Per la difesa comune tassiamo i più ricchi
Perché i milionari non dovrebbero essere chiamati a fare uno sforzo aggiuntivo, se si vuole procedere verso una difesa europea più forte, e invece lo sforzo viene chiesto a tutti gli altri?
Se si abbassano le bandierine emerge un terreno fertile per il lavoro politico, qualunque sia la posizione sul riarmo: serve una Europa unita, forte, non un’Europa di piccole patrie come piace a Meloni e Salvini
Roberto Seghetti
Il dibattito sulla difesa europea nel nostro Paese sembra il solito talk show televisivo in cui ciascuno interpreta il proprio personaggio a favore di pubblico: un teatrino delle maschere.
Ci si schiera per sentimento e identificazione, si fanno garrire le bandiere, mentre si eludono riflessioni e approfondimenti che, pur restando ciascuno delle proprie opinioni, porterebbero a far emergere con maggiore chiarezza tutte le poste in gioco, le ripercussioni, i problemi; perfino i punti di convergenza e le ragioni di fondo per le quali invece ci sono divisioni e avversari che vanno ben oltre questo tema.
Per capirlo basterebbe cominciare a porsi due domande, che riguardano profondamente il nostro stesso essere europei e che costituiscono uno spartiacque fondamentale.
La prima è questa, la stessa per ciascuna delle diverse posizioni in campo: quale Europa serve se pensiamo che le armi siano comunque un elemento di negatività e che ci si debba invece battere per il ritorno della diplomazia, per la vittoria della pace, per il ritorno a relazioni umane di civiltà?
Quale Europa serve se pensiamo che sia necessario avviare da subito (e senza togliere soldi al burro per acquistare cannoni) un progetto di difesa europea unitario, perché solo così potremmo pesare nel confronto con gli Usa, la Russia, la Cina e gli altri pesi massimi del pianeta, facendo ben capire quale sarebbe per loro il rischio di aggredirci?
Infine, quale Europa serve se pensiamo che dobbiamo ricominciare ad armarci Paese per Paese, perché oggi è l’unico modo per avviare il percorso che possa portare poi a una difesa comune e dunque a poter pesare nel confronto con gli altri, riducendo il rischio di essere aggrediti?
Già: quale Europa serve? Se ci fermiamo per un momento a riflettere abbassando ciascuno la propria bandierina si scopre che in tutti e tre i casi ci vuole la stessa Europa: più unita, più solidale, più attenta a difendere il proprio modello che, pur se tra difetti, marce indietro e lacune di cui tutti ci lamentiamo, non è un Eden, ma certamente un’isola ancora positiva in un mondo terribile.
Un vero mercato comune, che liberi tutte le nostre enormi potenzialità. Una vera politica estera comune. Una vera politica industriale comune. Una vera politica fiscale comune, in cui si torni a trovare le risorse per un welfare che tutti i cittadini del mondo ci invidiano. Una attenzione da irrobustire di nuovo per le fasce meno protette. Sicurezza… e, tra queste esigenze, anche una difesa comune di qualche tipo.
L’Europa dei sovranisti
Sembra una banalità? Beh, non lo è. I cosiddetti sovranisti non vogliono affatto questa cosa qui. Desiderano un’Europa delle piccole patrie. Di fronte all’arroganza di Donald Trump continuano a comportarsi non da pari a pari, ma ciascuno come un junior partner pronto a blandirlo. Di fronte a Vladimir Putin? Lo stesso.
E che cosa vogliono Trump e Putin? Che l’Europa resti divisa. Che il welfare europeo non faccia venire in mente ai loro cittadini di volere la stessa cosa, perché significherebbe non poter ridurre ancora di più le tasse ai più ricchi e alle aziende più forti. Trump vuole che compriamo a forza il suo debito (fatto anche per ridurre le tasse ai più ricchi); che le nostre imprese vadano a produrre in Usa, perché altrimenti pagano dazio; che gli europei comprino la carne Usa (piena di anabolizzanti e per questo vietata in Ue) e i prodotti agricoli Usa (pieni di ogm e di pesticidi, quindi vietati da noi)…E molte altre cose, compresa l’appropriazione di territori (vedi il caso della Groenlandia).
Ecco, dunque, che se si abbassano le bandierine emerge un terreno comune incredibilmente fertile per il lavoro politico, qualunque sia la propria posizione sul tema delle armi: bisogna volere un’Europa unita, forte, coesa e che resti se stessa, non un’Europa di piccole patrie, come vorrebbero Orban e tutti i sovranisti di casa nostra, a cominciare da Giorgia Meloni e Matteo Salvini.
