Due, nessuna, centomila
In Polonia non è solo in gioco la competizione tra uno schieramento «pro-europeo» (sconfitto) e uno «euro-scettico» (vittorioso), ma tra visioni politiche del Paese che affondano nella sua storia
Le velleità polacche di diventare leader della Nuova Europa, del nuovo «baricentro baltico» della NATO o dell’Intermarium, al di là dei facili innamoramenti per questa o quella formula, sono inficiate dalla piatta evidenza che l’avvenire della Polonia dipende da Washington, Londra, Berlino e Parigi – senza dimenticare Mosca e Kiev – molto più di quanto non dipenda da Varsavia
Manlio Graziano
Nella sua travagliata esistenza, la Polonia non è mai stata una «mera espressione geografica». A differenza dell’Italia, geograficamente inamovibile in mezzo al Mediterraneo, la Polonia ha transumato in continuazione sulla carta dell’Europa orientale, intersecando il suo destino con quelli della Svezia, della Prussia, della Russia, dell’Impero ottomano e, molto importante, dell’Ucraina.
All’epoca in cui gli staterelli italiani si combattevano tra loro chiamando in soccorso le truppe straniere, la Polonia era già una grande potenza, una delle più importanti della storia d’Europa.
Il primo Stato polacco vide la luce nell’XI secolo, quando l’Italia era divisa in una trentina di entità politiche principali; nel XIV secolo, il Regno di Polonia iniziò il suo percorso di grande potenza sotto la dinastia degli Jagelloni, fino alla fusione ufficiale con la Lituania che, nel 1569, diede vita alla Repubblica delle due nazioni.
Al suo apice, all’inizio del XVII secolo, lo Stato lituano-polacco si estendeva su una superficie di circa un milione di chilometri quadrati (l’Italia odierna è meno di un terzo), estendendosi dal Baltico fin quasi alle rive del mar Nero; nel 1618, ospitava una popolazione di circa dodici milioni di persone, di cui più di metà polacchi, un quarto ruteni (slavi della vecchia Rus’ di Kiev, cioè bielorussi, ucraini e slavi dei Carpazi), più di un decimo lituani, oltre circa un milione di ebrei.

Già, perché, nella sua fase di ascesa, la Polonia fu, tra tutti i Paesi cattolici, il più tollerante e aperto, offrendo rifugio alle centinaia di migliaia di ebrei perseguitati nel resto dell’Europa cristiana: secondo l’European Jewish Congress, a metà del XVI secolo, si trovava sulle sue terre l’80% degli ebrei del mondo, che contribuirono in maniera significativa allo sviluppo economico e intellettuale del paese.
Scomparsa e rinascita
Molti storici datano l’inizio del declino della Repubblica al 1648, conseguenza di una furiosa rivolta dei contadini ucraini guidati dai cosacchi contro i grandi proprietari terrieri polacchi, rivolta che portò all’annessione dell’Ucraina orientale da parte della Moscovia (chiamata poi Russia a partire dal secolo successivo) nel 1653.
Da quel momento comincia la storica inimicizia – per usare un eufemismo – tra polacchi e ucraini, e cominciano anche le prime persecuzioni anti-semite, di cui moscoviti e cosacchi erano stati pionieri ma che divennero poi parte integrante della cultura politica polacca, soprattutto dopo la partizione della Repubblica tra Russia, Prussia e Austria, alla fine del Settecento.
L’anti-semitismo polacco, che crescerà in intensità fino a culminare nel Novecento, conferma la regolarità storica per cui ai periodi di crescita e di sviluppo corrisponde una psicologia sociale e politica caratterizzata dall’ottimismo e dall’apertura, mentre ai periodi di crisi e di declino corrisponde una psicologia sociale e politica caratterizzata da chiusura identitaria, egoismo e angherie contro l’«altro».
Alla rivolta ucraina, si aggiunse nel 1655 un’invasione svedese (nota come «il Diluvio»), che costrinse tra l’altro la Polonia a rinunciare alla sovranità sulla Prussia. La quale si sviluppò fino a diventare una delle tre potenze che, nella seconda metà del Settecento, si spartirono la Polonia, fino a farla scomparire dalle carte geografiche.
Al momento della sua rinascita, dopo la Prima Guerra mondiale, la Polonia si riprenderà molti dei territori perduti ad Est, in Bielorussia e Ucraina, annettendo anche una parte della Lituania, tra cui l’attuale capitale Vilnius (Wilno in polacco).
