Ne resterà uno solo?
Se il Musk di governo era inquietante, il Musk all’opposizione può essere peggio: il tecnocapitalismo non è compatibile con la democrazia. Ecco gli scenari
Il movimento MAGA si è mangiato il partito Repubblicano, lo ha scalato e cannibalizzato contro il volere dei suoi esponenti più potenti. E poteva contare soltanto su un candidato fuori dalle regole che sapeva usare Twitter. Non è certo fantascienza pensare che uno come Musk possa condizionare le dinamiche di quel partito - magari già dalle elezioni di metà mandato nel 2026 - per cambiarne la natura
Cosa resterà di questo scontro tra Donald Trump e Elon Musk? E cosa ci dice di quello che abbiamo visto fin qui, cioè del tentativo del tecnocapitalismo di prendersi la democrazia americana e non solo?
Sono domande cruciali, alle quali molti mi chiedono di rispondere visto che martedì uscirà il mio libro Il nemico - Elon Musk e l’assalto del tecnocapitalismo alla democrazia (Utet), che ho già iniziato a presentare in giro.
E voi avete domande? Mandatemele qua via Substack, risponderò in una diretta apposita:
Il contesto è già cambiato rispetto al momento nel quale il libro è andato in stampa, ma non la mia analisi: per la prima volta c’è un nuovo capitalismo che rivendica il potere di indirizzare la politica senza mediazioni. Come ha fatto Elon Musk dalla Casa Bianca, addirittura dallo Studio Ovale.
Prima la chiave di lettura, poi i dettagli: negli anni del populismo abbiamo visto leader carismatici screditare la democrazia rappresentativa per sostenere che loro, in quanto rappresentanti diretti del popolo, dovessero essere i soli titolati a comandare. Giudici, burocrati, agenzie indipendenti - per i populisti - sono illegittimi, in quanto non eletti, che impediscono l’attuazione della volontà popolare.
Questo attacco illiberale alla democrazia e alle Costituzioni che la regolano, ha reso le istituzioni più fragili e meno legittime. Dunque scalabili dai tecnocapitalisti che hanno soldi, ideologia, strumenti per costruire e manipolare il consenso.
Elon Musk ha dimostrato che in quattro mesi e con lo 0,07 per cento del suo patrimonio poteva entrare alla Casa Bianca dalla porta principale senza essere eletto: a luglio ha fatto l’endorsement a Trump, a novembre era con lui a celebrare la vittoria.
Il secondo tempo della partita
Da gennaio a fine maggio ha messo i suoi uomini in tutti gli snodi dello Stato, ha licenziato chi doveva regolare le sue aziende, ha acquisito informazioni sensibili precluse ai suoi concorrenti. E adesso?
Adesso stiamo vedendo il secondo tempo della partita. Nel primo Musk ha conquistato il potere, è andato alla Casa Bianca a fianco di un uomo che chiaramente non stima e con il quale non ha argomenti di conversazione.
Musk ha preso quello che gli serviva, ha affermato la sua supremazia sugli altri tecnocapitalisti: Peter Thiel resta defilato e punta sul vicepresidente JD Vance, Jeff Bezos di Amazon è intimorito e sottomesso, Mark Zuckerberg cerca in ogni modo di compiacere Trump per evitare la sua furia, Tim Cook di Apple è in balia dei dazi trumpiani. Marc Andreessen e David Sacks sono allineati e compiacenti, mai oserebbero sfidare il sovrano di Mar-a-Lago.
Musk rimane l’unico che si considera alla pari di Trump e che Trump chiaramente teme: il presidente ha provato a gestire la separazione nel modo più consensuale possibile e senza strappi. Sa che Musk può essere molto pericoloso.
In questo secondo tempo della partita tra democrazia e capitalismo si misureranno i rapporti di forza, dopo la prima fase nella quale gli interessi di tutte le componenti del trumpismo erano allineate per conquistare il potere e neutralizzare il deep state che nel primo mandato aveva imbrigliato il caos del presidente.
Intorno a Trump ci sono due visioni in concorrenza: c’è il populismo economico e politico di Steve Bannon e c’è il tecnocapitalismo autoritario di Elon Musk, che trova in Curtis Yarvin l’ideologo principale.
