Lo spazio instabile della democrazia
Il meccanismo del feed delle notizie, che è alla base di social come X, Instagram e TikTok, impedisce la realizzazione di uno spazio accessibile da tutti, per tutti condivisibile e stabile
Le piattaforme social sono diventate una parte integrante delle nostre democrazie, dunque non possono più rispondere unicamente al mercato e alla massimizzazione del profitto. Devono rispondere, se vogliamo vivere in una stabile democrazia liberale, alle regole democratiche
Filippo Riscica
Qualche settimana fa, la Corte costituzionale rumena ha annullato le elezioni per presunte interferenze straniere sul voto. Queste interferenze sarebbero avvenute online, specialmente attraverso TikTok.
La decisione della Corte ci ricorda, se ce ne fosse stato il bisogno, che le piattaforme digitali sono parte integrante della politica contemporanea. Di questo fatto, si possono dare due letture.
La prima lettura riguarda il ruolo della disinformazione e delle fake news nel caso specifico. Questa è una domanda empirica. Se ci sia stata o no disinformazione è un fatto che va appurato. E se c’è stata disinformazione, va appurata l’ampiezza del fenomeno e delle sue ricadute.
Per esempio, non è scontato che se c’è stata disinformazione su TikTok, questa abbia avuto una portata sull’elettorato tale da influenzare il risultato delle elezioni. Domande di questo tipo sono molto problematiche perché, per rispondere, bisogna appellarsi a nessi causali tra informazioni diffuse e opinioni degli elettori che sono molto difficili da appurare e valutare.
La seconda lettura credo sia più interessante. Con il suo intervento, la Corte costituzionale rumena ha riconosciuto che lo spazio virtuale è, a tutti gli effetti, uno spazio della democrazia. Uno spazio che, se turbato in maniera non democratica, può portare all’invalidamento delle elezioni. Questa non è una questione empirica. È una presa d’atto di una nuova condizione della democrazia. Soprattutto, è una presa d’atto che ha valore per tutti.
L’instabile spazio virtuale
Lo spazio virtuale è una sorta di realtà parallela. Non è una replica dello spazio fisico che è stato—a fatica—reso uno spazio democratico. È, per così dire, un nuovo livello della realtà. Un livello con regole e forme proprie.
A essere nuove non sono la disinformazione o le fake news. Come nuova non è l’influenza di forze esterne alla democrazia. A essere nuove, sono le regole del gioco di questi spazi.
La realtà su cui si sono formate le democrazie è uno spazio fisico stabile, uguale per tutti e condiviso. È anche uno spazio di cui possiamo tenere traccia. Invece, lo spazio virtuale delle piattaforme social è profondamente instabile e soggettivo.
È uno spazio instabile perché i feed dei social sono costantemente aggiornati a ogni accesso in un modo che non possiamo controllare.
È uno spazio soggettivo perché le informazioni mostrate sono cucite sugli interessi individuali. Per esempio, è possibile che non esistano al mondo due persone che ogni giorno vedono lo stesso identico feed. Quindi, lo spazio dei social non è condiviso.
Inoltre, è difficilmente registrabile e ripercorribile.
Non è registrabile perché non possiamo decidere di rivedere cosa ci ha mostrato il feed in un certo giorno.
Non è ripercorribile perché non possiamo ritornare sui nostri passi una volta che il feed è stato aggiornato. Se volessi rivedere cosa mi mostrava Instagram questa mattina, non potrei farlo. Allo stesso modo, non potrei ricontrollare le versioni dei feed che mi sono state mostrate nei giorni precedenti un’elezione passata.
Per fare un paragone, se sappiamo che nei giorni precedenti le elezioni del 2022, io leggevo sempre il Sole 24 Ore, potrei andare nell’archivio e rileggere, giorno per giorno, gli articoli. Così facendo, potrei essere in grado di ricostruire una parte dei ragionamenti o delle notizie che mi hanno portato a compiere la scelta di voto che ho fatto. Inoltre, chiunque potrebbe verificare cosa ho letto.
