Troppi libri senza pubblico
L’editoria libraria sembra passarsela bene. Eppure dietro i numeri si notano cambiamenti epocali: solo pochissimi titoli hanno davvero lettori, il 30 per cento dei libri non vende più di una copia
Tutti noi professionisti che a vario titolo formiamo la filiera editoriale prestiamo ogni giorno il nostro impegno e le nostre energie per far nascere e per promuovere dei libri che nella maggior parte dei casi verranno letti da 1000 o 2000 persone
Buongiorno a tutte e tutti,
Uno degli argomenti ricorrenti su Appunti riguarda il nesso tra dibattito pubblico e qualità della democrazia, tra il modo in cui ci formiamo opinioni e come quelle opinioni diventano scelte, partecipazione (o astensione dalla partecipazione).
Ho parlato varie volte della crisi e dell’evoluzione dei giornali, una storia di cui Substack - la piattaforma che ospita Appunti - potrebbe diventare una tappa rilevante.
Non ci siamo però mai occupati davvero di libri, in particolare della saggistica che un po’ ovunque ma soprattutto in Italia è una specie di mondo parallelo a quello dei giornali. Non soltanto perché molti giornalisti scrivono saggi, ma perché molti saggisti ambiscono o finiscono a scrivere poi sui giornali, a intervenire nei talk (o sui social) a promuovere i loro libri.
La saggistica è anche il serbatoio di idee, analisi, competenza che alimenta una discussione pubblica che poi riassume, semplifica, fino a condensare centinaia di pagine e anni di studio in un “carosello” di card su Instagram.
Ecco, per parlare di qualità del dibattito pubblico bisogna parlare anche di libri. Lia Di Trapani è una editor della casa editrice Laterza che ha scelto Appunti per una riflessione di inedita onestà intellettuale, rara e preziosa in un mondo che tende sempre a glissare sui numeri, a celebrare i rari successi e a omettere le fisiologiche delusioni.
Sarebbe interessante che altri protagonisti del mondo editoriale dicessero la loro. Di sicuro questo pezzo risponde a molte delle domande che mi facevo in questi anni su come funzionasse un mercato nel quale anche io, nel mio piccolo, mi muovo.
Fateci sapere cosa ne pensate.
Buona giornata,
Stefano
Troppi libri senza pubblico
di Lia Di Trapani
Ho letto con grande interesse La fine del traffico, il contributo che Stefano Feltri ha dedicato qui su Appunti il 16 agosto a quello che ha chiamato ‘il disastro dei giornali’.
È vero: negli ultimi anni in quel settore tutto - davvero tutto - è cambiato. E siamo cambiati inevitabilmente anche noi, che eravamo lettori di quotidiani nel mondo precedente e che ci troviamo oggi un po’ smarriti nel trovare troppo spesso pezzi da rotocalco sui siti di quelle che consideravamo testate autorevoli (la corsa ai click che Stefano ha raccontato ce ne spiega bene le ragioni) e come tutti raccogliamo ormai scampoli di informazione da mille fonti diverse: i giornali appunto (di cui spesso ci limitiamo a leggere solo i titoli online), e ovviamente i social, le piattaforme di informazione, le newsletter…
Un discorso molto serio a parte meriterebbe la riflessione sugli effetti che tutto questo sta avendo sulla generazione che il mondo del giornalismo di prima non lo ha nemmeno conosciuto, ma ci porterebbe troppo lontano.
Siamo cambiati noi lettori, dicevo.
E questa mutazione profonda nel modo di accedere all’informazione è un tassello essenziale di un altro processo di trasformazione, quello che riguarda i libri.
È un settore che conosco bene: lavoro da 24 anni alla Laterza, casa editrice che continua ad avere un ruolo importante nella proposta di saggistica. Sono stata editor di libri universitari e di varia (per chi non è avvezzo al gergo editoriale, è ‘varia’ tutta la produzione che non afferisce al mondo della scuola e dell’università).
Da qualche anno mi occupo prevalentemente della nostra area di eventi culturali e questo mi ha permesso di allargare ulteriormente lo sguardo su altri aspetti della produzione e sulla fruizione di cultura.
Viviamo un tempo segnato da trasformazioni profonde e accelerate su tutti i fronti e anche l’ecosistema complesso che ha al centro il libro è parte del cambiamento.
