Come abbattere le emissioni
Per ottenere risultati sul clima bisogna andare oltre gli slogan e le frasi fatte dei politici e chiedersi quali sono le scelte più efficaci
Se non si abbattono le emissioni là dove costa meno abbatterle, a parità di risorse impiegate si danneggia l’ambiente: si abbatterà meno di quanto possibile
Marco Ponti ,
Buongiorno a tutte e tutti,
si è chiusa la prima settimana del vertice COP29 in Azerbaijan e il bilancio è ancora più deprimente del solito.
Non si sono visti i leader dei grandi Paesi, tra i pochi che hanno fatto una comparsata c’è stata la premier Giorgia Meloni. Il suo discorso è risultato quasi offensivo in quel contesto: era la classica lista di concetti da bar all’italiana (facciamo la transizione ma senza esagerare), condita con alcune ridicole ossessioni legate all’agenda dell’Eni, cioè evocare nucleare e biocarburanti come se fossero bacchette magiche che permettono di risolvere tutto.
A me questo tipo di cose - il discorso di Meloni e il suo percolato nei media nazionali - deprimono un po’ e sollevano una questione seria: il dibattito sulla crisi climatica nel grande pubblico è completamente scollegato da quello tra gli attori che poi decidono le politiche.
Nei talk show e sui social si discute genericamente degli impatti - temperature, alluvioni ecc - e di una generica determinazione della politica a “fare qualcosa”. Il dibattito vero è così complesso che ha una barriera di accesso piuttosto elevata, e dunque è spesso dominato da chi ha interessi da difendere e risorse da investire per condizionare la conversazione.
Il pezzo di Marco Ponti che trovate qui sotto credo sia un utile contributo a capire che sotto la superficie degli slogan c’è molto altro, cioè c’è una discussione importante nella quale è difficile stabilire qual è la cosa giusta da fare anche dopo che si è trovato un accordo sulla direzione e le priorità.
Un aneddoto: questo pezzo nasce da un evento al quale ho partecipato a Milano, un panel sulla finanza climatica organizzato dalla Fondazione Feltrinelli. Marco Ponti, che è uno dei più stimati economisti dei trasporti e un amico di lunga data, firma del Fatto Quotidiano, poi di Domani, ora di Appunti, è venuto ad ascoltare e ha sollevato con le sue domande una serie di punti molto interessanti. Che sviluppa qui sotto.
Ormai ovunque vada c’è un pezzetto della comunità di Appunti che si palesa. L’altro giorno, su un treno regionale in Emilia-Romagna, ho notato che il tizio di fronte a me leggeva il pezzo di Filippo Riscica su Appunti. Sono soddisfazioni.
Siamo quasi a 20.000 iscritti, non soltanto indirizzi mail, ma persone vere.
Buona giornata,
Stefano
Tre problemi cruciali di politica ambientale
di Marco Ponti – BRT onlus
1. L’internalizzazione
Uno dei pilastri storici delle politiche ambientali è il concetto noto come “polluters pay” (in economichese si chiamano “prezzi pigouviani” o “internalizzazione dei costi esterni”).
Vuol dire che la cosa migliore da fare è far pagare tutti i danni a chi li genera con tasse specifiche.Ed è una cosa molto sensata: gli inquinatori per non pagare la tassa inquineranno meno, ma non a caso.
Incominceranno a ridurre le emissioni che costa meno ridurre, e smetteranno di ridurre quando non gli conviene più, cioè quando gli costerebbe di più ridurre che pagare la tassa. Ma questo va bene anche per la collettività, oltre che per gli inquinatori, perché l'obiettivo non è azzerare le emissioni (impossibile), ma ridurle finchè ridurle costa meno dei danni che le emissioni fanno. Altrimenti si avrebbero più costi che benefici.
Vengono minimizzati i costi totali per la collettività, che sono la somma dei costi ambientali più i costi per abbatterli.
Ma non è finita: con la tassa (nota nel caso della CO2 come “carbon tax”) lo Stato si trova in tasca un sacco di soldi, con i quali in alcuni casi può compensare i danneggiati, o ridurre altre tasse, o costruire scuole e ospedali.
E questo approccio ha anche un elemento di giustizia: chi fa un danno ad altri, lo paga per intero. È una politica sia equa che efficiente.
Ora, ci sono molti studi che provano a comparare i livelli di tassazione ai costi sociali dell’inquinamento. Il più noto è quello del Fondo monetario internazionale, che evidenzia periodicamente questo “livello di internalizzazione”.
E ovviamente trova paesi e settori dove le tasse internalizzano in modo soddisfacente, altri dove internalizzano troppo, altri dove non internalizzano affatto, e infine molti dove gli inquinatori sono addirittura sussidiati, come accade per i consumi petroliferi in Egitto, Nigeria, e Brasile, dove il prezzo dei carburanti è inferiore a quanto si otterrebbe vendendolo sul mercato mondiale.
