Il referendum e la credibilità del Pd
Il mancato quorum non ha reso inutile la mobilitazione di questi mesi: se il partito si spende sul lavoro può tornare un riferimento a sinistra
L’ho vissuto in prima persona agli eventi a cui sono intervenuto nelle scorse settimane: da molti lavoratori e vari autodefinitisi ex elettori ho sentito dire “finalmente il Pd parla a sinistra e di sinistra”.
Pietro Galeone
Pietro Galeone è un economista, che nel suo lavoro di ricerca si occupa molto di lavoro, ma qui scrive nella sua veste di responsabile Lavoro del Pd Lombardia
I referendum sono passati e, per chi come me ha partecipato in media a più di un evento referendario al giorno nell’ultimo mese, dovrebbe essere il momento di riposarsi un po’.
Finché non apro la stampa e leggo alcuni commenti, incluso di chi sulla carta è mio compagno di partito, che fanno fallire qualsiasi tentativo di relax. Perché non capisco come di fronte agli stessi dati si possano trarre conclusioni talmente diverse.
Che il quorum non sia stato raggiunto è ovviamente sotto gli occhi di tutti. Molto più complessa è invece l’interpretazione di cosa questi risultati significhino per i partiti di centrosinistra.
Traslare un piano elettorale (in questo caso referendario) su un altro (quello partitico) è sempre complesso, ma se lo si vuol fare va fatto bene.
Dal momento che alcuni esponenti del Partito democratico, tra cui addirittura la vicepresidente dell’Europarlamento, a neanche un’ora dalla chiusura dei seggi già fremevano per proclamare la sconfitta della linea di partito, mi sento in dovere, da dirigente regionale che si è speso per questi referendum, di chiarire innanzitutto cosa significano veramente questi dati per il centrosinistra, e poi cosa l’impegno referendario ha rappresentato per il Pd ben oltre il tema quorum.
Partiamo dai dati di contesto. La realtà è quella di un Paese in cui alle scorse elezioni europee, sostenute da una gran fanfara mediatica e istituzionale, è andato a votare il 48 per cento degli aventi diritto. A questa disaffezione generale si aggiunge un calcolo politico per il quale la maggioranza di destra e i partiti di centro invitano all’astensione ai quesiti sul lavoro.
E, come se non bastasse, l’intero sistema mediatico del Paese sceglie di ignorare questi referendum – dedicando ad esempio molta più attenzione al delitto di Garlasco di 18 anni fa, rispetto al quesito referendario sugli infortuni nei luoghi di lavoro dove muoiono tre lavoratori al giorno.
Di fronte a questo silenzio o addirittura agli inviti a non votare, nelle scorse settimane confrontandomi con colleghi e compagni di partito mi sbilanciavo dicendo che già un 25 per cento di partecipazione sarebbe stato un risultato positivo.
D’altronde, alle scorse europee, la somma dei voti di Pd, M5s e AVS, cioè dei partiti che a questi referendum hanno sostenuto i quesiti sul lavoro, è stata di 9.5 milioni. Cioè il 18.7 per cento degli aventi diritto.
Facendo qualche approssimazione, se come qualcuno suggerisce questi quesiti fossero troppo tecnici e inaccessibili, e pertanto questo weekend si fosse votato esclusivamente seguendo le indicazioni del partito per cui si era votato alle europee dell’anno scorso, avremmo osservato un’affluenza sotto il 20 per cento, con quasi tutti sì e pochi no – considerando le indicazioni dei partiti di centro e di qualche area minoritaria del Pd.
A votare sì sul lavoro, come indicato dai tre partiti di centrosinistra, sono stati invece più di 12,5 milioni di elettori, circa il 33 per cento in più rispetto a chi ha votato per quegli partiti lo scorso anno.
Si tratta, come sottolineato da molti, di più voti assoluti di quelli con cui la maggioranza governa dal 2022. In un Paese in cui la comunicazione è tutto, se proprio si vuole trarre una conclusione per la sinistra, è questo il risultato che andrebbe evidenziato.
