La banalità della banalità del male
Concepire la violenza di quello che accade a Gaza e la sproporzione dello sterminio, è proprio il senso pedagogico che si voleva suscitare con il racconto dell'Olocausto nelle scuole
Oggi fa impressione ascoltare Liliana Segre che parla della libidine "con cui troppi sembrano cogliere un’opportunità per sbattere in faccia agli ebrei l’accusa di fare ad altri quello che è stato fatto a loro”
Christian Raimo
Nel 2000 viene istituito il Giorno della memoria, con cui si incarna anche a scuola e fuori dalla scuola, una forma di educazione istituzionale contro l'antisemitismo.
La sfida pedagogica è provare a parlare di tre cose: la violenza sistemica di un genocidio storicamente determinato, la modellistica di una politica dello sterminio (il Ruanda, Srebenica, avevano fatto riparlare negli anni Novanta di genocidio e di lager), l'assurdo di un male indicibile.
Pensando, questa è la sfida più alta, a come fare di quella riflessione storica una riflessione e un'esperienza universalizzabile.
In quegli stessi anni e prima anche e dopo ovviamente su questi tre temi - Olocausto storico, modellistica dello sterminio, vertigine di un male indicibile - si è dibattuto fino allo stremo, provando a produrre anche gli stessi antidoti all'eccesso di memoria, all'eccesso di comparazioni, all'eccesso di centralità della vittima.
Il risultato purtroppo è stato scarso.
Il senso della riflessione sull'Olocausto, i lager, la violenza sistemica dello sterminio, e soprattutto sull'assurdo del male indicibile, è stato spesso ridotto, nella retorica politica, a un dispositivo di empatia velocizzato, standardizzato. La banalità della banalità del male.
Invece di trovare il modo di sostare nel trauma, un trauma distante nel tempo, sproporzionato, disumano, si è pensato spesso a come creare una dottrina frettolosa, che ci consentisse di elaborarlo in fretta, come un'educazione civica da mandare a memoria, un catechismo postnovecentesco, spesso usato come sostituto alla pedagogia antifascista.
Nel 1993 era uscito il film Schindler’s list, nel 1997 La vita è bella, ed erano sembrati a moltə gli strumenti più accessibili per introdurre a questi temi adolescenti e bambinə.
Se in quei film c'era ancora la possibilità della sosta nel trauma, anche se mescolati nella retorica vischiosa di un sollievo della bontà e della rimozione, in molti dei prodotti culturali successivi questa sosta era o inconsapevolmente o anche consapevolmente evitata.
Ecco l’inflorescenza editoriale dei bambini con i pigiami a righe, il consumo della memoria, fino alla replicabilità speculare del Giorno del ricordo e di altre celebrazioni della vittima...
Ma c'è stato un tempo lungo, tra gli anni Novanta e gli anni Duemila, un tempo che ancora oggi è ripensabile anche se tutto sembra dire il contrario, un tempo lungo importante nella nostra formazione, in cui sostare nella vertigine dello sterminio e dell'antisemitismo sembrava davvero un modo per imparare qualcosa dell'essere umano.
Uomini comuni di Christopher Browning (1995), Le benevole di Jonathan Littell (2000) o The believer di Henry Bean (2001), tra i film, saggi, romanzi, documentari, sono tra i molti esempi di quella che potremmo definire davvero una luce sulla libidine dell’antisemitismo: la parte più indicibile dell’indicibilità del trauma. Qualcosa di emotivamente ancora più ingestibile dell’aver a che fare con la zona d’interesse.
La domanda “Come è potuto accadere?” non si risolveva con l’afasia della commozione, ma con una traduzione di un altro genere di domanda: in cosa consiste l’essere umano di fronte allo sterminio di massa?
"Perché non hanno reagito?", come dice il protagonista di The believer, ebreo che decide di diventare neonazista. E: “cosa c'è di affascinante nella violenza dello sterminio, nell’ideologia antisemita?”
Il trauma è quanto di più singolare possa accadere, ma c’è stato, in molti, per molti docenti a scuola, in molti progetti educativi, in molte esperienze di riflessione storica, c'è ancora oggi, uno sforzo etico, politico, pedagogico, per non ridurre la memoria a una liturgia vuota, ma alla convinzione che possa essere un reale percorso personale e collettivo in cui guardare e sostare di fronte l’abisso, e che questo percorso potesse e possa servire come rito di passaggio, per poter guardare altri abissi, al di là dei nomi dei nazionalismi: Beslan, Bataclan, il fanatismo islamista, per esempio, o altri massacri spaventosamente insensati del passato. Questo non pensando di poter passare direttamente a un’identificazione veloce con le vittime o con i testimoni.
Per questa ragione oggi fa impressione ascoltare Liliana Segre che parla della libidine “con cui troppi sembrano cogliere un’opportunità per sbattere in faccia agli ebrei l’accusa di fare ad altri quello che è stato fatto a loro. Un complesso di colpa collettivo prodotto dalla storia si scioglie in un rabbioso sfregio liberatorio verso lo Stato ebraico di Israele, non solo equiparandolo ai nazisti ma rinfocolando tutti i più vieti stereotipi sugli ebrei vendicativi, suprematisti, assetati del sangue dei bambini non ebrei dell’antisemitismo nelle manifestazioni per Gaza”.