Intendiamoci, l’editoria gode tutto sommato di buona salute e lo scenario anche economico in cui opera non è quello ben più preoccupante del settore giornalistico.
Dietro i numeri
Qualche numero sull’Italia rende l’idea (i dati sono dell’Ufficio Studi AIE): nei primi sei mesi del 2024 le vendite di varia (saggistica e narrativa) risultano rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente in flessione dello 1,6 per cento in termini di numero di copie vendute ma in crescita dello 0,1 per cento se consideriamo il dato a valore (ovvero il prezzo di copertina). Non malissimo, sembrerebbe.
Val la pena ricordare anche i dati di confronto rispetto alla fase pre-pandemia (come noi addetti ai lavori sappiamo bene la stagione del lockdown - tragica per molti versi - è stata una parentesi felice per quanto riguarda le abitudini di lettura e di acquisti di testi): rispetto al 2019 la prima metà del 2024 registra due segni positivi di tutto rispetto. + 17,5 a valore e +13,5 a copie, parliamo di circa 6 milioni di copie in più di libri venduti. E ci riferiamo a un mercato che nel 2023 valeva 1,7 miliardi di euro e che fa la parte del leone rispetto agli altri ambiti del consumo culturale.
Tutto bene allora? Il mercato si è addirittura ampliato e - nonostante le continue e giustificate denunce dello scarso numero complessivo di lettori nel nostro Paese - i libri godono di ottima salute e possono continuare a esercitare il loro ruolo centrale nelle nostre vite e nelle nostre società?
Non esattamente.
Mi perdonerete se farò ancora un paio di numeri, ma mi paiono interessanti: vale la pena infatti ricordare che il 30 per cento circa di tutti libri pubblicati non vende nemmeno una copia o ne vende solo una (dati Nomisma riferiti al 2023).
Ma soprattutto, a far riflettere deve essere il dato relativo alla tiratura media: da diversi anni il numero di volumi che si stampano di ogni novità si aggira poco sopra le 2000 copie, mentre nel 1990 era di oltre 5.800.
E quindi, oggi si pubblicano molti, moltissimi, forse troppi libri (oltre 80.000 titoli nuovi ogni anno) ma di questi un terzo non vende affatto e una piccolissima parte finisce nelle classifiche dei best seller e dà respiro al settore. Poi c’è tutto il resto.
Tradotto: tutti noi professionisti che a vario titolo formiamo la filiera editoriale (filiera molto estesa: ci sono gli autori ovviamente, e noi editor, e poi scout, agenti, redattori, traduttori, addetti stampa e professionisti della comunicazione, commerciali, grafici…) prestiamo ogni giorno il nostro impegno, le nostre energie, la nostra più o meno brillante intelligenza per far nascere e per promuovere dei libri che nella maggior parte dei casi verranno letti da 1000 o 2000 persone. Mi pare un punto su cui una riflessione è necessaria.
Questi numeri indicano innanzitutto un problema di sostenibilità: per gli editori che hanno aspirazioni di visibilità e distribuzione nazionale spesso questa diffusione è insufficiente e costringe all’inseguimento di quei pochi autori che garantiscano ogni anno risultati certi.
Autori che, intendiamoci, hanno un ruolo essenziale nella diffusione della cultura e contribuiscono a diffondere contenuti di qualità presso un pubblico ampio (nel nostro caso per fortuna ce ne sono diversi, a partire da Alessandro Barbero e da Stefano Mancuso).
I rivoli
Ma c’è dell’altro, e mi riferisco qui davvero in particolare all’editoria di saggistica (questioni analoghe si pongono per la narrativa, a mio avviso, ma voglio restare nel mio campo professionale).
Si scrivono e si pubblicano saggi per mille ragioni e avendo in mente tanti obiettivi: per informare, per comunicare i risultati di ricerche accademiche, per raccontare storie, per aggiornare, per intrattenere, per approfondire questioni complesse che non possono essere trattate nel respiro breve di un articolo e nemmeno nel linguaggio di un podcast.
Si pubblicano libri di storia, di economia, di politica, di inchiesta, di scienze sociali, di divulgazione scientifica per far discutere, per incidere nel dibattito pubblico, per contribuire alla crescita del senso critico. Non è questo il significato della formula ‘editoria di cultura’?
Ma come possiamo pensare di continuare a essere editori di cultura in un ecosistema in cui il flusso costante di contenuti informativi si disperde - salvo pochi casi straordinari, alcuni dei quali ho nominato facendo riferimento al catalogo Laterza - in tanti rivoli che arrivano spesso a poche centinaia o a poche migliaia di persone?