Invece, se la mia fonte è Instagram, non potrei vedere cosa mi mostrava il feed nei giorni precedenti le elezioni. Non potrei, quindi, ricostruire parti importanti dei miei processi decisionali. Prendo Instagram come esempio, ma il discorso vale anche per le altre piattaforme.
Inoltre, è uno spazio la cui gestione è fortemente verticistica e centralizzata. Con ciò, intendo dire che le regole che determinano, anche solo indirettamente, cosa viene mostrato sono decise dalle aziende che gestiscono questi spazi.
Non possiamo influenzare queste regole. Per esempio, non c’è modo per le comunità locali di creare un proprio sistema di responsabilità. Ossia, di identificare delle figure, con cui sia possibile parlare e discutere, che siano responsabili per le scelte organizzative dell’informazione mostrata.
Se lo spazio del feed fosse uno solo per tutti, potremmo, unendo le nostre memorie, essere in grado di avere un’idea approssimativa di quello che abbiamo visto e letto. Certo, una ricostruzione mediata dalla memoria collettiva sarebbe, come ci insegnano gli storici, fragile ma pur sempre qualcosa.
Spazio virtuale e democrazia
Il fatto che lo spazio online sia instabile, non condiviso e non registrato introduce un problema che credo sia fondamentale per la democrazia.
Come ci ha insegnato Habermas, la democrazia liberale è nata anche a partire dallo spazio dell’opinione pubblica. Questo spazio era certamente uno spazio mediato da interessi particolari, ma disponibile su formati codificati (i giornali, le radio, le televisioni) e accessibile, in linea di principio, da tutti. Lo spazio dell’opinione pubblica era uno spazio condiviso, stabile e in parte registrato.
Internet di per sé non impedisce in alcun modo la creazione di uno spazio pubblico condivisibile tra persone, stabile e registrato. Tutt’altro.
Invece, la scelta dei social di seguire la strada del feed potenzialmente infinito e sempre cangiante è una scelta dettata dalla strategia di mercato perseguita: catturare la nostra attenzione e indurci a spendere quanto più tempo possibile all’interno di questi ambienti interagendo con essi.
Non credo che la scelta sia di per sé illegittima. Lo diventa, però, quando i social non sono più un passatempo ma uno strumento importante di informazione.
Il motivo per il quale il meccanismo dei feed diventa un problema che mina la legittimità dei social come strumento democratico è l’assoluta personalizzazione e la sempre cangiante alternanza di contenuti non ripercorribili. Questo crea una realtà in cui manca un elemento essenziale di uno spazio democratico che voglia essere partecipato da attori razionali: essere uno spazio che i partecipanti condividono.
Per usare un'analogia, è come se ogni volta che uscissimo di casa, la città intorno a noi cambiasse. In larga parte, rimarrebbe una città simile. Stesso tipo di posti, negozi ed eventi, ma ogni volta con un ordine diverso. Inoltre, nessuno di noi vivrebbe la stessa identica città.
Il fatto che manchi uno spazio condiviso non è un problema da poco. In primo luogo, perché nessuno può contestare la nostra esperienza della realtà mediata dai social. Non lo può fare, perché non ce l’ha a disposizione.
Questo fatto si connette a un altro problema. Non potendo sottoporre la realtà che viviamo sui social a un mutuo controllo, rischiamo di perdere la capacità di ragionare collettivamente sui problemi.
Per esempio, la percezione dei problemi presentati nei social potrebbe benissimo essere influenzata dal tipo di notizie che li hanno preceduti.
Anche sui giornali la stessa notizia può avere effetti differenti in base a fattori come le altre notizie che vengono date o lo stile dei titoli. Però, su di un giornale io posso ricontrollare più volte la cornice all’interno della quale sono presentate le notizie. Inoltre, anche gli altri possono fare lo stesso. Sui feed, invece, questo non può essere fatto.
Mi si dirà che questo è sempre successo. Certamente. Però, se mi trovo di fronte a un disaccordo tra una persona che legge solamente Il manifesto e una che legge solo Il Corriere, posso in linea di principio ricostruire le fonti usate, confrontarle, elucidarne le assunzioni e forse anche indicare da cosa nascono le divergenze.