Sono due visioni opposte, che usano Trump come ariete per scardinare l’ordine costituito e imporre il proprio: il populismo economico vuole imporre le esigenze di una (presunta) maggioranza di americani bianchi, middle-class, provinciali contro le due minoranze che la minacciano, le élite cosmopolite e i segmenti di popolazione che si considera oppressa (immigrati, afroamericani, LGBTQ+).
Il tecnocapitalismo spinge per una uscita dalla democrazia verso una dimensione di estremo elitismo: solo i pochi che hanno soldi e tecnologia possono determinare il destino degli altri.
Lo Stato - inteso come apparato amministrativo e come strumento della democrazia - è un ostacolo da aggirare, o abbattere, per sostituirlo con più efficienti soluzioni tecnologiche ai problemi che non riesce più a risolvere.
Il populismo economico ha bisogno di consenso, il tecnocapitalismo di poche regole e sudditi sottomessi.
A uno sguardo superficiale potrebbe sembrare che il populismo economico di Steve Bannon abbia prevalso sul tecnocapitalismo di Elon Musk, almeno questa è l’idea che Bannon prova ad accreditare. Ma è davvero così?
Musk ha dimostrato che è possibile, per un tecnocapitalista, arrivare al centro del potere. Ha scoperto che - alle condizioni in cui lo ha fatto lui e nella modalità attuale, cioè capo del Dipartimento per l’efficienza governativa - non è efficiente nel medio periodo e può essere troppo costoso.
Alcuni aspetti - non tutti - dell’impero di Musk stavano risentendo della sua permanenza alla Casa Bianca: la capitalizzazione di Tesla e la forza del suo brand, soprattutto. Ma tutto il resto prosperava alla grande: i contratti a SpaceX, gli investimenti su X-Twitter, la crescita disinvolta e spregiudicata di XAI e della sua intelligenza artificiale Grok.
La nuova sintesi
Non era pensabile che Musk passasse molto tempo a fare il commissario alla revisione della spesa, e neanche che gli interessasse davvero rendere più snella la pubblica amministrazione. Ha ottenuto informazioni, ha scardinato le resistenze regolatorie, ha visto il potere da dentro. E poi ha deciso di andarsene.
Per fare cosa? Forse per preparare il dopo. Esiste già una figura di sintesi tra populismo economico e tecnocapitalismo: JD Vance.
Il vicepresidente nasce come grande narratore delle sofferenze dei bianchi incolti degli Appalachi (sofferenze acuite, negli anni di Barack Obama, dal vedere alla Casa Bianca un presidente nero), studia e si inserisce nel sistema grazie al sostegno di Peter Thiel, poi si converte al trumpismo che avversava in nome del populismo economico.
E’ più giovane e duttile di Trump. Più oscuro e più metodico. E’ lui lo strumento ideale dei tecnocapitalisti: non è un caso che mentre Musk sceneggiava la sua rottura con Trump, Steve Bannon annunciasse che Trump troverà un modo per correre per un terzo mandato (oggi incostituzionale).
Trump sta mettendo le premesse d'una svolta autoritaria della democrazia americana che non è essenziale per il populismo economico, ma che è invece il centro dell’approccio del tecnocapitalismo.
Questo è il ring ideologico nel quale si consuma lo scontro tra due personaggi che, non bisogna mai dimenticarlo, sono instabili e violenti, nel linguaggio, nell’approccio, nel rapporto con i sottoposti.
Musk abusa di droghe, ha confermato il New York Times, Trump chiaramente non è sempre abbastanza lucido da affrontare i compiti che il suo ruolo comporta.
In questo secondo mandato, Trump ha dimostrato di non esitare a usare i suoi ordini esecutivi per colpire imprese o altri poteri economici che lo ostacolano: lo ha fatto contro Apple, contro gli studi legali, contro le università. Lo farà anche contro Musk?
Finora l’unico fatto concreto - chissà se attribuibile del tutto al presidente o a qualche altra fazione della sua corte - è stato il licenziamento del capo della NASA caro a Musk, James Isaacman, la cui nomina era in corso di approvazione.
E poi c’è il Big Beautiful Bill, la legge di Bilancio che ha innescato la rottura: sia perché aumenta il debito di oltre 2.500 miliardi di dieci anni, sia perché riduce i sussidi alle auto elettriche di Musk.