Ecco che non hanno alcun senso le polemichette sulla diversità delle manifestazioni per l’Europa e per la pace, le faccette, la radicalizzazione delle diverse posizioni fino al punto di trasformare in un gruppo di capponi che si beccano continuamente tra loro mentre Renzo Tramaglino li porta in dono ad Azzeccagarbugli (Manzoni è grande!) una massa di manovra che potrebbe mettere all’angolo con forza e determinazione le tentazioni sovraniste.
Burro e/o cannoni
La seconda domanda che può essere utile da porci, porci tutti, è questa: perché se si parla di difesa europea, qualunque essa sia (arrivare a garantire ciò che abbiamo promesso alla Nato, riarmo Paese per Paese, avvio di una versa difesa comune) si deve per forza arrivare a dire che bisogna toccare le risorse previste per il burro?
Prima di arrivare all'opzione burro o cannoni, non sarebbe meglio vagliare tutte le possibili alternative? Non ci piace che venga utilizzato nella proposta della Commissione il fondo di coesione? E perché allora, pur avendo posizioni diverse, non pensiamo a cosa proporre in concreto e in alternativa per farci una battaglia aperta?
Anche qui entra, e non da una porta secondaria, il tema di quale Europa vogliamo. Anche su questo tema potremmo accorgersi che c’è un terreno comune, ideale e di azione, qualunque sia la nostra posizione sulle armi di coloro che non sono sovranisti, che amano la diplomazia, il mondo multipolare, la pace.
Il terreno comune è questo: la spesa pubblica, la difesa delle risorse per il welfare e, di conseguenza, l’esigenza di arrivare ad un vero mercato unico e, dunque, anche alla necessità di superare le storture provocate dai decenni di abbuffata ideologica e pratica che hanno prodotto come sbocco Trump, Musk e tutto ciò che questi signori significano in termini di organizzazione della società.
Non è un caso se da Milton Friedman (negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso) al Peter Thiel di oggi il problema dei limiti che la democrazia pone al capitalismo siano stati posti nel mirino, a cominciare proprio dal tema delle tasse. Un filo rosso li lega e collega.
Per queste ragioni mi spingo ad avanzare alcune riflessioni personali.
La prima riguarda il fisco e all’apparenza può sembrare ingenua politicamente e tecnicamente, ma non lo è affatto.
Di fronte alla divaricazione enorme e crescente tra super milionari e miliardari e il resto delle persone comuni, divaricazione provocata anche dal fatto accertato che i più ricchi al mondo ormai pagano molte meno tasse degli altri, quando le pagano, da molto tempo alcuni economisti di gran fama (qui basti ricordare le ricerche di Gabriel Zucman) hanno proposto di imporre, meglio se a livello globale, ma almeno a livello continentale, una imposta patrimoniale del due per cento sui miliardari.
È importante ricordarlo oggi nel momento in cui le fonti di finanziamento per il riarmo europeo proposto dalla Commissione Ue comprenderebbero anche i fondi previsti per le iniziative di coesione.
Perché togliere quelle somme alla coesione o pensare addirittura a ridurre le risorse per sanità, scuola, assistenza, sicurezza, ecc.. e lasciare che i miliardari continuino a pagare meno tasse degli altri per avere gli stessi servizi offerti dalla comunità (qui parliamo di Welfare), ma anche per avere una più forte e adeguata difesa europea?
Chi deve pagare
Perché i miliardari e i plurimilionari non dovrebbero essere chiamati a fare uno sforzo aggiuntivo, se si vuole procedere verso una difesa europea più forte, e invece lo sforzo lo si deve chiedere a tutti gli altri, andando a toccare i fondi per la coesione e, in prospettiva, forse anche i fondi per il Welfare?
Domanda interessante tanto quanto le risposte, qualunque sia la nostra bandiera. Certo, in un mondo globalizzato farlo solo in Europa sarebbe difficile, se gli altri continuano a proporre condizioni di favore. Ma pensateci bene: forse anche questo è un alibi.
In fondo in fondo, il vero motivo per il quale non si può fare non è tecnico, ma politico e, prima ancora, ideologico: perché prevale una visione del mondo che è esattamente il contrario del modello europeo che a parole si vorrebbe difendere. Che i ricchi debbano pagare meno degli altri è esattamente una visione da Donald Trump o da Elon Musk. E non solo da loro.