In presenza di una sequenza non ricostruibile di informazioni, sempre cangiante, e non controllata completamente dal soggetto, non è possibile condurre questa operazione.
Questo fatto crea una falla enorme da un punto di vista democratico. Anche in assenza di un effetto al momento reale, espone il sistema a un rischio enorme. Per usare una analogia, alcune norme costituzionali—come quelle che regolano chi ha potere—non vengono stabilite sulla base del rischio concreto attuale.
Invece, vengono stabilite sulla base della mera possibilità che il caso peggiore possa avere luogo. Nel momento in cui gli spazi online acquistano a pieno titolo un ruolo nello spazio democratico, dobbiamo stare attenti a queste falle.
Quindi, il problema principale non sono necessariamente la disinformazione e le fake news. Queste le abbiamo sempre avute. Piuttosto, il problema principale è che i social propongono uno spazio in continuo cambiamento e completamente soggettivo. Questa è una novità degli ultimi 20 anni.
Cosa fare?
Il punto non è introdurre elementi censori. Il punto è decidere cosa vogliamo da queste piattaforme e cosa è utile. Se da un lato non credo che la soluzione sia impedire l’iniziativa privata in questi ambiti, dall’altro non credo che si possa ignorare il cambiamento radicale avvenuto.
Il problema non sono gli algoritmi che determinano cosa vediamo. Infatti, gli algoritmi delle piattaforme altro non sono che la cristallizzazione di regole. Il problema è che queste regole sono decise in maniera completamente unilaterale. Il problema è che queste regole sono strumenti che rispondono unicamente agli interessi di chi le fa.
Però, se è vero che le piattaforme social sono diventate una parte integrante delle nostre democrazie, allora non possono più rispondere unicamente al mercato e alla massimizzazione del profitto. Devono rispondere, se vogliamo vivere in una stabile democrazia liberale, alle regole democratiche. Questo vuol dire che, come minimo, dovrebbero fornire una versione della realtà almeno in linea di principio condivisibile tra le persone.
Per sintetizzare, credo che una parte importante dell’idea di democrazia liberale sia legata al fatto che esista una sfera dell’opinione pubblica in linea di principio accessibile da tutti e per tutti uguale e stabile.
Il meccanismo del feed delle notizie, che è alla base di social come X, Instagram e TikTok, impedisce la realizzazione di uno spazio accessibile da tutti, per tutti condivisibile e stabile. Inoltre, l’instabilità di questi spazi è presente già a livello individuale.
A causa di questa instabilità, data dal continuo cambiamento delle notizie mostrate che non possono essere ripercorse, lo spazio dei social non rispetta le condizioni che ci aspettiamo da uno spazio democratico liberale.
Però, nel momento in cui queste piattaforme sono parte integrante delle nostre democrazie, non è più possibile considerarle solamente delle aziende di successo. Piuttosto, questi spazi devono rispettare le condizioni minime per uno spazio di opinione democratico.
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Sì è convincente e direi che illustra condizioni ragionevoli, sia pure in modo troppo pedante per ricavarne un obiettivo politico. In quale misura e come, in concreto, il sistema "podcast" tipo substack o choramedia sarebbe già in linea con i requisiti proposti da Filippo Riscica ? a me pare di sì e questo mi dà fiducia.
Sono un utente decrepito (86 anni si sentono, anche se la fortuna mi assiste) e mi affanno a capire come questo sistema dei podcast potrebbe costituire uno strumento cognitivo essenziale nel sistema politico democratico.
Da 12 anni ho la fortuna di vivere nella mia seconda patria, la Svizzera, in cui riesco a impegnarmi nelle frequenti campagne politiche (iniziative popolari e referendum). Qui ancora si respira una gloriosa tradizione radical-liberale, anche se il Gran Consiglio è virato a destra !
Non capisco neanche bene come organizzare 'sti podcast (in italiano o francese, o mal che vada in tedesco). Chiedo scusa per quest'ultima lagna.
Concordo. Ma questa è la parte del pessimismo della ragione. Resta da capire come fare. E questo è l'ottimismo della volontà: aver capito il problema è il primo passo. Ma non è facile.