Di sicuro Elon è in grado di contrattaccare, a differenza di tutti gli altri: Tim Cook non può fare molto per condizionare Trump sui dazi, Musk ha il social che ha portato Trump alla Casa Bianca (due volte), i satelliti che determinano l’esito di varie guerre, a cominciare da quella in Ucraina.
Soprattutto, Musk può incrinare - e ha già iniziato a farlo - la compattezza del mondo Repubblicano dietro Trump: non sempre i Repubblicani sono stati trumpiani e non sempre lo saranno, anche soltanto per questioni anagrafiche (Trump ha 78 anni).
La vera posta in gioco nello scontro attuale tra Musk e Trump è quello tra anime diverse dello stesso mondo.
Il tecnocapitalismo d’opposizione
Il populismo economico trumpiano sta già producendo disastri - dall’inflazione alla recessione imminente, alla fuga di talenti dagli Stati Uniti - e presto l’alternativa tecnocratica potrebbe risultare una opzione ancora più allettante, specie per l’assenza di proposte davvero alternative sul fronte progressista, dove il principale dibattito è ancora sulla salute di Joe Biden (chi ha nascosto la gravità delle sue condizioni? Perché? A beneficio e a danno di chi?).
Se Musk è stato inquietante come primo sostenitore di Trump, insomma, potrebbe risultare ancora più minaccioso come sua alternativa. Non può essere lui il presidente, perché non è nato negli Stati Uniti e neanche gli interesserebbe (deve presidiare le sue aziende). Ma può essere lui a indirizzare l’evoluzione del partito Repubblicano.
Dopo la rottura con Trump ha lanciato un sondaggio su Twitter sull’ipotesi di un terzo partito. Tra i Democratici hanno stappato bottiglie: l’arrivo di un nuovo partito in concorrenza con quello dominante nell’area di solito favorisce gli avversari (Ralph Nader ha fatto vincere George W. Bush nel 2000, Ross Perot nel 1992 ha aiutato Bill Clinton, e perfino Robert Kennedy Jr poteva far perdere Trump nel 2024, prima di allinearsi).
Ma il mondo è cambiato.
Il movimento MAGA si è mangiato il partito Repubblicano, lo ha scalato e cannibalizzato contro il volere dei suoi esponenti più potenti. E poteva contare soltanto su un candidato fuori dalle regole che sapeva usare Twitter. Non è certo fantascienza pensare che uno come Musk possa condizionare le dinamiche di quel partito - magari già dalle elezioni di metà mandato nel 2026 - per cambiarne la natura.
Oppure, vista la debolezza del partito Democratico, potrebbe creare una alternativa ai Repubblicani che si sostituisca ai progressisti allo sbando. Impossibile?
Siamo in un mondo diverso, nel quale i tecnocapitalisti trattano la politica come un settore di investimento: identifichi la startup promettente, ci investi molti soldi subito e prima degli altri, poi lavori per cambiare le regole in modo da favorirne la crescita e spingerla al monopolio, che è sempre l’obiettivo ultimo. E in campo democratico il monopolio dei consensi e del potere si chiama autoritarismo.
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Questa la programmazione, in aggiornamento, segnatevi le date in agenda!
MUSK TALKS - in diretta su Substack
Mercoledì 21 maggio ore 17 - Musk e il nuovo potere digitale - Con Laura Turini e Stefano Feltri
Guarda la diretta:
Martedì 27 maggio, ore 17 - Musk e l’ideologia del tecno-capitalismo - Con Gloria Origgi e Stefano Feltri
Mercoledì 4 giugno, ore 17 - La crisi della democrazia nel tempo di Musk - Con Mattia Diletti e Stefano Feltri
Martedì 17 giugno, ore 17 - Musk e l’ascesa della tecnodestra - con Vincenzo Sofo (autore di Tecnodestra per Paesi edizioni)
Martedì 24 giugno, ore 17 - Musk, i satelliti e la geopolitica dello spazio - con Frediano Finucci (autore di Operazione Satellite per Paesi edizioni)
Dal vivo:
Giovedì 19 giugno, ore 18: A Roma, alla Libreria Testaccio, piazza Santa Maria Liberatrice 23, con Carlo Tecce
Per info su presentazioni, interviste, speech: appunti@substack.com (non sono in grado di organizzare altre cose fuori Roma, quindi non offendetevi se declino inviti a festival o presentazioni che richiedono trasferte)
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