A ciascuno la sua rabbia
IL DIBATTITO DI APPUNTI - I rigurgiti conservatori di chi contesta troppa uguaglianza e rivuole privilegi perduti non vanno assecondati. Ci sono molte rabbie diverse che richiedono risposte diverse
Certa rabbia, pur prevedibile e comprensibile, semplicemente non va ascoltata. Non tutte le rivendicazioni di status vanno prese sul serio
Gianfranco Pellegrino
Buon lunedì a tutti,
in questo agosto sempre più caldo, ci lasciamo alle spalle almeno per un giorno le polemiche olimpiche e torniamo al dibattito di Appunti su come rispondere alla politica della rabbia (anche se, in realtà, ci sono molti punti di contatto, come si deduce dal pezzo di Filippo Riscica sul caso di Imane Khelif).
Oggi interviene Gianfranco Pellegrino, filosofo, professore alla Luiss di Roma, che ho imparato ad apprezzare nei miei anni a Domani.
Gianfranco è uno di quei rari filosofi che riesce a essere molto presente nel dibattito sull’attualità con un punto di vista sempre netto e con solide fondamenta accademiche, senza però sommergere il lettore di citazioni e riferimenti.
Come leggerete, la sua prospettiva è molto utile al dibattito che stiamo facendo qui su Appunti perché contesta alcune delle premesse - implicite ma rilevanti- della discussione. Cioè che tutte le rabbie siano meritevoli di attenzione e vadano ascoltate, e anche che ci possa essere una soluzione unica per rabbie diverse.
Come sempre, fateci sapere cosa ne pensate
Buona lettura,
Stefano
Il dibattito di Appunti - Come rispondere alla rabbia
I sostenitori della democrazia liberale sembrano destinati a diventare una frustrata minoranza, per effetto della rapida scomparsa dei partiti più moderati, per l’ascesa delle destre radicali e per l’affermarsi di figure e forze anti-sistema, non più soltanto populiste ma anti-democratiche.
Da Donald Trump negli Stati Uniti, ad Alternative für Deutschland in Germania, a Nigel Farage in Gran Bretagna, a Marine Le Pen e Jordan Bardella in Francia.
Questo rinnovato successo delle foze più antidemocratiche ha colto molti di sorpresa e suscita sconcerto.
Cosa si può fare? Ne discutiamo su Appunti per tutta l’estate a partire dal libro di Carlo Invernizzi-Accetti Vent’anni di rabbia (Mondadori)
Quali rabbie ignorare e quali ascoltare
di Gianfranco Pellegrino
La nostra epoca è l’epoca della rabbia, secondo Carlo Invernizzi-Accetti: la rabbia unisce episodi e rivendicazioni disparate, dal movimento no global al populismo dei Gilet jaunes, e la rabbia nasce dal mancato riconoscimento della dignità.
L’umore politico fondamentale della nostra epoca è una rabbia da misconoscimento. Il misconoscimento morde di più della maldistribuzione, cioè delle diseguaglianze economiche e della povertà. O meglio: il misconoscimento è una fonte dell’ingiustizia, che rimane anche quando la maldistribuzione è risolta.
Come nota Stefano Feltri, gli operai che protestano per i salari bassi vogliono, oltre alla redistribuzione, il riconoscimento della loro identità sociale, della loro classe (questo era chiaro a studiosi della storia delle lotte per il riconoscimento come Craig Calhoun, E.P. Thompson e Barrington Moore). E la redistribuzione meramente economica non soddisfa quest’ansia di riconoscimento.
Risolvere la maldistribuzione non risolve automaticamente il misconoscimento (e viceversa).
Anche in condizioni di prosperità economica relativa e di diseguaglianza limitata, persone e gruppi possono protestare perché non viene riconosciuto il loro status e la dignità che vi è connessa.
Questo spiega, secondo Invernizzi-Accetti, il persistere di proteste nella ricca Europa, dopo le risposte anti-austerità alla crisi economica, alla pandemia, ai costi della transizione ecologica.
E spiega perché le proteste siano puntiformi, improvvise, di breve durata, spesso non propositive.
Perché sono le proteste di chi viene misconosciuto, di chi, proprio perché misconosciuto, non appartiene (più) a un gruppo sociale rappresentato da corpi intermedi, le cui rivendicazioni conflittuali si possono identificare, misurare con le altre, e possono sfociare in una composizione politica.