Il libro non rischia così di cambiare il suo ruolo, il suo significato, la sua ragion d’essere?
E noi professionisti del settore dobbiamo rassegnarci al fatto che semplicemente il mercato dell’attenzione si è polarizzato come mai in passato? E dobbiamo prendere atto che c’è un certo numero di autori cui nomi funzionano come marchi di successo e garantiscono la vendita di molte decine, in qualche caso centinaia, di migliaia di copie a fronte di moltissimi altre proposte che nel migliore dei casi raggiungono singole e ridotte nicchie del mercato?
È quello che rimane da fare è sperare di fare ‘esplodere’ nuovi casi editoriali o ampliare almeno un po’ la lista dei bestselleristi per permettersi di continuare a pubblicare anche titoli meno sicuri? O dobbiamo immaginare formule nuove, esercitare di più la nostra immaginazione per far sì che siano sempre più le proposte che raggiungano una fascia di diffusione un po’ più alta?
Come per fortuna - ci tengo a dirlo - riusciamo a fare ancora in molti casi, cercando di valorizzare le qualità straordinarie di tanti autori e autrici.
Sono questioni su cui spesso ci confrontiamo tra colleghi e colleghe anche di altre case editrici. Perché siamo tutti consapevoli che non possiamo fare il nostro lavoro come se nulla fosse cambiato negli ultimi vent’anni. Molti sono i fattori che concorrono a una fruizione della cultura sempre più frammentata.
Se troppo spesso libri che sono pensati per una diffusione ampia e per suscitare dibattiti pubblici non raggiungono il loro obiettivo, e questo accade più di quanto accadeva in passato, abbiamo delle domande da porci
Cosa è cambiato
È cambiata l’università, che non è più come un tempo il luogo di diffusione della saggistica anche specialistica. Questo ha ridotto lo spazio di circolazione di certe pubblicazioni, e forse ha anche cambiato il tipo di familiarità delle nuove generazioni di studenti con l’oggetto libro.
Ma a proposito di familiarità con il libro, va registrato un cambiamento complessivo nel nostro modo di prestare attenzione al discorso scritto, abituati come siamo a una modalità di comunicazione sempre più rapida e dispersiva.
Ancora, e da lì siamo partiti, è cambiato il ruolo dei giornali, che hanno ridotto drasticamente le loro tirature e incidono infinitamente di meno nell’orientare le scelte dei lettori.
Si è trasformato il ruolo che attribuiamo alla politica, sono venute meno figure a cui attribuivamo il ruolo di ‘intellettuali’.
L’affermazione dei social ha permesso a chiunque di produrre e diffondere contenuti entrando per certi versi in concorrenza con il tempo che potremmo dedicare alla lettura di discorsi strutturati in in un libro. E, dall’altro lato, una promozione che si basa su influencer e Tik Toker può funzionare per qualunque tipo di libro o alcuni generi e alcuni temi sono penalizzati?
Infine, per tornare in un ambito più specifico, vogliamo ricordare tra le tante trasformazioni che oggi oltre il 40 per cento dei libri viene acquistato nei canali online? E visto il ruolo straordinario delle librerie per proporre e promuovere novità e titoli di catalogo, questo dato evidentemente ha un ruolo importante nel processo che stiamo descrivendo.
Tutti questi cambiamenti impongono una riflessione seria su come oggi un saggio vada pensato, realizzato e comunicato per tenere insieme originalità dei contenuti, rigore nella trattazione, efficacia comunicativa.
C’è bisogno più che mai di strumenti per capire il mondo che ci circonda, per tenere vigile il nostro senso critico, per immaginare costantemente delle alternative rispetto a quelli che sembrano dei destini ormai inevitabili su molti fronti.
Che questo bisogno sia vivo e diffuso lo testimoniano tra l’altro le decine di migliaia di persone che ogni anno affollano le piazze e i teatri italiani per assistere a lezioni, performance, letture nei tanti eventi culturali che animano le nostre città.
Che ci sia ancora bisogno di libri lo testimonia un mercato che vale da solo più di 3 miliardi di euro (dato superiore al settore delle pay tv e a quello dei videogiochi, per intenderci). E siamo affezionati proprio ai libri di carta se è vero che e-book e audiolibri pesano solo il 6 per cento del mercato complessivo.