In Cina e negli Stati Uniti poi il carbone, che è il peggior inquinante ed è ancora usatissimo, è tassato in modo del tutto inadeguato.
L’Unione europea e l’Italia in particolare sono abbastanza virtuose nell’internalizzare.
Il problema rilevante è che in Italia di internalizzazione non si parla praticamente mai: i casi più eclatanti sono quello dell’agricoltura, che è molto inquinante e largamente sussidiata per ragioni di consenso politico, e quello dei carburanti per i veicoli stradali, che internalizzano moltissimo. Il 55 per cento del prezzo alla pompa del gasolio e il 60 per cento di quello della benzina sono tasse.
E qui si è arrivati a definire “sussidi” alcuni sconti di tasse, che pure mantengono i livelli di internalizzazione molto superiori a quelli di altri settori inquinanti (e comunque superiori agli standard europei di riferimento).
Infine lasciano molto perplessi gli sconti delle tasse sull’energia per i “settori energivori” (siderurgia, vetro, alluminio e altri), che non risulta affatto che abbiano livelli di tassazione adeguati.
Certo, “internalizzare” comporta di stimare il costo sociale dell’inquinamento: ma su questo c’è un ampio dibattito scientifico, come vedremo anche che ci sono problemi di equità quando si ricorre a tasse uguali per tutti, anche se qui si tratta di inquinatori.
2. Come stimare il costo sociale del principale inquinante, il CO2?
La CO2, nota come anidride carbonica, è di gran lunga la maggior causa dei cambiamenti climatici, ed è spesso considerata una accettabile approssimazione per l’impatto di altre emissioni dannose per il clima.
Si fronteggiano due principali scuole di pensiero: una è quella che cerca di calcolare direttamente i danni del riscaldamento globale. Le stime sono basate su complessi modelli di simulazione (e ve ne sono molti con risultati non coincidenti, ma ragionevolmente simili).
Il più accreditato studioso di questi modelli, che, oltre ad averne uno proprio, lavora sistematicamente per confrontare i risultati degli altri è William Nordhaus, cui è stato conferito il premio Nobel.
La seconda scuola di pensiero, radicalmente diversa, fa capo alla Commissione europea, ed è di derivazione tutta politica.
Assume come base che sia corretto l’obiettivo politico europeo (privo di basi scientifiche) di azzerare le emissioni nette di CO2 entro il 2050.
Da questa assunzione deriva una serie di valori del costo sociale del CO2 basata non sui danni presenti e futuri, ma sui costi da affrontare per raggiungere l’obiettivo di azzeramento. E ovviamente questi costi sono rapidamente crescenti, perché via via bisognerà abbattere le emissioni più difficili da abbattere, quindi le più costose.
Anche i costi stimati da Nordhaus crescono nel tempo, anche se meno rapidamente, perché comunque i danni per ogni unità di CO2 emessa aumentano finché non si azzerano le emissioni, e si inverte il fenomeno.
Il dibattito è aperto, ma sembra più accettabile l’approccio basato sui danni, su cui lavora da anni la comunità scientifica internazionale, rispetto ad un approccio tutto politico quale quello europeo.
3. I costi del disinquinamento
Ridurre le emissioni dannose per il clima ha ovviamente un costo per la collettività, con pochissime eccezioni, e non significative, altrimenti i problemi ambientali non esisterebbero.
Ora, le risorse, pubbliche e private, per ridurre le emissioni sono per definizione limitate. Su queste due premesse economiche non ci possono essere dubbi.
Ma se è così, ne discende che se non si abbattono le emissioni là dove costa meno abbatterle, a parità di risorse impiegate si danneggia l’ambiente: si abbatterà meno di quanto possibile.
Quindi, per costruire politiche ambientali razionali, sono due le cose che sarebbe necessario conoscere, anche in modo approssimato: i costi sociali di ogni tonnellata di CO2 emessa, e i costi che la collettività deve affrontare per ridurre le emissioni nei diversi settori inquinanti.
L’obiettivo è ovviamente quello di minimizzare il totale dei costi per la collettività, cioè la somma dei costi di abbattimento e dei costi delle emissioni.
Sul problema di valutare i costi sociali del CO2 c’è un vasto dibattito internazionale, cui abbiamo già accennato.
Invece sui costi di abbattimento il dibattito è molto più ridotto. Delle stime comparative esplicite sono state fatte dalla società McKinsey e da pochi altri.
Questo anche perché se si tassa ogni tonnellata di CO2 alla fonte con una politica di “carbon pricing”, cioè tassando direttamente i combustibili inquinanti, non sarebbe necessario conoscere questi costi.
Infatti ogni inquinatore ridurrebbe le proprie emissioni, come abbiamo visto, fino al punto che l’abbattimento successivo gli costa di più della tassa che dovrebbe pagare, minimizzando così “automaticamente” i costi totali per la collettività.
Ma questo approccio si scontra con delle grandi difficoltà politiche di fare politiche fiscali che “internalizzino” con una tariffa unica il costo sociale di ogni tonnellata di CO2 emessa.
