originali che ho apprezzato prima su Domani e ora su Appunti.
Non vi anticipo niente di questo suo pezzo su libri, cultura e mercato, ma arrivate alla fine e ditemi cosa ne pensate: a me la storia della rivolta dei filosofi ha dato un senso di liberazione e di speranza (ma dovete arrivare in fondo per capire di che parlo).
Qui trovate i due pezzi da cui è partita la discussione:
E anche il saggio di Marco Cecchini che affronta il ruolo dei giornalisti e l’idea che hanno del proprio lavoro:
Buona giornata,
Stefano
Salvare i libri e le idee dal mercato
di Gianfranco Pellegrino
Per molti anni, ho trascorso ore nelle librerie, guardando i nuovi libri, calcolando quanti potevo permettermene. Negli anni dell’università (facoltà di filosofia, La Sapienza), i titoli della Biblioteca di Cultura Moderna Laterza hanno costituito l’ossatura della mia formazione.
Ricordo con disperazione i traslochi di questi anni, con le scatole piene dei libri accumulati in trent’anni di carriera universitaria. E la mattina i giornali che compravo e leggevo non erano mai meno di tre. Le trasformazioni descritte da Stefano Feltri nel suo post sulla fine del traffico nei giornali e da Lia Di Trapani nel suo post sui lettori di libri hanno cancellato questo mondo.
Nonostante abbia abitato quel mondo e lo rimpianga, però, non ho idee chiare sulla risposta da dare a tutto questo. Che cosa perdiamo e che cosa dovremmo dunque cercare di ricuperare, o salvare, quando diminuiscono i lettori?
Perdiamo un settore specifico e molto caratterizzato della vita economica e produttiva. Vengono meno figure professionali – chi stampa, chi corregge, chi concepisce, diffonde e promuove i libri e i giornali.
Viene meno un modello di business, cioè una maniera per procurarsi profitti pensando e discutendo – una modalità che si affiancava alle università e ai centri di produzione dell’istruzione e che ha contribuito a creare intellettuali che potevano campare con i frutti del proprio ingegno, guadagnandoci in libertà e mettendo quella libertà al servizio della libera discussione e, spesso, della democrazia.
Ci sono due aspetti, qui. Uno riguarda il lavoro e la produzione di profitto. I progetti di lavorare con i libri e i giornali e di guadagnarci sembrano sempre più difficili e irrealistici. L’altro riguarda le conseguenze di un certo modo di lavorare e fare profitto – gli spazi di libertà e il contributo alla democrazia, come ho detto prima.
Non possiamo troppo preoccuparci del primo aspetto. Le forme del lavoro e della creazione di profitto sono sempre mutate e lo faranno ancora. Dobbiamo preoccuparci delle conseguenze sociali: perdita di posti di lavoro, impoverimento, e così via. Ma dobbiamo farlo in questo come in altri casi. Non mi pare ci sia, sotto questo aspetto, nulla di specifico nella filiera del libro e dei giornali.
Il secondo aspetto – la possibilità che il venir meno di un certo modo specifico di produrre, rendere pubbliche e far circolare idee abbia un impatto sulla democrazia – desta maggiori preoccupazioni.
Stanno sparendo uno stile di vita e una maniera specifica di produrre, elaborare e acquisire idee, opinioni, visioni del mondo. Tramonta una pratica inventata agli inizi dell’età moderna – con l’avvento della stampa a caratteri mobili – e perfezionata con l’Illuminismo – quando l’autore (raramente l’autrice) di libri divenne una figura pubblica e di natura politica.
Che cosa pensare di questa perdita? Da un lato, sembra un processo inevitabile. Come l’invenzione della scrittura ha cambiato la cultura umana, così il passaggio a supporti immateriali e frammentari avrà effetti simili. Dall’altro, non è chiaro se questo cambiamento sia in peggio.
Come gli aedi dei barbari ci spiegano spesso (e qui penso ai molti scritti di Alessandro Baricco su questo tema), non è detto che le nuove forme di pensiero, discussione e cultura siano peggiori delle vecchie. Sono diverse. C’è un bilanciamento differente di pregi e difetti: meno profondità, più velocità, per esempio. Ma è presto per capire se è una decadenza o una rivoluzione.
Bisogna evitare che la nostalgia per quello che siamo stati (la lettura continua e lineare di libri nella biblioteca di Villa Mirafiori, sede di Filosofia a Roma, per quanto mi riguarda, o le lunghe ore in libreria) ci renda più conservatori del necessario.
Libertà e mercato
C’è un aspetto di questa perdita, però, meno roseo o aperto. Per molto tempo, e in alcuni luoghi del pianeta, questo stile di produzione del pensiero ha contribuito a far fiorire la democrazia.