Ma pubblicare implica la necessità (perdonate il banale gioco di parole) che un pubblico ci sia. In alcuni casi il pubblico è limitato per definizione: ci sono testi specialistici o di ricerca che per loro natura si rivolgono agli addetti ai lavori e all’accademia. E va bene così.
Ma se troppo spesso libri che sono pensati per una diffusione ampia e per suscitare dibattiti pubblici non raggiungono il loro obiettivo, e questo accade più di quanto accadeva in passato, abbiamo delle domande da porci.
Sulla quantità forse eccessiva dei libri che pubblichiamo (personalmente penso che questo sia un punto importante), sull’efficacia della scrittura, sulle formule editoriali, sui temi che proponiamo, sui canali di comunicazione che possiamo utilizzare, sulle nuove logiche distributive…
Sono convinta, come credo tutti noi che lavoriamo in questo settore, che il libro abbia davanti a se ancora un luminoso destino. Ma perché questo sia vero, dobbiamo prendere atto che i cambiamenti in corso nella filiera del settore editoriale e anche nelle attitudini dei lettori sono profondi e radicali. Da questa consapevolezza mi sembra necessario ripartire.
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Come rispondere alla politica della rabbia: il dibattito su Appunti
I sostenitori della democrazia liberale sembrano destinati a diventare una frustrata minoranza, per effetto della rapida scomparsa dei partiti più moderati, per l’ascesa delle destre radicali e per l’affermarsi di figure e forze anti-sistema, non più soltanto populiste ma anti-democratiche.
Da Donald Trump negli Stati Uniti, ad Alternative für Deutschland in Germania, a Nigel Farage in Gran Bretagna, a Marine Le Pen e Jordan Bardella in Francia.
Questo rinnovato successo delle foze più antidemocratiche ha colto molti di sorpresa e suscita sconcerto.
Cosa si può fare? Ne discutiamo su Appunti per tutta l’estate.
Appunti e Dieci Rivoluzioni
Il Podcast: La Confessione
Ascolta La Confessione, il podcast di inchiesta che rivela per la prima volta da dentro come funziona il sistema di copertura e insabbiamento degli abusi sessuali nella Chiesa cattolica italiana.
Un podcast realizzato da Stefano Feltri, Giorgio Meletti e Federica Tourn, realizzato grazie al sostegno della comunità di Appunti. Con la collaborazione di Carmelo Rosa e la consulenza per musiche ed effetti di Stefano Tumiati.
Articolo molto interessante. Mi ritengo un lettore abbastanza forte, nel senso che leggo una quindicina di libri all'anno. Di questi un terzo (quindi 5) sono di saggistica e solitamente almeno un paio sono classici mentre per i rimanenti tre cerco delle novità interessanti. Secondo me il problema principale è la mancanza di strumenti di critica che aiutino il potenziale lettore a "filtrare" la enorme produzione di novità. Ad esempio io leggo l'inserto "La Lettura" del Corriere della Sera per avere idee delle novità e se un articolo di recensione mi incuriosisce vado in libreria per vedere dal vivo il libro e decidere se procedere all'acquisto o meno. E' chiaro che di fronte alla strabordante pubblicazione di novità il lettore medio senza bussola si trova come il telespettatore che la sera ha 500 canali possibili più archivi immensi di servizi streaming trai quali scegliere: bene l'abbondanza ma un Virgilio per orientarsi nel mare magnum della produzione servirebbe!
Solo oggi, al rientro di 5 gg. di vacanza senza pc, ho letto il suo Interessante scenario editoriale. Complimenti, signora editor. Non credevo che il settore si reggesse così bene. Anzi, in tempi come questi, dove la tastiera telematica (stupenda invenzione!) ha di sicuro moltiplicato a dismisura i tentativi e le tentazioni di scrivere, e quindi le richieste di pubblicare, immaginavo un settore con molti più scrittori che lettori. E quindi in affanno.
