Noi, Damiano
Come nasce il film San Damiano sui disperati che vivono intorno alla stazione Termini e a cosa serve l’empatia? Uno dei registi interviene nel dibattito qui su Appunti aperto da Christian Raimo
San Damiano non mostra lo Stato. Ma questa assenza non è una dimenticanza: è l’essenza stessa della realtà che abbiamo documentato. Ciò che non si vede è ciò che più incide sulle vite dei protagonisti. Si manifesta come abbandono, solitudine, precarietà
Alejandro Cifuentes
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Nei giorni scorsi abbiamo pubblicato un intervento di Christian Raimo dedicato al docufilm San Damiano, di cui molto si parla e che tante reazioni ha generato. Damiano è uno dei senza fissa dimora che vivono in strada intorno alla stazione Termini di Roma. I due registi, Alejandro Cifuentes e Gregorio Sassoli, raccontano - senza copione, senza finzione - le vite ai margini di Damiano e un gruppo di persone con cui condivide il disagio più estremo.
In quel pezzo Raimo scriveva che la visione del film solleva molte domande: “Per chi è stato girato San Damiano? Come dichiara uno dei registi, l’intento è anche terapeutico. Ma terapeutico per chi? Per chi, come Damiano, Sofia, Costantino, e gli altri, ha ascolto, sguardo? O per chi può farsi un safari d’immagini nella vita dei senza tetto occupandosi soltanto degli aspetti meramente emotivi, e quindi potendo prescindere dalle ragioni, delle difficoltà, delle ingiustizie che portano le persone a vivere per strada?”
In questo dibattito è poi intervenuto Girolamo Grammatico, che per anni ha lavorato proprio a Termini con i senza fissa dimora e che ha pubblicato per Einaudi il romanzo I sopravviventi, dedicato a quell’esperienza.
Oggi pubblichiamo un testo di uno dei due registi, Alejandro Cifuentes, che risponde ai punti sollevati da Raimo e Grammatico, racconta la genesi del film e il suo impatto.
Quando Appunti riesce ad animare queste discussioni, sono davvero felice di aver lasciato i giornali e di aver scelto questa piattaforma per fare un tipo diverso di informazione e dibattito.
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Stefano Feltri
Ringrazio Christian Raimo, Giuseppe Rizzo, Girolamo Grammatico per aver discusso pubblicamente San Damiano. Anche se l'articolo di Rizzo è uscito su Internazionale, lo includo per l'affinità con i temi sollevati da Raimo. Ringrazio anche Stefano Feltri per avermi invitato a rispondere su queste pagine.
Le principali obiezioni al film ruotano intorno a tre questioni fondamentali:
Lo sguardo: San Damiano estetizza la sofferenza? Costruisce un’immagine che si nutre della vulnerabilità altrui? Dove finisce il gesto poetico e dove inizia il voyeurismo?
Il contesto: Il film mostra senza spiegare. Non ci sono esperti, istituzioni, riferimenti politici. È un limite o una scelta?
L’effetto: Lo spettatore è lasciato libero di pensare, o abbandonato a un consumo emotivo? Il film rafforza la distanza tra “noi” e “loro”?
Prima di entrare nel vivo della discussione mi sento di fare una premessa. Noi stavamo lavorando a un film di finzione, non volevamo fare un documentario sui senzatetto.
Dopo un anno di volontariato con Sant’Egidio, per ricerca, decidiamo di dormire una notte alla stazione. In quell’occasione incontriamo Damiano, arrivato a Roma il giorno prima. Quell’incontro ha scompaginato le nostre vite e cestinato il progetto di finzione.
San Damiano è il nostro viaggio, o la nostra caduta, nella carne viva di un’umanità ferita che cerca lo spregevole senso della vita nel cuore delle nostre città, che urla ogni giorno per le nostre strade il disperato bisogno di essere vista.
La prima cosa che abbiamo imparato durante il volontariato è il bisogno fondamentale di essere visti, riconosciuti, di raccontarsi da parte di chi è stato marginalizzato dalla società. Portavamo il cibo e le coperte e ci trovavamo ore seduti sul marciapiede ad ascoltare ciò che queste persone avevano bisogno di dire.
Ci è sembrato naturale, una volta compreso che il progetto di finzione non era più nei nostri interessi, trovare un modo per dare spazio a questo bisogno. Che contributo potevamo dare?
Il cinema se ne occupa da sempre. È pieno di documentari su questa tematica, e programmi televisivi, avventurieri, youtuber, interviste, articoli, inchieste, libri, censimenti, dati, analisi...