L’esistenza di spazi di discussione ha favorito il progresso intellettuale e morale dell’umanità – e questo anche se questi spazi sono stati limitati a certe porzioni del pianeta. Scoprire che il colore della pelle, il censo, il genere non sono basi di giustificata discriminazione, per quanto sia avvenuto in Europa, ha portato benefici a tutti gli esseri umani.
Questa perdita va evitata. Che ci siano spazi di discussione, che tante persone avanzino idee, critiche, suggerimenti, che lo si possa fare con agio – senza censura, senza dover per questo perdere fonti necessarie di sussistenza – è necessario. Se la perdita dei lettori di libri e giornali significasse il venir meno della discussione pubblica democratica e del meccanismo del progresso sociale e politico, questa sarebbe una catastrofe.
Ma le due cose sono così intrecciate? Una risposta a questa domanda è che ovviamente le due cose sono legate, perché solo l’esistenza di un modello di business come quello che ha prosperato grazie a giornali e case editrici può garantire ai protagonisti della discussione la libertà e l’agio necessari a dare il loro contributo senza censure e auto-censure. Solo se c’è la prospettiva di guadagnare qualcosa coi libri e i giornali si parlerà liberamente.
Su questa risposta nutro un certo scetticismo. I meccanismi descritti da Feltri e Di Trapani mi sembrano una prova che il modello di business può liberare, ma anche imprigionare. Se percepisco i proventi del mio ingegno e questi dipendono da un vasto pubblico, non sarò alla mercè di mecenati e non potrò essere influenzato dalle loro richieste o dai loro ricatti.
E, tuttavia, se la mia attività dipende ed è resa possibile esclusivamente dall’andamento del mercato, la libertà non è garantita. Dipende appunto dal mercato. È il mercato può essere il mercato delle idee, di cui parlava J.S. Mill, dove le idee migliori si affermano grazie alla discussine.
Ma può essere anche quel meccanismo suscettibile al mutamento dei supporti, dove si aggirano consumatori né razionali né illuminati, dove c’è scarsità della risorsa dell’attenzione. E in quel mercato, se sei un influencer o un personaggio televisivo, o scrivi un efficace post, conquisti più consumatori.
Quindi, nessuna censura dal mecenate, ma una impersonale direzione, una spinta decisa, pur se gentile: accorcia i tuoi libri, parla dei temi di cui tutti parlano, affianca alla tua attività di pensiero una incessante promozione mediatica personale. A me non pare tutta questa libertà, francamente.
Inoltre, il cambiamento epocale di cui parlavo prima – la fine di uno stile di vita e di pensiero, l’avvento dei barbari– rende sostenibile il modello tradizionale di business dell’editoria nei termini di un’analisi del valore di mercato del libro come prodotto, come merce (absit iniuria verbis).
Cos’è un libro
Nel tempo in cui viviamo, che cosa paga chi acquista un libro? Paga il lavoro dell’autore o dell’autrice – l’ideazione e la scrittura, nonché gli anni di vita e formazione che ne sono le condizioni.
Paga l’intermediazione della casa editrice: la ricerca e la selezione degli autori e delle autrici, il progetto editoriale complessivo (quale tipo di libri pubblicare? Perché?), il controllo di qualità, potremmo dire (eventuali comitati di esperti che controllano la qualità del libro, editor che ne migliorano la prosa, controllano errori, e così via), la diffusione e la promozione.
Il prestigio della casa editrice, la sua storia, gli autori e autrici che attira, sono spesso proxy, per così dire, di tutte queste attività. Il marchio è ciò che garantisce che i processi elencati sopra siano svolti nel miglior modo possibile.
Compro un libro di una casa editrice che reputo autorevole perché so di trovarci idee che hanno superato vagli oggettivi, e non sono frutto di scelte causali, amichettismi, strategie di marketing.
In termini di mercato, considerando la domanda e l’offerta, che cosa vuol dire il crollo dei lettori denunciato da Di Trapani? Vuol dire che nessuno vuole più scrivere e rendere pubbliche le proprie idee? Non mi pare. Autori e autrici proliferano, in tutti i circuiti della filiera e fuori dalla filiera.
Le case editrici si moltiplicano, anche se spesso si abbandonano a compromessi – far pagare i libri, pubblicare autori e autrici noti per ragioni diverse dalle idee che comunicano. L’offerta di idee è immutata. Anzi, considerando la maggiore ricchezza, l’educazione di massa, le telecomunicazioni, mai come oggi ci sono state in giro tante idee – buone o cattive, ovviamente. Ma tante e disparate.
E i consumatori sembrano ancora interessati, a giudicare dalla reattività con cui comuque si reagisce, dentro e fuori i social, credo, alle idee. I populismi trionfanti, le narrazioni della destra sono idee. L’epoca incui viviamo è quella in cui le idee – vaghe, cattive, forse, approssimative – hanno avuto la massima trazione. La gente vota contro i propri interessi, mossa da narrazioni e slogan. Che sono appunto, le si approvi o meno, idee.