I tempi, però, erano cambiati: a differenza dell’epoca degli Stati multietnici, si era entrati nell’era delle nazioni e dei nazionalismi; la coabitazione tra polacchi e gli altri popoli, a cominciare da ucraini, bielorussi e lituani, per non parlare degli ebrei, fu regolata sulla base della supremazia dell’etnia polacca sulle altre. Il che non si rivelò impresa facile, considerato che, al censimento del 1921, le minoranze rappresentavano il 30,8% della popolazione del nuovo Paese (14% ucraini, circa 10% ebrei, 3% bielorussi, 2% tedeschi e 3% di altre etnie, tra cui lituani, ruteni, armeni, russi e rom).
Le prime discriminazioni legali contro gli ebrei cominciarono fin dal 1920, a cui seguirono diversi pogrom e, infine, l’adozione di una legislazione antiebraica sul modello tedesco nel 1938.
Anche gli ucraini furono discriminati, in particolare se ortodossi, e l’uso della loro lingua progressivamente limitato; nella seconda metà degli anni 1930, iniziò nei loro confronti una campagna di polonizzazione e di conversioni forzate al cattolicesimo.
Così, quando i russi spartirono per la quarta volta la Polonia con i tedeschi, nell’agosto 1939, a margine del patto Ribbentrop-Molotov, il pretesto ufficiale per la loro invasione fu la necessità di liberare dalla «colonizzazione» polacca le popolazioni bielorusse e ucraine perseguitate (sorvolando sul dettaglio che, pochi anni prima, i russi avevano volontariamente fatto morire di fame almeno tre milioni e mezzo di ucraini).
Con l’invasione tedesca dell’estate del 1941, poi, le persecuzioni ucraine contro i polacchi in Ucraina occidentale, cominciate già con l’annessione della Volinia occidentale all’URSS di due anni prima, si intensificarono, culminando nei massacri di almeno centomila persone in Volinia e Galizia orientale nell’estate del 1943.
Alla fine della guerra, i confini della Polonia furono di nuovo spostati, questa volta di duecento chilometri a ovest: circa 178.000 km2 di territorio furono ceduti all’URSS a est, più o meno gli stessi che erano stati «conquistati» nel 1939 grazie all’accordo con Hitler; circa 101.000 km2 furono guadagnati a nord e a ovest, a discapito della Germania.
In quella stessa occasione, mezzo milione di ucraini furono espulsi dalla nuova Polonia, e un milione di polacchi furono espulsi dall’Ucraina.

Nel corso della storia, dunque, la Polonia ha assunto diverse personalità, ed è scomparsa almeno un paio di volte. La carta che segue riassume tutti gli spostamenti cui abbiamo rapidamente accennato:
Perché questa corta lezione di storia è importante per capire gli attuali sommovimenti politici polacchi, in particolare alla luce dei risultati delle elezioni presidenziali di domenica 31 maggio?
Perché ci dice che quel che è in gioco in Polonia, oggi, non è solo la competizione tra uno schieramento «pro-europeo» (sconfitto) e uno schieramento «euro-scettico» (vittorioso), ma tra diverse prospettive e visioni politiche per il Paese, che affondano le loro radici proprio nella sua storia.
Le eredità della storia
Mentre l’attenzione si concentra sulla divisione elettorale del Paese a metà, si tende a trascurare le sfumature, le ambiguità e le incertezze all’interno dei due blocchi, che si possono muovere anche in modo repentino a seconda del contesto internazionale.
Le eredità storiche salienti che, nell’attuale fase di transizione, tornano prepotentemente a galla sono principalmente tre: l’ostilità nei confronti della Russia; l’ostilità nei confronti della Germania; l’aspirazione a parare la sempre immanente minaccia russo-tedesca mettendosi sotto la protezione della potenza che appare al momento la più forte.
In tutto questo, l’«inimicizia» nei confronti dell’Ucraina è un corollario che può essere giocato in un senso oppure in un altro – e che d’altronde si incrocia oggi con una più generale tendenza identitaria, spesso xenofoba e a volte apertamente razzista, di certo non limitata alle frontiere della Polonia.
Dopo la spartizione (e la sparizione) del 1795, i polacchi pensarono di trovare il loro protettore in Napoleone, il quale in effetti diede vita, nel 1807, al Ducato di Varsavia.
Lo scopo dell’imperatore, però, non era di fare un favore alla sua maîtresse Maria Walewska, come amano raccontare quelli che credono alle favole, ma piuttosto di fare di quello staterello vassallo un cuscinetto tra la Russia e la Prussia e spremerlo per sostenere le spese di guerra del suo esercito.