Abbiamo cominciato a frequentare Damiano, rapiti dal suo carisma e sinceramente coinvolti in un rapporto amicale. Siamo tornati con la telecamera per fare dei video musicali. Dopo pochi giorni, Damiano ci ha chiesto di fare un film su di lui.
1. Lo sguardo
Riporto per esteso la citazione di Alda Merini – Francesco, canto di una creatura – con cui si apre il film:
Chi ha detto, amico e fratello,
che devi morire fra mille tormenti?
Sai che il tormento è una voce?
Sai che il dolore canta?
Io mi sono chinato sopra di te,
ho lavato le tue piaghe
e ho scoperto la musica,
la musica del dolore.
E te l'ho anche detto,
e tu mi hai guardato
come si guarda un pazzo.
Non hai creduto che tu,
nascosto nell'immondizia,
potessi darmi fremiti d'amore.
Quando diciamo “senza filtri” non intendiamo solo il fatto che il film restituisce la crudezza del girato senza edulcorazioni, ma anche che non abbiamo “filtrato” la vita dei protagonisti con l’intervento di intermediari. Abbiamo lasciato che la loro vita si raccontasse come noi crediamo di averla vissuta. Il punto di vista della regia vuole essere quello dei protagonisti, come se fosse girato da Damiano, o da Sofia, o da Alessio.
Non crediamo nel confine tra documentario e finzione. Troviamo che ci sia un sottile inganno nella pretesa oggettività che si cela nella parola “documentario”.
Come dice Raimo, anche noi crediamo che sia “impossibile essere senza filtro nella rappresentazione della realtà dal momento in cui una camera entra in scena”. Quel che puoi fare è raccontare la realtà per come la vedi tu, con la tua sensibilità e senza censurarti, cercando di essere onesto.
La cosa interessante per noi che abbiamo girato il film e siamo stati un anno a stretto contatto con ognuno di loro è come le persone coinvolte hanno scelto di usare questa visibilità.
Alcune critiche partono dall’assunto che ci sia uno sfruttamento della vulnerabilità altrui, dall’incapacità di queste persone di capire e gestire la telecamera. Si dà per scontato che chi vive in strada non sia capace di intendere e volere, probabilmente perché ritenuto pazzo o alterato da sostanze.
Io capovolgerei questo pregiudizio: chiediamoci come Damiano, Sofia o Alessio hanno usato la telecamera, che cosa hanno voluto mostrare consapevolmente?
C’è chi ha voluto spaccare una macchina, simbolo, credo, di una società che lo ha rifiutato. C’è chi ha voluto mandare un messaggio alla famiglia. Chi ha voluto mostrare i segni sul proprio corpo calpestato da una società indifferente. Chi ha voluto condividere una propria poesia... e lo stesso vale per l’intimità, un’intimità già esposta per le strade, già visibile.
Inoltre, quando abbiamo incontrato Damiano lui aveva con sé un tablet che usava per registrarsi quotidianamente.
Quando, in sede di montaggio, ci siamo messi a guardare quel che aveva ripreso, ci siamo resi conto che le sue immagini erano indispensabili per il film. C’è chi — come è successo a Raimo — non si è accorto del passaggio dalla nostra camera al tablet di Damiano.
Per noi, questa è la conferma più forte che siamo riusciti a realizzare un film dal punto di vista di Damiano. Significa che la narrazione è così immersiva da “scivolare” naturalmente, al punto che lo spettatore può confondere una ripresa orizzontale da una verticale, tra ciò che è girato da noi e ciò che è ripreso da lui.
È però ovvio che sorge un problema etico, faccio un esempio: se si analizza il film c’è un’unica scena di violenza in presa diretta, questa scena è stata filmata da Damiano. Senza fare spoiler, è una scena molto cruda e noi non avremmo mai avuto lo stomaco di girarla. Se nel film non compaiono altre scene di violenza “consumata” è proprio perché ci siamo sempre sentiti in dovere di intervenire.
Rizzo cita Davanti al dolore degli altri di Susan Sontag per denunciare lo sguardo voyeuristico che anima la regia del film.
Susan Sontag si è occupata principalmente di fotografia, e il suo saggio elabora una riflessione filosofica sull’immagine statica, spesso decontestualizzata, e sul suo consumo da parte dello spettatore moderno. Applicare in modo diretto le sue considerazioni a un’opera cinematografica, in particolare a un film con una forte componente relazionale e partecipativa, rischia di semplificare il discorso.