Ma i consumatori non sono interessati a quel di più di intermediazione che era prodotto da case editrici e giornali: non sono più interessati a quei meccanismi di filtro, strategie e programmazione che hanno costituito l’organizzazione della cultura del Novecento.
Ci sono due interpretazioni di questo disinteresse. Nell’interpretazione ‘barbarica’, i consumatori-lettori non vogliono più l’intermediazione perché sono, appunto, ‘barbari’. Rifiutano il modello di autorità culturale tradizionale. Vogliono il contatto diretto con la fonte del pensiero, decidono da soli chi è autorevole. Dal mio osservatorio, le cose non stanno del tutto così.
La rivolta dei filosofi
Spesso il modello di autorità culturale tradizionale – il modello del grande autore, del vate – viene semplicemente replicato, talvolta appiattendolo, su altre piattaforme. Il grande autore parla in video, post, festival. Il suo libro diventa una parte accessoria, forse periferica, della sua attività. Ma l’autorevolezza, o la finzione di autorevolezza, rimane. Si fanno errori, ma si crede di non farli.
Forse, allora, i consumatori-lettori non rifiutano l’intermediazione. Ma semplicemente non la vogliono più pagare. Ritengono che l’intermediazione, se ci deve essere, debba essere gratis. Probabilmente, sottovalutano i costi dell’intermediazione di qualità – i costi dei comitati editoriali, degli editor, e così via. E tuttavia esprimono un giudizio legittimo. Il mercato, d’altra parte, è il luogo dove si vende quel che i consumatori sono disposti a pagare.
Qual è la risposta migliore a questa svalutazione dell’intermediazione tradizionale? Non è chiaro che sia quella che in controluce s’intravede nei post di Feltri e Di Trapani, cioè cercare di rivitalizzare il vecchio modello di business e far pagare di nuovo l’intermediazione di qualità: convincere di nuovo i lettori che valga la pena pagare.
Recentemente, i comitati editoriali di due importantissime riviste di teoria politica, Journal of Political Philosophy e Philosophy and Public Affairs, si sono dimessi di fronte alla richiesta di contribuire a maggiori profitti della casa editrice, aumentando il numero di articoli pubblicati.
Filosofi politici molto importanti non hanno ritenuto che valesse la pena di far aumentare i guadagni di Wiley Blackwell a scapito della qualità. E hanno portato le loro riviste in piattaforme ad accesso aperto gratuito. Il messaggio è: la mediazione che noi facciamo, quella che porta a selezionare i migliori articoli di filosofia politica, non si paga. Anche perché noi siamo già pagati per pensare e discutere: dalla fiscalità generale e dalle tasse universitarie.
Mi chiedo se questo non valga più in generale. O meglio se non si possa ragionare in maniera simile. Il valore delle idee di qualità è un bene pubblico, che è compito di istituzioni pubbliche garantire. Non si può lasciare alle dinamiche di mercato.
Se le idee si diffondono con buoni giornali e buoni libri (e questo è un ‘se’ da valutare), allora non si può lasciare al capriccio del mercato la loro esistenza. Fatti salvi i diritti di proprietà intellettuale di autori e autrici, l’intermediazione necessaria a canalizzare e diffondere le idee non deve costare.
Questo vuol dire la sparizione di case editrici che, pur autorevoli, sono aziende? Vuol dire l’incremento di sovvenzioni pubbliche o un ruolo forse eccessivo degli accademici pagati dalle università? Forse sì.
Ma se vogliamo evitare la perdita del patrimonio critico e della funzione democratica che finora sono stati garantiti dalle imprese commerciali editoriali, senza cullarci solo nella nostalgia dei nostri anni giovanili, forse questa è l’unica cosa da fare.
Appunti è possibile grazie al sostegno delle abbonate e degli abbonati. E’ con il loro contributo che Appunti può crescere e svilupparsi anche con progetti ambiziosi come La Confessione. Se pensi che quello che facciamo è importante, regala un abbonamento a qualcuno a cui tieni.
A me sembra un articolo veramente stimolante, che apre prospettive cui mai sarei arrivato da solo. Non mi va di dire se sono d'accordo o meno con l'autore, cui faccio comunque i complimenti, il suo articolo fa comunque pensare, riflettere, immaginare altro modi di essere attivi nella società, in questa società, non in una idelizzazione sterile della società che vorremmo. Quindi grazie ad Appunti.
Certamente è un mio limite ma leggere questo lungo intervento è stato molto, molto faticoso. Ed alla fine non ci ho capito granchè. (Ma mi sembra di non essere il solo e, d'altra parte, l'arte di sapersi far leggere è bene raro e prezioso)