Perdoni però, gentile dottoressa, se deraglio il treno dei commenti sul suo bel panorama librario con una sorta di “Cicero pro domo sua”. Come si dice, per fatto personale. Ma, vede, fin dagli anni del liceo, l’amore, chissà quanto contraccambiato, per la scrittura, mi ha portato a mettere nero su bianco gli sfarfallii fantastici tipici della giovane età. E anche dopo, riservandomi la vita tutt’altro habitat, a tempo perso, sillabando a un pollice sulla “Lettera 22” di mio padre, venivano fuori brevi e lunghi racconti, talora quasi romanzi, che a leggere e rileggere, però, vi scorgevo solo intrinseca banalità, che mi pareva dicesse: “a grullo, e quando smetti!”. Ma niente. Dopo brevi o lunghi periodi di “blocco”, lo scrittore, apprendista stregone, imperterrito, ha sempre ripreso a ricamare le proprie sublimazioni esistenziali transustanziandole per iscritto. E, rigorosamente, in modo clandestino: mai venuto l’uzzolo di una pubblicazione. Nonostante qualche esclusiva mia lettrice, che coi libri sa il fatto suo, mi abbia sempre indotto alla tentazione della casa editrice: “si pubblica – insisteva – molto di peggio”. Ma a me, questo ascoso cimento, questo “mal di scrivere”, abusivo e incontenibilre, andava bene così, pur non ritenendolo degno della nobiltà del libro. Fino a un paio d’anni fa.
Correva la sciagura della pandemia, ma anche il memoriale dantesco. E mi venne il ghiribizzo, a 75 primavere, di fare al grande poeta un omaggio. “Omaggio a Dante”, infatti ho titolato quelle centinaia di pagine nelle quali, in estemporanei endecasillabi di terzine concatenate, in pseudo sintassi da dolce stil novo, ho fatto fare al sommo vate, e al maestro Virgilio, tra il serio e il faceto, un giro turistico tra Roma, Firenze e Milano ai giorni nostri. Fino ad assumerlo, essendo a tutti ignota la sua effettiva dimora ultraterrena, nell’Empireo celeste. Come gli spetta di diritto. Mi ci sono divertito, debbo dire. Fra pause e scoramenti, oltre un anno di lavoro. Ho mandato il file a una decina di persone. E, a parte qualcuna che ha trovato un testo troppo intellettuale (non so perché), è piaciuto. Sulla cui sincerità, però, non giurerei perché, come si dice, “a caval donato ..”. Fatto sta che, sia per l’insistenza di qualcuno/a, sia perché quasi convinto pure io d’aver fatto non un capolavoro ma un buon lavoro, ho pensato, per la prima volta, alla pubblicazione, e mi sono affacciato un po’ nel mondo della editoria. Mai l’avessi fatto. Mandato il file a tre o quattro case editrici, pur incassando favore per il lavoro, le condizioni offerte per la pubblicazione mi sono tutte apparse balzane. Per qualcuna avrei dovuto acquistare non so quante centinaia di copie. Per altre, mi gravava un costo per oltre 3.500 euro, proibitive per la mia risicata pensione. Ho quindi dovuto desistere relegando intenzioni e opera in un desolato scaffale del mio pc. Insieme a tutto il resto. In onore del re di Prussia.
Ma ora, letta la sua analisi del pianeta editoriale su Appunti, roccaforte di Stefano Feltri che è una penna fra le più moderne e raffinate in circolazione, mi è venuta un’idea stupenda. A me, direbbe Totò, piace. Non so quanto a lei, gentile dott.ssa Di Trapani. Laddove, con precisione quasi chirurgica fonda la positività del bilanci editoriali sul 70% del copioso venduto e assegna il restante 30% al pubblicato che a malapena vende solo una copia, ecco: mi piacerebbe sapere in che girone potrebbe finire il mio “Omaggio a Dante”. Ho preso scienza di competenze e poteri dell’editor che, a quanto pare, è la figura più autorevole circa i giudizi sui testi. E se poi, come nel caso, è un editor che fa capo alla “Laterza” (quanti suoi libri, a scuola!) da oltre 20 anni, la garanzia è a prova di bomba. Come se un vinello fatto in casa lo si affidasse per un giudizio all’enologo in servizio presso una fra le più rinomate cantine di champagne francese.
Naturalmente la degustazione del mio vinello, l’“Omaggio a Dante”, non deve comportarle in nessun modo, gentile dottoressa, disagi di sorta. Nel caso non ne comporti, e la ringrazio, mi dica come farle avere il file. Nel caso ne comporti, pazienza. Torno nella miseria, ma non mi lamento. Conciosiacosaché , scusandomi per la forse bislacca ortodossia con cui mi sono permesso di coinvolgerla, le auguro un buon lavoro e la saluto molto cordialmente. Gianni Lecca.