Il misconoscimento che crea rabbia è, per Invernizzi-Accetti, l’altra faccia del venir meno dell’intermediazione politica tradizionale, è il rovescio della medaglia dell’individualismo esasperato del nostro tempo, del nostro vivere in sciami che mutano forma continuamente e in bolle mediatiche e camere dell’eco.
Aver puntato solo sulla redistribuzione, trascurando gli aspetti di misconoscimento impliciti in molte lotte che apparentemente riguardano solo la distribuzione di beni e opportunità, è stato un errore
Stefano Feltri ha identificato quattro soluzioni alla rabbia da misconoscimento: policy (investimenti di spesa pubblica sulle cause materiali della rabbia), simboli (costruire una nuova retorica contrapposta alla retorica anti-democratica della rabbia e rifondare i valori della democrazia liberale), soluzione sociale (ricostruire canali di espressione e composizione della rabbia, al di là di quelli tradizionali, ormai inutilizzabili: dare forma a una coscienza di classe degli arrabbiati e a nuove modalità di partecipazione politica), contrattacco (lottare contro la rabbia con gli stessi mezzi: repressione giudiziaria, innalzamento dei toni, al limite violenza di difesa).
Nel suo libro, Invernizzi-Accetti propone e difende la soluzione sociale. Nadia Urbinati, qui, ha osservato che questa soluzione non può essere puramente sociale: deve trovare uno sbocco nelle istituzioni della democrazia politica, cioè principalmente nei partiti.
Una soluzione per tutto?
C’è un assunzione implicita in questa discussione. La soluzione migliore è quella che meglio ripara e soddisfa l’istanza di riconoscimento e c’è una sola soluzione. Siccome la rabbia da misconoscimento unifica fenomeni apparentemente diversi, allora la soluzione varrà per tutte queste diverse rivendicazioni. Ma le cose sono più difficili.
Le persone e i gruppi che animano i vari fenomeni di protesta ‘rabbiosa’ dei nostri anni hanno istanze diverse e pretendano modalità diverse di riconoscimento. È così perché in realtà differenti forme di riconoscimento sono possibili.
C’è un riconoscimento che nasce nella comunità, nelle sfera sociale dove i soggetti lottano per il riconoscimento reciproco, e in questa lotta si riconoscono come dotati di eguale dignità e capacità di essere autonomi: anzi si fanno soggetti proprio lottando per il riconoscimento e venendo riconosciuti da altri come soggetti da riconoscere. In questa modalità di riconoscimento (teorizzata da Hegel), la società è tutto: anzi, la politica e la comunità politica sono tutto.
Le relazioni sociali vengono prima di tutto il resto, perché solo all’interno di certe relazioni sociali – quelle dove si dà partecipazione e conflitto politico strutturato – si può diventare soggetti eguali, cittadini consapevoli ed eguali.
Questa è la forma di riconoscimento che Invernizzi-Accetti preferisce, credo (e non è molto individualista, e forse in questo sta l’insoddisfazione di Urbinati, che ricorda l’importanza degli individui e dell’individualismo nella democrazia).
Ed è ovvio che la società dove viviamo, senza sfere di partecipazione politica, senza corpi intermedi, senza un conflitto sociale strutturato e organizzato, senza soggettività e collettività soggettive, fatta solo con individui, sciami e bolle impedisca questo tipo di riconoscimento.
Sicuramente la rabbia di alcune persone e gruppi reagisce a questa condizione. Per esempio, chi si affida ai leader populisti nella speranza di essere rappresentato meglio che ricorrendo alle procedure standard del gioco democratico reagisce probabilmente al deficit di partecipazione tipico delle democrazie di massa e al misconoscimento che ne deriva.
Lo stesso vale per i movimenti che rappresentano istanze fino a poco tempo fa non recepite dalla politica mainstream, come le alternative alla globalizzazione o l’ambientalismo.
Questo tipo di misconoscimento, chiamiamolo il misconoscimento dei soggetti sociali eguali, si può sicuramente riparare rivitalizzando i corpi politici intermedi e del conflitto sociale strutturato e riattivando in tal modo i circuiti dell’eguaglianza politica.
