I veri extraprofitti delle banche
Da dieci anni Vincenzo Imperatore, con i suoi libri, rivela le pratiche commerciali più discutibili. Che con i tassi alti sono diventate particolarmente redditizie
Per anni ho sostenuto che l’erogazione di finanziamenti alle imprese, indipendentemente dal fallimento dell’azienda, spesso configurava il reato di concessione abusiva del credito, anche fuori dalle procedure concorsuali. E forse ci siamo arrivati
Vincenzo Imperatore
Gli extraprofitti delle banche, di cui tanto si parla in questi mesi, sono stati fatti con un raggiro ai danni del Paese, sfruttando un sistema che, negli ultimi anni, ha visto lo Stato garantire – e continua a garantire – i finanziamenti che le banche erogano a imprese non meritevoli di assistenza creditizia. Ricordiamo che, in un contesto di tassi di interesse elevati come quello vissuto negli ultimi due anni, circa il 70 per cento degli extraprofitti deriva dall'incremento dei margini di interesse.
Questo scenario ci porta a un altro aspetto cruciale della vicenda: la concessione abusiva del credito, un illecito civilistico che può dar luogo a conseguenze penali.
La concessione abusiva del credito in pratica si verifica quando una banca o un istituto finanziario concede prestiti o crediti a un’impresa o a un individuo in modo irresponsabile o negligente, senza una valutazione adeguata della solvibilità del debitore.
Sebbene la pratica sia diffusa in diversi segmenti del sistema bancario, il fenomeno si è concentrato soprattutto sulle cosiddette banche digitali, che hanno mostrato maggior esposizione a questo tipo di condotte.
Pur essendo di dimensioni relativamente piccole rispetto agli istituti bancari tradizionali, le banche digitali negli ultimi dieci anni hanno erogato i più alti volumi di finanziamento alle imprese, proporzionalmente alla loro dimensione.
Nell’ultimo lustro abbiamo ascoltato una narrazione di comodo, sostenuta dai media che per incompetenza o interessi continuavano a raccontarci la favola delle banche magnanime che avevano aperto il rubinetto del credito alle piccole imprese.
La verità era un’altra: quelle banche avevano allargato le maglie della concessione creditizia perché garantite per l’80 per cento del totale del finanziamento dal Fondo di Garanzia gestito da MedioCredito Centrale, alimentato da fondi pubblici. Lo Stato, quindi, diventava garante per una parte del prestito concesso dalla banca.
La stretta
Ma i tempi sono cambiati e i nodi sono venuti al pettine. Dal 2020 al 2023, l’erogato dal Fondo di Garanzia alle imprese è crollato da 143 miliardi a 32 miliardi. La conseguenza?
I crediti concessi dalle banche alle imprese si sono ridotti del 4 per cento e il tasso di deterioramento del credito è aumentato dal 22 per cento al 31 per cento, con una previsione di picco al 38 per cento per il 2024. In sintesi, le banche italiane davano soldi a imprese che non avrebbero potuto accedere al credito senza la garanzia dello Stato. Dei veri e propri Braveheart del rischio creditizio!
Il Credit Outlook 2024 di Cerved Rating Agency conferma, infatti, che il rischio di default per le imprese italiane è elevato e ha superato i livelli pre-pandemici a causa degli stress macroeconomici sequenziali causati dal Covid, dalle tensioni geo-politiche, dall’aumento dei tassi degli ultimi due anni, dall’inasprimento delle condizioni di finanziamento e dalle dinamiche inflattive.
Questo scenario potrebbe produrre una miscela esplosiva: un nuovo, ennesimo credit crunch per le imprese. E il rischio di una ciclica stretta creditizia è sempre dietro l’angolo.
L’ultimo segnale arriva dalla vigilanza della Bce che, dopo alcune ispezioni nelle banche significant (quelle di maggiori dimensioni direttamente controllate), ha “consigliato” in via riservata di rivedere i propri sistemi di rating interni, forse troppo buonisti per il periodo che stiamo vivendo e che dovremo attraversare. E se è vero che le banche significant fanno benchmark, allora l’allarme potrebbe diventare di carattere generale.
Perché la Bce stabilisce poi per ogni singola banca i requisiti minimi di capitale di vigilanza correlati alla concessione dei crediti. In altri termini, per semplificare, la Bce obbliga le banche a tenere bloccati (e infruttiferi) una parte dei depositi dei risparmiatori.
Ed ecco il secondo segnale: nel corso di questa ultima “revisione” la Bce ha innalzato per quelle banche i livelli di capitale di cautela. Se a questi indicatori aggiungiamo la fine delle moratorie (sospensione del pagamento delle rate dei prestiti per il Covid), l’introduzione del calendar provisioning (un regolamento introdotto dalla Banca Centrale Europea che stabilisce un calendario per la copertura progressiva delle esposizioni deteriorate da parte delle banche) e il progressivo esaurimento della Tltro (fondi che la Bce ha messo a disposizione delle banche per potenziare l’erogazione di prestiti bancari a favore delle imprese), allora prepariamoci a un mortale credit crunch per quelle imprese che non riusciranno a organizzare una corretta e basica gestione finanziaria.