In San Damiano le immagini non sono isolate, ma vivono in relazione dinamica. L’interpretazione del dolore, della realtà, dell’altro, non è mai oggettiva, né – spero – può essere normata da un codice critico esterno.
Siamo abituati a considerare queste persone “corpi inermi” di fronte al potere della telecamera. Credo tuttavia che la maggior parte del pubblico avverta, durante la visione del film, qualcosa di profondamente diverso: l’attiva partecipazione dei protagonisti, l’uso libero e consapevole del mezzo per mostrarsi, per raccontarsi.
In questo senso Raimo ha parlato di collusione, io direi più condivisione d’intenti: noi volevamo che si esprimessero liberamente, qualunque cosa volesse dire e ovunque questa cosa ci portasse. Non abbiamo sentito il bisogno di proteggere loro da sé stessi nella voglia di raccontarsi, né il pubblico dalla visione di ciò che le persone del film volevano mostrare.
Quando Raimo dice che “Una delle protagoniste presente in sala, Sofia, ha scosso la testa rispetto a questa visione talmente adesiva all’oggetto del racconto che si espone al puro fatalismo. Che le intenzioni di alcuni dei protagonisti e dei registi non coincidano che senso dà al film?”
Ora, in questo passaggio Raimo cattura e interpreta un movimento del corpo di Sofia, per desumerne una critica sull’intero progetto, sull’intera relazione. Se ho capito bene la critica di Raimo è che i protagonisti del film vengono interpretati in modo abusante, non messi in condizione di esprimersi in modo che abbiano il controllo su loro stessi.
Nella proiezione citata dallo scrittore - eravamo al cinema delle Provincie - presentavamo il film con Alessio, come spesso accade. E quando Raimo ha preso la parola per criticare i primi piani sul disagio, sui volti sdentati, è stato lo stesso Alessio a rispondere: “Io i denti non ce li ho, ma sono qui a presentare il film. Cos’è che non ti sta bene?”.
2. Il contesto
Il documentario giornalistico d’inchiesta si avvale spesso di interviste a esperti, cartelli informativi e di una voce narrante onnisciente che guida la visione, evidenziando ciò che l’autore ritiene importante farci apprendere. È un modo legittimo e prezioso di fare informazione, ma non ci interessava questo tipo di lavoro.
Chi ci critica da questo punto di vista, semplicemente, avrebbe voluto che facessimo un altro film.
C’è chi cerca di comprendere la realtà sussumendo le storie individuali in un quadro sistemico — sociologico, psichiatrico, politico. È un lavoro importante, ma diverso dal nostro. Le due operazioni stanno agli antipodi, ma non necessariamente in conflitto. Anzi, possono essere complementari.
Noi crediamo che le emozioni vissute al cinema, quando si spengono le luci e si condivide il buio della sala, possano toccare le persone in profondità. È in quel momento sospeso che può nascere una delle spinte alla conoscenza più potenti che esistano.
È una forma di conoscenza alternativa, che non pretende di oggettivare o razionalizzare, ma che tenta di restituire la complessità emotiva e umana come esperienza vissuta.
Così il pubblico può empatizzare con Damiano come essere umano, e non come “caso” clinico o sociologico, non come oggetto di studio.
Per usare le parole di Franco Basaglia (Conferenze brasiliane, 1979):
“Il malato, che già soffre di una perdita di libertà quale può essere interpretata la malattia, si trova costretto ad aderire a un nuovo corpo che è quello dell’istituzione, negando ogni desiderio, ogni azione, ogni aspirazione autonoma che lo farebbero sentire ancora vivo e ancora se stesso.”
Nel nostro piccolo, abbiamo cercato di restituire proprio quel desiderio, quella azione, quella aspirazione.
Per quanto riguarda l’esperienza dello spettatore (terzo punto), crediamo che il documentario giornalistico — filtrato attraverso la voce degli esperti — generi una distanza rassicurante. Una distanza che protegge lo spettatore, lo assolve. Così, guardando Damiano da fuori, diventa più facile pensarsi diversi, al sicuro, “altrove”. Noi volevamo rompere quella distanza.
Come scrive Alda Merini in Desiderio amoroso:
È bello sognare gli identici sogni,
quei sogni che hanno solo gli emarginati e i lontani.
Sogni deboli e forti come le anime dei bambini.
Noi siamo nudi perché i vestiti non riescono a coprirci:
siamo buoni e siamo apprezzati dagli angeli.