Non è questa una battaglia che si può fare insieme? Certo, si può anche andare incontro alla solita tiritera delle destre contro la patrimoniale (come se i comuni cittadini fossero tutti arcimilionari).
Dire che lasciamo stare il fondo di coesione e andiamo a prendere i soldi in questo altro modo è anche questa una via per fare un passo verso l’Europa che vogliamo, l’Europa del welfare in cui chi ha di più mette qualcosa in più per la collettività.
L’Europa della solidarietà e non dell’ognuno per sé. Difficile? Senza dubbio. Ma non ci si arriva se non si comincia e certamente non ci si arriva senza il coraggio delle proprie idee.
Anche una seconda riflessione riguarda il fisco e ha l’apparenza dell’ingenuità e della difficoltà tecnica, mentre è solo una questione di volontà politica. Parlo di aiuti di Stato, giustamente vietati in Europa per evitare che i diversi paesi si facciano concorrenza sleale.
Le regole che li riguardano sono contenute negli articoli 107 e 108 del trattato per il funzionamento della Ue. Secondo il testo di queste norme, già presenti nel Trattato di Roma e via via ribadite, nessuno Stato membro può sostenere con proprie risorse una propria impresa, distorcendo così la libera concorrenza nel mercato comune a scapito dei concorrenti e dei consumatori di altri paesi.
Sono previste alcune eccezioni, sostanzialmente quando si tratta di sostenere aree meno sviluppate, ma in ogni caso, per essere un aiuto di Stato, deve trattarsi di un trasferimento di fondi pubblici e quindi il venir meno di una posta di bilancio.
La libera concorrenza nel mercato comune viene protetta anche dal successivo articolo 110 del trattato.
“Nessuno Stato membro applica direttamente o indirettamente ai prodotti degli altri Stati membri imposizioni interne, di qualsivoglia natura, superiori a quelle applicate direttamente o indirettamente ai prodotti nazionali similari”.
Come dire, niente dazi anti concorrenza sotto forma di tasse. E non solo: “Inoltre, nessuno Stato membro applica ai prodotti degli altri Stati membri imposizioni interne intese a proteggere indirettamente altre produzioni”.
Bene. Non avete notato che, razionalmente, manca qualcosa? Perché è concorrenza sleale mettere soldi o far pagare troppe tasse, ma non far pagare troppo “poche” tasse? Chiunque guardi a queste norme con oggettività lo vedrebbe.
Eppure questa distorsione di fondo, figlia del turboliberismo vittorioso dagli anni Ottanta del secolo scorso che considera le tasse una specie di intralcio indebito e il Welfare state uno spreco, oscura ancora oggi la visione politica, sociale, etica di moltissimi cittadini e di non meno politici.
La realtà presenta, proprio in Europa, esempi concreti dei disastri figli di questa ideologia. Basti guardare a ciò che hanno fatto, per esempio, Irlanda, Lussemburgo e Olanda per attirare grandi imprese a scapito degli altri partner europei. Segreto, poche o niente imposte, libertà da obblighi e regole. O a ciò che ha fatto e fa l’Italia sul tema delle tasse di successione.
Ci trasformiamo in paradisi fiscali per fregare gli altri mentre parliamo di mercato comune e ci facciamo stupidamente concorrenza da soli, finendo per perdere tutti risorse che potrebbero farci comodo e che invece finiscono nelle tasche degli azionisti delle grandi aziende o in quelle degli uomini più ricchi del mondo.
Donald Trump vuole che le over the top Usa paghino meno tasse, ma in America. Quindi gli fa enormemente comodo che versino poche tasse sui lucrosi affari che fanno in Europa. Non a caso parla di deficit commerciale sullo scambio di beni. Ma tace sul deficit (europeo verso gli Usa) sui servizi.
La global minimum tax
Qualche passetto in avanti lo si era anche fatto con l’idea della global minimum tax del 15 per cento, promossa dall’amministrazione Biden, approvata dall’Ocse e introdotta in Ue con la delibera 2022/2523 del Consiglio (15 dicembre 2022), intesa a garantire un livello di imposizione fiscale minimo globale per i gruppi multinazionali di imprese e per i gruppi nazionali su larga scala nell'Unione.