Questa soluzione garantisce che tutti i gruppi abbiano la stessa possibilità di partecipare ed essere rappresentanti, ottenendo quella che Nancy Fraser chiama parità partecipativa, e che serve a rettificare sia il misconoscimento sia la maldistribuzione.
Misconoscimento della differenza
Ma ci sono altre forme di miconoscimento che hanno caratteristiche molto diverse e potrebbero richiedere soluzioni differenti. Ci sono casi, per esempio, in cui sono in ballo identità culturali specifiche, di gruppo, come nel caso di minoranze etniche, culturali, sessuali o di genere.
In queste situazioni, non serve ricostituire corpi politici intermedi che mettano insieme individui atomizzati. Piuttosto, si deve letteralmente riconoscere, nel senso di dare voce e porre al riparo dallo stigma e dalla discriminazione, chi si sente già parte di un gruppo e rivendica per sé e gli altri membri l’eguale opportunità di presenza sociale, di stima e rilevanza.
I casi ovvi sono quelli coperti dalla discussione sul multiculturalismo o sulle differenze di genere. Sono casi meno ovvi, ma ricadono in questa specie, le rivendicazioni identitarie che potremmo definire di ex maggioranze, o maggioranze apparenti – i gilet jaunes, gli hillibilly –, che forniscono la base di consenso dei populismi di destra.
Questa modalità, che potremmo chiamare misconoscimento della differenza, non è egualitaria. Questi gruppi rivendicano il riconoscimento della loro differenza, come accade nel caso delle molteplici identità culturali e di genere delle minoranze etniche e del mondo LGBTQ+.
La risposta a questa richiesta di riconoscimento non può essere la composizione del conflitto o l’inclusione in corpi intermedi di partecipazione. Questi gruppi richiedono di mantenere la loro differenza, senza che questo comporti stigma. Richiedono azioni affermative, politiche identitarie, tutele della differenza.
La vera risposta a questo tipo di misconoscimento è tutta la congerie di policy riconducibili al cosidetto politicamente corretto e alle varie modalità di politiche della differenza e dell’azione affermativa .
Privilegi perduti
Certe altre istanze di riconoscimento della differenza sono ancora più fortemente anti-egualitarie di così. In questi casi, è in ballo lo status inteso come bene posizionale, cioè come rendita di posizione di ex privilegiati. Qui la richiesta è di riconquistare uno status di superiorità perduto. Si tratta di un misconoscimento del privilegio perduto, per così dire, inteso come base della propria identità sociale e individuale.
Questo tipo di istanza di riconoscimento è tipica di certi fenomeni come la Brexit o le proteste populiste di destra. È la richiesta di ritornare a un presunto ordine morale passato, di mantenere una società di classi in cui le gerarchie sociali non sono soltanto fisse, ma sono anche base di riconoscimento degli individui.
Questo tipo di riconoscimento mescola l’idea hegeliana di soggetti che si costituiscono nella lotta per il riconoscimento con la visione hobbesiana (ripresa da Rousseau) in cui ogni individuo ambisce ad avere più potere e stima sociale di altri e, pur vivendo tutti in una condizione di eguaglianza, ognuno vorrebbe primeggiare sugli altri.
Da qui deriva l’invidia sociale e il mito del merito e della competizione. Da qui nasce il sentimento di risentimento dei perdenti della globalizzazione, che hanno visto le loro tradizionali rendite svanire per via della globalizzazione e delle tendenze che hanno eroso le società ingessate e chiuse della prima metà del Novecento.
In questo caso la rabbia da misconoscimento non deriva da promesse mancate della democrazia o dalle lacune simboliche delle politiche di redistribuzione. Il problema, per questi gruppi, è semmai un eccesso di democrazia e di eguaglianza, o un mercato del lavoro troppo vorticoso e globale, che li porta a vedere la loro voce e il loro status perdere l’importanza che avevano avuto nel passato.
Come rispondere a questa richiesta di riconoscimento non è chiaro, dato che certe tendenze sono inarrestabili e tornare alla vecchia cara società di classe di una volta è impossibile.
Ma è certo che per rispondere a questo tipo di rabbia da misconoscimento non serve né la soluzione sociale di Invernizzi-Accetti, né la soluzione multiculturalista o differenzialista. Questo tipo di riconoscimento è intrinsecamente anti-egualitario e conservatore. Ma è ciò che sta dietro a molti dei fenomeni di protesta degli ultimi vent’anni.