Ci auguriamo che dopo la visione di San Damiano si avverta il desiderio di informarsi, se già non lo si fa, sull’emergenza abitativa, sulla piaga sociale delle persone che vivono per strada. Se c’è un contributo che il film può dare è proprio restituire un volto, una voce, una storia a quei numeri che spesso risultano freddi, astratti.
Così, quando si leggerà che in Italia ci sono 96.197 persone senza dimora (dato Istat 2021, con tutte le difficoltà metodologiche che comporta censire il fenomeno), si potrà pensare che dietro ognuna di quelle centomila vite c’è una persona, una storia.
Ma non è tutto. Ci siamo resi conto dopo un po’ di tempo che esiste una linea immaginaria a Termini che divide i passanti da chi dorme per strada. È immaginaria ma tangibile. Loro non interagiscono con noi e noi non interagiamo con loro. E fa impressione.
Solitamente siamo abituati a vivere al di qua di questo mondo e a vedere film sul passante che prende il treno e il senzatetto sullo sfondo. Il nostro lavoro capovolge la prospettiva.
La realtà è che, al contrario di quel che si crede, anche la violenza si consuma al di là della nostra linea immaginaria, del nostro mondo, tranne qualche rarissimo episodio enfatizzato dai media. Forse anche per questo permettiamo che esista questo manicomio a cielo aperto. Finché si fanno del male da soli tutto bene.
La cosa più disarmante è l’assenza dello Stato - lo stesso vale per la castrazione relazionale di cui parla Grammatico. La denuncia di questa evidenza nel film non è sottolineata da un esperto e non c’è nessun narratore che la esplicita. Ma ce n’è davvero bisogno?
Secondo voi chi vede San Damiano non si rende conto del vuoto di responsabilità politica, dell’emergenza umanitaria che coinvolge tutta la nostra “comunità”?
Faccio un esempio cinematografico che conoscono tutti. In La zona d’interesse, Jonathan Glazer sceglie di non mostrare l’orrore del campo di sterminio di Auschwitz, che resta fuori campo per tutta la durata del film. La macchina da presa rimane invece concentrata sulla vita ordinaria e anestetizzata della famiglia del comandante Höss, mostrando così l’orrore attraverso l’assenza.
Allo stesso modo, San Damiano non mostra lo Stato. Ma questa assenza non è una dimenticanza: è l’essenza stessa della realtà che abbiamo documentato. Ciò che non si vede è ciò che più incide sulle vite dei protagonisti. Si manifesta come abbandono, solitudine, precarietà.
In entrambi i casi, si sceglie di non rappresentare direttamente il potere con una differenza sostanziale: in La zona d’interesse, la sottrazione è una potente scelta di finzione narrativa; in San Damiano, sarebbe stata una finzione introdurre lo Stato. La realtà, lì, è proprio quel vuoto.
3. L’effetto sullo spettatore
Damiano ha il carisma — e la follia — capace di far esplodere qualsiasi porto sicuro al quale abbiamo affidato la protezione dei nostri abissi, delle nostre fragilità più indicibili.
La libertà con la quale canta il suo dolore, con la quale dialoga con i suoi demoni, con le sue ferite, rivela la meravigliosa fragilità che siamo.
Credo che sia l’antieroe di cui molti di noi hanno bisogno, perché nonostante il buio che ha sempre vissuto, nonostante la separazione che gli è stata imposta per la sua diversità, comunque lotta per un futuro migliore, diviso tra paradiso e inferno, tra bene e male, tra amore e odio.
In questa lotta nuda e disperata le estremità dell’esistenza si toccano, le contraddizioni coabitano in una sorta di purezza disturbante. E la sua sofferenza, il suo bisogno di essere ascoltato, di incontrare l’altro, lo obbligano a trovare continuamente nuovi linguaggi per esprimersi.
Raimo scrive che
“Damiano viene raccontato come una specie di santo bevitore, ma i suoi sermoni è davvero difficile distinguerli dalla logorrea alcolica.
Le sue azioni – una violenza ripetuta, contro gli altri e contro di sé – vengono inquadrate come puri agiti, senza una cornice che consenta una riflessione a posteriori sugli effetti.
Così la complicità dell’inquadratura ci dovrebbe suggerire che possiamo concedere a Damiano una morale al di là del bene e del male.
E anche le sue performance artistiche – rapping di versi spesso sconnessi – sono disastrose.”
Per chi ha visto il film non c’è bisogno di aggiungere niente. Ma poiché molti nei commenti all’articolo ammettono di non avere intenzione di guardarlo, voglio riportare integralmente una delle tante disarmanti riflessioni di Damiano:
“Non mangiate sta mela, figli di puttana!