Ovvio che per chiunque abbia votato nel merito dei referendum resta la delusione del mancato quorum, a prescindere da quanto irrealistico potesse essere.
Per milioni di lavoratori e italiani senza cittadinanza che speravano in un cambiamento immediato delle loro condizioni di vita da queste battaglie, resta un amaro in bocca che nessun calcolo può addolcire.
Ma se da questi risultati alcuni esponenti vogliono trarre conclusioni di partito, allora bisogna guardare le cose nel giusto contesto.
Spacciare per sconfitta l’aumento della partecipazione della propria parte politica di un terzo con in più il superamento dei voti dell’attuale maggioranza di governo, nonostante tutti gli ostacoli affrontati in questa campagna comunicativa, appare o come incapacità di applicare i dati al giusto contesto o esplicitamente come miope calcolo politico.
Così come miope è giudicare l’impegno di un partito come il Pd a questi referendum solo in base alla distanza raggiunta dal quorum. Perché c’è un altro merito di questa campagna referendaria che si intreccia solo in parte con i risultati di ieri, ed è quello di aver dato una direzione chiara al Pd.
Essersi schierati nettamente come partito e aver consentito a molti di noi dirigenti e militanti di impegnarci (come spesso si dice ma raramente si fa) “pancia a terra” per i 5 sì, ha ridato un’identità chiara di sinistra al Pd e lo ha riavvicinato a lavoratori, sindacati e molti elettori.
L’ho vissuto in prima persona agli eventi a cui sono intervenuto nelle scorse settimane: da molti lavoratori e vari autodefinitisi ex elettori ho sentito dire “finalmente il Pd parla a sinistra e di sinistra”.
Una campagna di questo tipo ha chiarito che il nuovo corso del partito, come già testimoniato dalla battaglia degli scorsi anni sul salario minimo, non ha dubbi su da che parte stare quando ci sono tutele per la parte debole da dover proteggere, quando ci sono ingiustizie a cui porre rimedio, quando c’è la parte lavorativa da sostenere – soprattutto in una fase di grandi transizioni produttive e riconfigurazioni delle dinamiche sociali come quella in corso.
Per questo, l’impegno nella campagna referendaria è stato fondamentale a prescindere dal risultato numerico dei referendum.
Oltre a essere un tema di civiltà, si tratta di uno sforzo che pian piano restituisce credibilità al Pd come partito che, a detta di quegli ex elettori ora più vicini, di sinistra aveva perso molto negli ultimi 10 anni.
Un partito di sinistra impegnato su questi temi, in sintonia con lavoratori e sindacati, serve più che mai a tutelare il lavoro non solo di fronte a ostacoli che possono sembrare “vecchi” come i licenziamenti illegittimi, ma anche di fronte a nuove sfide come l’intelligenza artificiale e la crescente concentrazione della ricchezza.
Queste sono le sfide che definiranno il tipo di futuro che ci attende, come sinistra ma soprattutto come società, e chi non riesce a cogliere l’importanza di avere un partito solido e compatto a fianco dei lavoratori in questi cambiamenti epocali, non fa bene alla sinistra e – nel caso dei dirigenti – anche al proprio partito, oltre che al Paese.
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Non sono d'accordo con l'autore dell'articolo. Una forza politica progressista che abbia l'intenzione di riconquistare gli elettori perduti deve manifestare la propria capacità di guida e di direzione sollevando questioni cruciali in parlamento, sede propria dell'elaborazione ed eventuale modifica delle leggi. Ricorrere al voto dei cittadini attraverso lo strumento non sempre adeguato del referendum è un errore che amplifica e mette in luce l'incapacità di guida politica degli attuali dirigenti.
Faccio un riassunto alternativo: i quesiti referendari sono stati disertati da più di 2/3 dei lavoratori (valutazione spannometrica, non troppo inesatta). Oggi, in Italia, vi è il record di assunti a tempo indeterminato. In che senso il PD si riconnette con i lavoratori? Ve la raccontate e ci credete da soli, mentre la vita delle persone va in tutt’altre direzioni