La probabilità di default a dicembre 2023 è infatti salita al 6,22 per cento contro il 5,68 per cento di un anno prima, un valore ben superiore ai livelli pre-Covid (a fine 2019 era al 4,45 per cento).
Un trend che, secondo uno scenario più favorevole, potrebbe però stabilizzarsi nel 2024 laddove si assuma che le tensioni geopolitiche persistano ma con ricadute limitate: l’attività economica si consoliderebbe nella seconda metà del 2024 – supportata dalla diminuzione dell’inflazione, dal taglio dei tassi d’interesse e da una maggiore solidità del mercato del lavoro – e questo abbasserebbe il rischio di default dall’attuale 6,22 per cento al 6,13 per cento, mantenendosi in ogni caso al di sopra del 6 per cento, livello mai raggiunto prima del dicembre 2023.
Nel caso invece di uno scenario estremamente grave, caratterizzato da un’estensione dei conflitti, dal rischio concreto di stagflazione sia negli Stati Uniti sia nell’Unione Europea, da tassi d’interesse stabili e dalla sospensione dei piani del Pnrr, la probabilità di default potrebbe raggiungere addirittura il 6,82 per cento, con un forte deterioramento della qualità del credito e una sensibile migrazione delle imprese valutate verso classi di rating peggiorative.
Salgono i rischi
L’aspetto che ha maggiormente destato la mia attenzione riguarda però l’aumento della rischiosità di portafoglio nell’ultimo triennio, che è evidente se si analizza la variazione della percentuale di soggetti valutati con un rating positivo (Investment Grade) nel campione di oltre 15.000 società di capitali cui Cerved Rating Agency ha assegnato un rating creditizio: si è scesi infatti dal 56,7 per cento di dicembre 2019 al 40,8 per cento di dicembre 2023, invertendo sostanzialmente le proporzioni tra le imprese che si rivelano solide dal punto di vista finanziario e quelle invece più fragili. Ma cosa intendiamo per «rating positivo»? Per meglio dire, quali rating sono positivi per il sistema bancario?
Ecco il punto fondamentale che meriterebbe un’ulteriore analisi da parte delle agenzie di rating. Perché sebbene i modelli di credit scoring utilizzati dal sistema creditizio siano tutti uniformati ai criteri stabiliti negli accordi interbancari di Basilea, le interpretazioni dei risultati lasciano spazio a soggettività e spesso incompetenza da parte di chi deve poi comunicare agli imprenditori gli esiti di un esame creditizio.
L’output del modello consiste in un punteggio, un voto, il rating appunto, che varia su una scala che di solito va da 1-AAA (il voto migliore) a 10-D (il peggiore) e che determina la promozione o la bocciatura dell’azienda. In sintesi, il rating è un «giudizio sintetico sulla rischiosità del cliente» ed è la risposta numerica alla domanda: qual è la probabilità che il cliente diventi insolvente nell’arco di un anno (probabilità di default)?
La maggior parte dei gestori imprese delle banche (probabilmente influenzati dai segment manager) continua a considerare, esattamente come quindici anni fa, rating positivi quelli che vanno da 1 (AAA) a 4 (BBB), manifestando già di fronte a uno scoring 5 (BB) reazioni allergiche che poi si acuiscono fino a provocare uno shock anafilattico al cospetto di rating dal 6 (B) in su.
Un’analisi più accurata dovrebbe tener conto invece della concentrazione delle imprese di quel settore nelle varie fasce: ci si accorgerebbe che la maggior parte delle imprese, soprattutto quelle di piccole dimensioni, è raggruppata proprio nelle classi 4 (BBB), 5 (BB) e 6 (B). Per cui o le banche cambiano interpretazione dei risultati, oppure, in caso di chiusura dei rubinetti per tutte le imprese con rating 5 e 6, chiudiamo l’Italia.
Credito abusivo
Ma ritorniamo all’analisi della concessione abusiva del credito da parte delle banche, in particolare quelle digitali.
Una sentenza del gennaio 2024 ha scatenato una vera e propria rivoluzione nell’ambito della giurisprudenza italiana: un tribunale ha dichiarato che i finanziamenti garantiti dallo Stato sono nulli se la banca non verifica la solvibilità del debitore e sfrutta le garanzie pubbliche solo per rientrare dai propri rischi.
Da anni sostenevo che l’erogazione di finanziamenti alle imprese, indipendentemente dal fallimento dell’azienda, spesso configurava il reato di concessione abusiva del credito, anche fuori dalle procedure concorsuali. E forse ci siamo arrivati.
Il Tribunale di Asti, con una sentenza dell’8 gennaio 2024, ha dichiarato nullo un contratto di mutuo bancario assistito da garanzia pubblica (fondo di garanzia Mcc per le Pmi) perché la banca era consapevole dello stato di insolvenza del cliente. In altre parole, la banca deve restituire i soldi al cliente che nel frattempo ha onorato l’impegno.