Favola o no, comunque non fu a lieto fine: i russi si ripresero Varsavia solo cinque anni più tardi, mentre rincorrevano i resti della Grande Armée, e la storia finì lì.
Quando, 105 anni dopo, la Polonia fu ricostituita, il governo cercò e ottenne la protezione di quelle che apparivano le due maggiori potenze europee del tempo: la Francia e il Regno Unito.
Anche in questo caso, niente lieto fine: abbandonando la Cecoslovacchia nel 1938, francesi e britannici avevano dato un segnale interpretato a Berlino come un via libera per attaccare la Polonia.
Parigi e Londra si decisero allora a dichiarare guerra alla Germania, certo, ma 1) non riuscirono a impedire l’invasione, 2) limitarono il conflitto a qualche scaramuccia e 3) restarono impassibili di fronte alla successiva aggressione russa da oriente. Anzi, Winston Churchill si spinse ad affermare che l’avanzata sovietica «era chiaramente necessaria per la sicurezza della Russia contro la minaccia nazista».
Nel 1990, quando il Patto di Varsavia esisteva ancora, il ministro degli Esteri del primo governo polacco libero dalla tutela russa, Krzysztof Skubiszewski, si recò in visita al quartier generale della NATO a Bruxelles. Era il primo abbozzo di un avvicinamento cautelativo agli Stati Uniti per sottoscrivere un’assicurazione non solo contro la Russia ormai prossima al collasso, ma anche, eventualmente, contro la Germania che si stava riunificando. Per la terza volta, Varsavia cercava garanzie contro i vicini presso il potente alleato lontano. Come si sa, la storia non insegna mai nulla.
Il tradimento occidentale
Come Napoleone quasi due secoli prima, e come britannici e francesi negli anni 1920, anche gli americani erano infatti interessati alla sicurezza della Polonia solo nella misura in cui poteva servire alla loro sicurezza.
D’altronde, nell’agosto 1944 Washington si era rifiutata di correre in soccorso all’insurrezione di Varsavia e, nel 1945, a Yalta, Roosevelt aveva accettato l’inclusione della Polonia nella sfera di influenza russa e lo spostamento delle sue frontiere ad ovest; infine, il 5 luglio dello stesso anno, Truman ritirò il sostegno al governo provvisorio in esilio a Londra, abbandonando così Varsavia alla mercé di Mosca.
A partire dal 1947, prendendo pretesto dall’evidente abbandono da parte degli americani, i lacchè locali del Cremlino lanciarono una svergognata campagna sul «tradimento occidentale della Polonia», «dimenticando» che i sovietici avevano ucciso i dirigenti comunisti polacchi rifugiati in Russia e sciolto il partito, avevano spartito il paese con Hitler, lo avevano invaso e avevano massacrato 22.000 militari prigionieri di guerra e intellettuali nascondendone poi i corpi sottoterra nella foresta di Katyn’ (aprile 1940).
Ma il «tradimento occidentale» – che, come si è visto, ci fu davvero – era stato già perdonato nel 1999, quando la Polonia fu uno dei primi paesi dell’ormai defunto Patto di Varsavia a entrare nella NATO, sbugiardando la promessa americana fatta a Gorbaciov nel 1990 di non spostare i confini dell’Alleanza atlantica «neppure di un pollice» verso est.
Varsavia fece poi atto di candidatura all’Unione europea, con almeno tre scopi: 1) diluirne il peso della Germania; 2) diventarne il «cavallo di Troia» americano; 3) intascarne i benefici economici. Nonostante fosse ormai prossima all’ingresso nell’UE (che avvenne nel 2004), la Polonia non esitò neppure un attimo a schierarsi contro la Germania e la Francia al momento della guerra del Golfo del 2003, soprattutto quando Mosca raggiunse Berlino e Parigi nell’opposizione a Washington.
In quell’occasione, la Polonia divenne, per dimensioni e storia pregressa, la capitale virtuale della «New Europe» inventata dal segretario alla Difesa americano Donald Rumsfeld in opposizione alla «Old Europe» franco-tedesca.
Diffidare di Berlino, temere Mosca
I polacchi sanno per esperienza che devono sempre diffidare della Germania, e sempre temere la Russia; ma se capita che Germania e Russia siano schierate dalla stessa parte, allora tutti i segnali d’allarme passano al rosso.
Se ne ebbe la riprova quando, nel 2006, venne siglato l’accordo per il gasdotto Nord Stream tra Berlino e Mosca: Radek Sikorski, allora ministro della Difesa e oggi degli Esteri, parlò in quell’occasione nientemeno che di una «Ribbentrop-Molotov del gas».
