Geopolitica di un Papa di transizione
Al termine del papato di Francesco la Chiesa si trova, anche al di là delle intenzioni del pontefice, più fragile nel mondo ed esposta alle tentazioni di una svolta reazionaria
La scelta dell’impopolare battaglia contro la legalizzazione dell’aborto, per esempio, fu fatta proprio per consolidare una minoranza organizzata e fortemente motivata intorno ai famosi principi «non negoziabili» controcorrente. Una Chiesa democratica si farebbe condizionare dallo spirito del tempo e perderebbe la sua identità, finendo con l’essere indistinguibile
Manlio Graziano
Forse – la storia ce lo dirà – Jorge Mario Bergoglio sarà ricordato non come il Papa «degli ultimi» o «del popolo», ma della transizione: della transizione verso un ritorno a una Chiesa tradizionale, a quella che è stata per più di un millennio, prima dello sconvolgimento del Concilio Vaticano II.
Cominciamo da un dato di fatto: la Chiesa cattolica, oggi, è più debole di quanto non fosse nel 2013. È molto più divisa di quanto non lo fosse allora, e la sua capacità di svolgere un ruolo nelle questioni internazionali si è ridotta.
A parte la supervisione del negoziato tra Cuba e Stati Uniti all’epoca di Barack Obama, e a parte altri tentativi tristemente abortiti (per esempio tra Maduro e la sua opposizione, tra le fazioni in guerra in Sud Sudan e nella Repubblica democratica del Congo), Papa Francesco ha soprattutto lanciato appelli che, alla meglio, sono rimasti lettera morta (per la Palestina, per i Rohingya, per la pletora di guerre in Africa etc.) e, alla peggio, hanno sollevato dei vespai, come le sue ambigue prese di posizione sulla guerra ucraina.
Apparentemente, quello che è piaciuto della sua visione internazionale è stata la formula di «guerra mondiale a pezzi»; è piaciuta talmente che tutti la ripetono ad nauseam, ciascuno interpretandola però a modo suo.
Ricordiamo però che l’attenzione della «politica estera» della Chiesa cattolica è solo in minima parte rivolta alle relazioni tra gli Stati; ma su questo terreno sembra che la voce di Roma sia oggi meno ascoltata di quanto non lo fosse solo pochi anni fa, non solo nei consessi internazionali ma anche – e questo è sempre stato di gran lunga più importante – nelle varie cancellerie.
I tempi in cui Adolf Hitler doveva fermarsi per non rischiare lo scontento del Vaticano o i tempi in cui l’interventismo di Karol Wojtyła spingeva gli europei a sostenere la Croazia e la Slovenia contro la Serbia sembrano appartenere al passato.
Un bilancio del papato di Bergoglio

La «politica estera» della Chiesa cattolica è in primo luogo rivolta a promuovere i suoi propri interessi nel mondo, esattamente come la politica estera di qualunque altro Paese. Anche qui, però, i risultati del pontificato Bergoglio non sembrano brillanti.
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