Risposte diverse
Abbiamo dunque almeno tre tipi di istanze di riconoscimento. Il riconoscimento dei soggetti eguali si accompagna e completa le lotte per le redistribuzione e reagisce a un deficit di partecipazione e rappresentanza.
Questo è il riconoscimento invocato dai movimenti no global, dai movimenti antiausterità, forse dai movimenti ecologisti (che rappresentano le generazioni future e la natura non umana, e danno voce alle loro rivendicazioni), forse da una parte del populismo di sinistra. A questo tipo di misconoscimento si deve rispondere con nuove forme di partecipazione e migliore rappresentanza, siano esse collocate a livello di società (attivismo della società civile) o a livello politico (partiti e simili).
Il riconoscimento delle differenza anima le rivendicazioni di gruppi di minoranza che chiedono di fermare lo stigma e la discriminazione. Questo è il riconoscimento invocato dai movimenti LGBTQ+, dal #MeToo e dal #BlackLivesMatter. A questo tipo di misconoscimento si deve rispondere con politiche multiculturaliste e politiche affermative migliori, che rendano stabili e coerenti le società multiculturali e pluraliste in cui viviamo.
Il riconoscimento del privilegio perduto anima le rivendicazioni di ex maggioranze che chiedono di restaurare l’ordine del passato, che li vedeva detenere il potere e uno status superiore. Questa è la richiesta che viene dai populismi di destra, dal popolo della Brexit, dagli elettori di Trump, di Orbàn, dai gilet jaunes, dai piccoli imprenditori agricoli che protestano contro le misure del Green Deal. A questo tipo di misconoscimento si può rispondere solo con politiche di conservazione, o anzi con una vera e propria restaurazione, con separazioni, sciovinismo e intolleranza, non con progetti di convivenza pacifica.
Se la rabbia da misconoscimento esprime rivendicazioni così diverse, le soluzioni non possono essere univoche.
La richiesta di chi vuole ritornare agli antichi privilegi va in senso contrario alle richieste di chi vuol essere riconosciuto come gruppo accanto agli altri o vuole spazio per le proprie specificità culturali.
Il riconoscimento del privilegio perduto vuole restaurare la superiorità di certi ceti e recalcitra contro le tendenze egualitarie. Gli altri due riconoscimenti invece reagiscono a forme di subordinazione che vedono come non solo materialmente ma anche simbolicamente ingiuste.
Non soltanto la soluzione non è univoca. Quest’analisi ci chiede anche di prendere posizione. Le istanze di riconoscimento degli ex privilegiati non vanno accolte. Sono meri rigurgiti conservatori. Sono la reazione, in senso letterale, a una società che è diventata più eguale.
Mettere insieme tutti i gridi di rabbia è fuorviante. Certa rabbia, pur prevedibile e comprensibile, semplicemente non va ascoltata. Non tutte le rivendicazioni di status vanno prese sul serio.
Sono combattuto nell’accettare la soluzione prospettata per il terzo tipo di misconoscimento.
Per indole sarei d’accordo: con la rabbia da privilegio perduto non si discute. Però vedo che se non te ne occupi, è lei ad occuparsi di te.
Oggi riflettevo fra me e me che fra tutte le istanze di protesta sociale che ci sono in giro, quelle contro i diritti delle comunita' LGBTQ+ sono le uniche che proprio non arrivo a capire.
Posso capire (non condividendo) una destra conservatrice che ha da ridire sulla migrazione, sussidi sociali, famiglia, ambiente e altro a cui si oppone per mantenere questa fantasia di societa' "di una volta" che staremmo perdendo. Posso capire questa cosa del misconoscimento dei propri valori.
Ma proprio non riesco a trovare alcun senso nel negare il diritto a una persona di vivere i rapporti personali come si sente. Voglio dire, ma qual e' il problema. Mica che i queer corrompono i preziosi figli. Mica e' colpa dei queer se la natalita' e' sotto zero. Non riesco a classificare l'opporsi a questo specifico cambiamento sociale in nessuna delle categorie menzionate in questo articolo. Di conseguenza, in questo caso, questa frustrazione mi sembra proprio priva di alcun fondamento.