La condotta della banca è risultata così lontana dalla diligenza professionale tipica del banchiere da far presumere la piena consapevolezza delle reali condizioni di insolvenza del cliente, o almeno un completo disinteresse per queste, accettando consapevolmente il rischio di concedere un finanziamento a un’impresa insolvente.
Secondo il Tribunale, la banca ha agito in questo modo solo perché poteva accedere alla garanzia statale Mcc per il finanziamento concesso, senza preoccuparsi di proteggere il garante (anche se era lo Stato) da possibili perdite.
Nel leggere la sentenza, ho rivissuto ciò che ancora oggi accade spesso: una banca, se ampiamente garantita da terzi, chiude gli occhi, talvolta anche per incompetenza, di fronte a bilanci sostanzialmente falsi pieni di ipervalutazioni di rimanenze e crediti difficili da riscuotere (meglio chiamarli «perdite su crediti»), rivalutazioni gonfiate degli immobili aziendali, crescita “allegra” dei ricavi e operazioni di finanza creativa sui finanziamenti autoliquidabili come l’anticipo di fatture su operazioni non perfezionate (inventate, false), poi sostituite da fatture per consegne effettivamente eseguite.
Come dicevo all’inizio, si tratta di un big bang giurisprudenziale che apre la strada a valutazioni negative della diligenza bancaria anche in casi meno evidenti, dove non c’è un dolo palese, il garante non è lo Stato e indipendentemente dal fallimento o altre procedure concorsuali.
È necessario avere il coraggio di affrontare queste questioni in tribunale con professionalità e competenza.
La realtà va ben oltre la narrativa ufficiale, rivelando un sistema intricato e manipolativo che sfrutta le garanzie pubbliche a discapito delle piccole imprese e, in ultima analisi, dell’economia stessa.
Vincenzo Imperatore, 61 anni, da oltre trenta lavora nel settore del management e della consulenza, con particolare attenzione al mondo della piccola e media imprenditoria italiana.
Per ventitré anni manager di una multinazionale del credito, dove ha svolto ruoli di responsabilità nell’ambito del cosiddetto small business, da circa dieci è titolare di una società di consulenza specializzata nei processi di riorganizzazione della piccola impresa a carattere famigliare.
Nel 2014 ha pubblicato Io so e ho le prove (Chiarelettere), libro-denuncia sul sistema bancario raccontato dall’interno, che ha avuto varie ristampe e una trasposizione teatrale. Ha scritto altri libri al riguardo, Io vi accuso (2015) e Sacco bancario (2017), anch’essi pubblicati da Chiarelettere. Tra i suoi ultimi volumi ricordiamo Soldi gratis (Sperling & Kupfer 2019). Ha un blog su “il Fatto Quotidiano”.
Leggi su Appunti
Il saggio di Manlio Graziano
Avete letto l’ultimo pezzo di Manlio Graziano per Appunti? E’ un lungo saggio che risponde alla domanda che molti si fanno: ma chi sta vincendo la guerra in Ucraina?
Il dialogo Stefano Feltri - Laura Turini su Stroncature
Nei giorni scorsi ho presentato il mio libro Dieci rivoluzioni nell’economia mondiale (che l'Italia si sta perdendo), uscito nei mesi scorsi per Utet, in un evento organizzato dal bel progetto Substack Stroncature. Con me c’era anche un’altra ormai storica firma di Appunti, cioè Laura Turini. Trovate il video qui:
Notizia positiva: Utet mi ha comunicato che hanno ristampato il libro, se volete lo trovate qui:
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Come in molti altri casi la soluzione è semplicissima ma nessuno la vuole utilizzare: obbligo di certificazione dei bilanci per le società appena sopra una minima dimensione. Ma figuriamoci se qualcuno oserebbe mai proporre una cosa simile
Leggo:” Dal 2020 al 2023, l’erogato dal Fondo di Garanzia alle imprese è crollato da 143 miliardi a 32 miliardi.”
Vorrei conoscere il dato dell’erogato prima del 2020 (diciamo 2019), perché il 2020 è l’anno del Covid e ricordo la corsa ad erogare finanziamenti pari al 25% del fatturato garantiti da MCC (spesso anche a chi non ne aveva bisogno, perché tanto erano praticamente a tasso zero!). Bisognava far vedere che le banche sostenevano l’Italia nella crisi pandemica (manager di grandi banche erano chiamati in commissioni parlamentari a riferire su quanto erogato. Prima di tale data, per la mia ventennale esperienza di direttore di banca, l’erogato con MCC era davvero marginale, almeno nel cosiddetto comparto small business.
Ho lavorato in una banca di rilievo nazionale e l’attenzione all’erogazione del credito è sempre stata di alto livello e direi mai per rientrare di pregresse esposizioni. Le banche hanno forse più colpe sul lato degli investimenti, dove la vendita dei “prodotti della casa” è sempre stata oggetto di pressioni commerciali, talvolta pesanti.