In Europa è entrata in vigore nel 2024 e funziona sotto forma (è un po’ più complicato di così) come un’aggiunta di tassazione laddove l’impresa multinazionale abbia subito un prelievo inferiore al 15 per cento. Il povero Biden è stato un po’ troppo sbertucciato.
Qualcosa di positivo lo aveva ottenuto. E non di poco conto, se guardiamo ad un mondo che debba essere un pochino più giusto.
Ovviamente Donald Trump è contrario. Gli Usa hanno già promosso iniziative a Bruxelles contro queste norme. Ed ecco che, come per incanto, i sovranisti italiani si sono subito allineati.
Nei giorni scorsi il viceministro dell’Economia, Maurizio Leo, ha detto chiaro e tondo che questa forma di imposizione è complessa, che va rivista, che rischia di essere una minimum global tax solo europea…Si è già cominciato a smantellare quella pur piccola cosa (e c’erano pure i soliti puristi che la criticavano perché consideravano il 15 per cento troppo poco)
Ecco, se c’era una prova di quanto sia importante non perdere la bussola sui fondamentali è arrivata: o c’è il progresso unitario dell’Europa che vogliamo e che serve a tutti, a chi vuole la pace senza armi, a chi vuole la difesa europea unica a chi vorrebbe intanto cominciare a mettersi in cammino, o c’è il ritorno alle piccole patrie, con tutto ciò che questo comporta in termini di sudditanza, compresa la perdita progressiva di quel che resta del welfare.
Perché è abbastanza chiaro che se continui a non far pagare le tasse a chi può, questo sì che colpisce la possibilità che vi sia una spesa pubblica capace di sostenere sanità, scuola, assistenza, previdenza e, non ultima, perfino la difesa.
Insomma, possiamo decidere (e qui parlo solo ai miei amici progressisti): se ci piace così, possiamo continuare a fare come i capponi di Renzo e finiremo inevitabilmente in pentola. Non importa se americana, russa, cinese o altro.
Oppure ci risvegliamo, finiamo di pensare a come collocarci di fronte o di profilo di fronte alle telecamere o sui social, e cominciamo a fare politica, nel senso di pensare, votare, agire unendo le forze sul punto di fondo: solo un’Europa più unita e più se stessa può dare le risposte che vorremmo, armi o non armi alla mano.
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Assolutamente ineccepibile.
Resta il dubbio se è pura utopia pensare di poter realizzare quanto scritto in presenza di questo turbocapitalismo (termine fin troppo pacato) che condiziona non solo l’economia (da 40 anni ci raccontano la favoletta del trickle down e a fronte di 40 anni di fallimenti c’è ancora chi per pura fede o per mera malafede è disposto a crederci) ma anche stampa (di proprietà quindi non libera) e quindi opinione pubblica (che viene tenuta appunto nella più bieca ignoranza)
Aggiungo solo che forse la prima cosa da conquistare è l’eliminazione della unanimità in Europa e il passaggio a decisioni prese a maggioranza. Su tutto.
E' chiaro che uno scenario nel quale si trovano le risorse per aumentare la sicurezza senza toccare il welfare e senza aumentare le tasse della stragrande maggioranza dei cittadini sarebbe un successo. Nell'articolo vedo scritto: "In fondo in fondo, il vero motivo per il quale non si può fare non è tecnico, ma politico e, prima ancora, ideologico". Mi piacerebbe approfondire il tema tecnico perchè in realtà io vedo delle difficoltà non banali perchè il fatto che oggi i superricchi riescano ad eludere molte tasse sia legato più spesso a raffinati tecnicismi che aggirano le legislazioni di vari paesi piuttosto che ad una volontà politica di tassazione regressiva. In fondo oggi molti paesi inclusa l'Italia competono per attirare la residenza fiscale dei super ricchi con tassazioni agevolate e quando il governo Monti introdusse una tassa di stazionamento delle imbarcazioni di lusso , queste cambiarono bandiera e porto di stazionamento rivelandosi un flop per le finanze pubbliche. Se è difficile tassare il patrimonio dei beni "materiali" è ancora più complicato con il patrimonio finanziario. L'altro elemento è che quando si parla di aumento e non ribilanciamento della pressione fiscale molti temono giustamente di finire nella rete perchè la soglia per essere definiti "superricchi" è complicata da stabilire specialmente in un paese come l'Italia dove ad esempio il patrimonio immobiliare è catalogato e tassato secondo valori catastali lontani dai valori reali di mercato.