Sembra la negazione stessa di quello sforzo e della forza di quella pedagogia, poter stare vicino al trauma degli altri, poter sostare nel trauma; la possibilità di sentirsi umani, senza vie brevi.
E questo non avviene solo sul piano retorico, nel dibattito sulla definizione di genocidio, ma nel non concedere la possibilità di guardare l’abisso dalla parte dei carnefici e non solo delle vittime, ragionando sull’ipotesi e il senso di essere entrambi.
Concepire la violenza di quello che accade a Gaza, provare a concepire la sproporzionatezza dello sterminio, è proprio il senso pedagogico che si voleva suscitare con la riflessione e il racconto dell'Olocausto, persino quello istituzionale del Giorno della memoria.
Non è un cortocircuito della storia, né una conversione da anime belle, ciò per cui oggi è esattamente quella pedagogia che fa scendere moltə in piazza per liberazione della Palestina e di Gaza, o pensare che il premier israeliano Benjaimin Netanyahu vada arrestato e processato come criminale di guerra.
Se si pensa che esista qualcosa di universale che riguarda tutti gli esseri umani.
Concordo con l'esame di Raimo, anche se ho fatto un po' di fatica a comprendere fino in fondo questo suo linguaggio "filosofico". Ma credo che la sintesi sia molto chiara, che l'Olocausto fu una tragedi per l'umanità, non per gli "ebrei". Dichiaro senza nessun reticenza che nella mia visita ad Auschwitz di qualche anno fa non pensai a quelle vittime come "ebrei" (e neanche la guida mi pare lo sottolineasse in modo specifico, semmai, forse solo in qualche breve approfondimento). Come insegnante presentai l'Olocausto, anzi la Shoah usando sì un termine ebraico ma ribadendo ripetutamente che quell'evento non riguardò solo, anche se principalmente per numero, gli ebrei. E che quindi lo stesso atteggiamento si deve avere appunto nei confronti di tutte le altre circostanze in cui metodi simili si ripropongono. Ma, ormai anziano, ho nel tempo maturato alcune convinzioni che si possono sintetizzare brevemente nella domanda: chi sono gli ebrei, chi è o "che cos'è" un ebreo. Perchè la signora Liliana Segre deve presentarsi come ebrea a elaborare ragionamenti particolari, per non dire artificiosi, sul genocidio di Gaza perchè non lo si possa definire genocidio? O la signora Tullia Zevi a suo tempo, che si presentava come ebrea -era la Presidente delle Comunità Israelitiche Italiane, se non err o- nell'arrampicarsi sui vetri per giustificare il massacro di Sabra e Shatila (1982, lo ricordo bene). Perchè soprattutto tutti quanti, nella comunicazione, nella cultura, nell'informazione sentiamo la necessità di identificare gli "ebrei" e come tali legittimarne la priorità nel descrivere, commentare, giudicare le azioni dello Stato di Israele? Ma l'ebraismo è o non è solo e soltanto un fede religiosa, o al massimo una "cultura" con cui ci si può identificare o no? Che legame c'è, ci deve esssere, si deve stabilire, tra coloro che hanno fede religiosa o cultura ebraica con lo Stato di Israele? L' "antisemitismo" che cos'è? Essere ostili a chi pratica la religione ebraica? E se io sono ateo e non approvo la pratica di nessuna religione, dovrò implicitamente essere definito antisemita? Oppure, sotto sotto, a differenza delle altre religioni, si ritiene che l'ebraismo sia anche una sorta di patrimonio indismettibile da una generazione all'altra, una specie di dna non biologico ma talmente connaturato da finire per riproporre ancora una volta un concetto, Iddio non voglia, di razza? Potrei dilungarmi (e volevo essere sintetico). Cancelliamo, lo dico brutalmente, gli ebrei dal lessico come elemento identificativo. Così come cancelliamo i cattolici gli ortodossi i buddisti i protestanti evangelici, e altri ancora. Segre Zevi, levi e altri non vediamoli come ebrei. Non "sono" ebrei, al massimo credono, alcuni persino tiepidamente altri per nulla, in Iahvè, leggono o non leggono la Torah etc. Certo ci sono ancora molti eredi e successori di vittime della Shoah, ma loro non sono più quelle vittime. Sono cittadini come gli altri. Le vittime sono state esseri umani. E di quegli esseri umani sterminati ad Auschwitz e in dozzine di altri posti, e di quelli che si sterminano ancora (Gaza compresa) rivendico il diritto di ritenermi erede e successore, ed interprete, anch'io.
Grazie Christian, la tua è una riflessione di grande lucidità. Che senso ha l’esercizio di quella specifica forma di memoria se non diventa stimolo e monito perché non accadano mai più pratiche di violenza inaudita e di sterminio? Anche io mi chiedo se l’istituzione dei giorni della memoria non sia invece diventata una sorta di rivendicazione ‘privata’ del dolore, che riguarda singoli gruppi. Nonostante l’impegno appassionato e generoso di tantissimi insegnanti… ma poi, deve sempre essere affidato tutto solo alla scuola, nell’indifferenza del resto della società che sembra assuefatta a discorsi di destini inevitabili di guerra? Questo però è un altro tema, e io ti leggerei volentieri anche su questo!