Dopo un giorno, per una mela, li ha buttati tutti quanti dal paradiso all’inferno, per una mela!
E loro credono: Dio fantastico, Dio bello... Dio è un diavolo, è un diavolo!
Se tu mangi una mela e vai all’inferno, se tu hai fame e mangi un pezzo di pane, perché volevi provare sto cazzo di pane, perché volevi provare sto cazzo di pane, perché avevi fame, e ti mando all’inferno per questo, chi sono io, un Dio?”
Questo passaggio — duro, viscerale, quasi una bestemmia rovesciata — è una violenta accusa contro un’immagine punitiva e ipocrita di Dio, e più in generale contro ogni autorità (!) che condanna il desiderio, la fame, la fragilità umana.
È un grido disperato e lucidissimo contro un’idea di divinità (o di legge morale) che punisce la vita stessa, pronunciato da chi rifiuta di accettare la colpa per il solo fatto di esistere con dei bisogni.
Una bestemmia che, paradossalmente, contiene un’idea altissima di giustizia.
Se siamo d’accordo che l’artista è colui che sperimenta l’urgenza di nuove forme d’espressione perché vive l’insufficienza del linguaggio convenzionale, allora Damiano lo è senz’altro: la sua inquietudine, il suo disadattamento, non sono solo disagio, ma la radice stessa della sua ricerca d’espressione.
Come diceva Franco Basaglia in Follia/Delirio (1982):
“Voce confusa con la miseria, l’indigenza e la delinquenza, parola resa muta dal linguaggio razionale della malattia, messaggio stroncato dall’internamento e reso indecifrabile dalla definizione di pericolosità e dalla necessità sociale dell’invalidazione, la follia non viene mai ascoltata per ciò che dice o che vorrebbe dire.”
Nel suo rap, nelle sue invettive, Damiano sperimenta un linguaggio che non è fatto per essere tradotto in categorie.
È qui, forse, che risiede la forza disturbante e necessaria della sua voce: in ciò che non può essere imbrigliato, né ridotto, né “curato” attraverso la normalizzazione.
In conclusione, non so spiegare l’emozione che provo quando a fine proiezione alcune persone ci chiedono cosa possono fare, a chi si possono rivolgere per aiutare come volontari.
Io spero che il film faccia porre alcune domande importanti, non posso aspettarmi l’azione, ma quando succede è senz’altro la gioia più profonda.
E poi immagino Damiano. Seduto in fondo alla sala.
Si spengono le luci. Per un’ora e mezza, chi solitamente lo evita, lo guarda. Lo ascolta. Ride con lui. Piange con lui. Lo sente vicino.
C’è qualcosa di più forte di questa empatia?
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Ho seguito e seguirò il dibattito su Damiano. Ringrazio Feltri e tutti gli intervenuti per l'opportunità. Non ho ancora visto il film ma, se ne avrò l'occasione (abito ben lontano da Roma) lo farò.
Trovo difficile dare un'opinione sul dibattito. La mia esperienza da volontario è marginale e posso dire solo di ben appartenere a quella parte del mondo che sta al di qua di quella linea immaginaria che divide le nostre città.
La difficoltà di prendere posizione, in base a quello che ho letto, credo che sia il sintomo della non maneggiabilità del tema. Molti punti di vista dicono ognuno, il vero. Ma forse non colgono l'essenza che sfugge a tutti.
Forse solo umiltà, compassione, rispetto per le vite possono un po' avvicinarci.
Resta comunque un senso di vuoto che forse è quello che accumuna le nostre vite con quella dei Damiano. Un male di vivere, la percezione dell'insensatezza stessa della vita o, meglio, delle costruzioni mentali che noi umani abbiamo creato per dare un senso.
Ma siamo qua, per cui, a parte questo, resta il dovere dell'agire politico che tutti noi nel nostro piccolo dovremmo perseguire.
Grazie di nuovo a tutti voi.
Oggi è stata una giornata particolare, qualche ora fa ho visto su RAI Tre un lungo documentario su Goffredo Fofi "Suole al vento". Adesso ho letto questo lungo dibattito su S. Damiano, Raimo e gli autori e nella mia testa sono ritornate letture fatte per un esame di letteratura italiana (1976 ?) e i nomi di Nuto Revelli, Rocco Scotellaro, "il mondo dei vinti", Giovanna Marini.
Grandi emozioni, un grazie a Stefano Feltri, ai suoi Appunti, ai registi.
Bello, potente, sconfortante, i piedi nel fango del vivere.
Piero