Sarebbe il sistema più semplice ed efficiente, ma ci sono rischi e resistenze per ragioni sia occupazionali che di concorrenza internazionale che geopolitici.
Per gestire questi problemi, l’Unione europea ha deciso, per molti settori, di affidarsi ai meccanismi di mercato per minimizzare gradualmente i costi complessivi.
Il sistema messo a punto è noto come Emission Trade System (ETS). Funziona così (semplificando): per ogni settore si negozia un livello di emissioni totali accettabili dalle parti, e si emettono dei “permessi di inquinare” per questo totale.
Ignorando i costi di abbattimento per le singole imprese, si consente di scambiare i permessi, in un libero mercato. Le imprese con alti costi di abbattimento ne compreranno molti dalle imprese cui costa poco abbattere.
In questo modo all’interno del settore si minimizzeranno i costi di abbattimento complessivi, rispettando il limite di emissioni totali concordato.
È una politica meno severa del “carbon pricing”: gli inquinatori non risarciscono la collettività dei danni che generano, si limitano a minimizzare i loro costi di produzione in relazione a una stima politica di quei danni (il totale delle emissioni accettabili nei diversi settori).
Forse è un compromesso accettabile. Certo dovrebbe essere solo una tappa per una strategia più generale ed efficiente. E più equa: il principio ambientale “polluters pay” ha anche un contenuto di giustizia.
Perché abbonarsi
Gli appuntamenti
Vi segnalo un paio di eventi ai quali parteciperò nei prossimi giorni, potrebbero essere interessanti per molti qui nella comunità di Appunti e anche una occasione per incontrarsi
The Interplay of Technology and Geopolitics: How will AI shape the Future World?
Questo è un dibattito con pranzo su invito, se siete interessati scrivete a: iep@unibocconi.it
Together with the United States and China, the European Union represents one of the three main digital governance models that emerged in the first quarter of the 21st century. In recent years, and in particular in the last legislature, the EU has begun to assert its model in the technological field with greater assertiveness.
However, Brussels still lacks something fundamental that Washington and Beijing possess: a certain coherence between digital policies and their own geopolitical interests. How will the new European Commission address the dilemmas of digital governance? Will the AI Act be the model? More generally, is the EU ready for a geopolitics increasingly shaped by technological innovations, from bots to trolls, up to artificial intelligence?
SPEAKERS
Gaia Rubera, Amplifon Chair in Customer Science and Head of Marketing Department, Università Bocconi
Giorgos Verdi, Policy Fellow, European Power Programme, European Council on Foreign Relations
MODERATED BY
Stefano Feltri, Communication Advisor, Institute for European Policymaking @ Bocconi University
Scrivo con qualche conoscenza di causa a commento dell'interessante pezzo di Marco Ponti. Ho lavorato per 20 anni alla Commissione Europea e sono stato responsabile del programma di ricerca europeo sui cambiamenti climatici che finanziava anche la ricerca sulle soluzioni e sugli aspetti economici della decarbonizazione. La letteratura economica concorda che una tassa sul carbonio sarebbe il sistema più efficiente per accompagnare la transizione, e negli anni '90 la Commissione aveva elaborato un progetto per introdurre una carbon tax, ma la feroce opposizione del Regno Unito ancora fortemente Thatcheriano fece tramontare il progetto e nascere quello dell'ETS, introdotto poi nel 2005, che negli anni ha ottenuto i risultati attesi, facendo scendere secondo le previsioni le emissioni nei settori energivori. Alcuni paesi, come la Finlandia e la Svezia, hanno aggiunto una tassa nazionale sul carbonio, ma è significativo che l'unica proposta del Green Deal europeo che sia ancora in discussione dopo 3 anni dalla sua presentazione sia proprio quella sulla revisione della tassazione energetica, tema sul quale la gran parte dei governi nazionali non vuol sentire parlare di approcci comuni. Non concordo con Ponti sul punto che la transizione energetica verso l'abbandono dei combustibili fossili sia sempre un costo per la collettività in quanto l'auto elettrica ha già oggi in molti casi per chi fa lunghe percorrenze un costo totale di possesso pari o inferiore alle auto tradizionali (e un costo sociale molto inferiore per i benefici sull'inquinamento dell'aria nelle città), oppure la sostituzione delle caldaie a gas con pompe di calore 3-4 volte più efficienti, o la produzione elettrica con eolico e fotovoltaico al posto del gas, molto più costoso oltre che emissivo e inquinante. Per tutti questi cambiamenti tecnologici non basta solo il prezzo a vincere posizioni oligopolistiche (lo strapotere dell'oil&gas) o anche semplicemente di abitudine, ci vuole anche l'intervento regolatorio dei governi, di governi che credano nella transizione, che informino i cittadini e promuovano il cambiamento e non remino contro come fa purtroppo il nostro (sic).
Mi risulterebbe che l’attuale sistema ETS presenta parecchie criticità e sarebbe prevista una sua revisione.