I tentativi polacchi di rompere quell’alleanza energetica ai loro occhi perniciosissima furono incessanti, costantemente sostenuti dagli Stati Uniti; e quando il gasdotto fu fatto esplodere in un attentato, nel settembre 2022, Sikorski reagì con un tweet: «Thank you USA».
Nella seconda metà degli anni 2010, il governo nazionalista del partito Diritto e Giustizia rilanciò la cosiddetta «Iniziativa dei tre mari», un progetto che ricalcava una vecchia idea degli anni 1920 del maresciallo Józef Piłsudski, allora capo del governo – l’«Intermarium» – per una federazione tra Polonia, Stati baltici, Finlandia, Bielorussia, Ucraina, Ungheria, Romania, Jugoslavia e Cecoslovacchia allo scopo di rilanciare (ed estendere fino a unire i tre mari, Mar Nero, Baltico e Adriatico) l’eredità storica della Repubblica polacco-lituana.

Rispetto al velleitario progetto di Piłsudski, l’«Iniziativa dei tre mari» fu più realisticamente immaginata come semplice forum di consultazione tra i Paesi coinvolti, ma in certi ambienti di Varsavia non si faceva mistero di farne qualcosa di più, soprattutto dopo la decisione di accogliervi l’Ucraina, nel giugno 2022. Il fantasma della grande Repubblica delle due nazioni continua dunque ad aleggiare.
L’idea di «make Poland great again», però, non quadra con la condizione attuale del Paese, che non ha più alcuna delle caratteristiche che gli avevano permesso di diventare grande a partire dal XIV secolo.
Se l’anacronismo è, per uno storico, «il peccato dei peccati, il peccato più imperdonabile di tutti» (Marc Bloch), per un politico è la strada più breve verso la distruzione del proprio paese.
Tuttavia, nel contesto degli anni 2020, l’Intermarium poteva essere inteso non tanto (o non solo) come ipotesi di ricostruzione della Grande Polonia, ma come eventuale alternativa europea all’asse franco-tedesco.
Dopo l’invasione russa dell’Ucraina, l’incremento della presenza militare americana alle frontiere del vecchio impero russo e l’allargamento della NATO a Finlandia e Svezia sembravano aver spostato il baricentro europeo a nord-est, mettendo le ali alle velleità di Varsavia.
Ma che si tratti di rifare la Grande Polonia o di mettersi alla testa della «New Europe», sempre di velleità si tratta, per le quali Varsavia (anche aggiungendovi i suoi eventuali partner baltici) non è attrezzata.
Inoltre, quell’idea nasconde una ambiguità che potrebbe trasformarsi in schizofrenia: la Repubblica delle due nazioni era una potenza attiva e all’offensiva nella sua porzione di Europa; oggi (per meglio dire: dal 1795 a oggi), la Polonia è prevalentemente passiva e costantemente bisognosa di riassicurazioni difensive.
Dalla doppia influenza prussiana e russa, la Polonia ha ereditato la convinzione secondo cui un forte esercito è garanzia di sicurezza; è quindi diventata il paese con la più elevata spesa militare nell’UE (in proporzione al Pil) e con l’esercito più grande in assoluto in termini di personale. Certo, la forza militare è indispensabile, ma senza adeguata copertura economica, senza adeguata innovazione tecnologica e senza adeguata visione strategica, la forza militare non va lontano (come ha dimostrato la fallimentare iniziativa russa in Ucraina).
Con l’arrivo della nuova coalizione «europeista» nel 2023, la tendenza a fare di quello polacco il più grande esercito europeo non è mutata, ma le prospettive geostrategiche sì. E la responsabilità non ricade solo sul nuovo esecutivo.
Tanto per cominciare, l’entusiasmo popolare per gli eroici ucraini si è affievolito di molto: prima di tutto perché la loro capacità di sconfiggere i russi (cui molti polacchi avevano inizialmente creduto) si è dimostrata un’illusione; poi, perché i quasi due milioni di profughi ucraini in Polonia (di cui 58% tra 18 e 59 anni) sono visti sempre più come imboscati e profittatori, al pari – quasi – di ogni altro immigrato; infine, perché questi due fattori hanno contribuito a risollevare il velo sull’«inimicizia» nei confronti degli ucraini.
Va da sé, però, che la trasformazione più importante sia il terremoto geopolitico mondiale che ha il suo epicentro a Washington.
Con chi stanno gli Stati Uniti? Finché la politica americana sarà ostaggio dei capricci di Donald Trump e del suo grottesco inner circle, a questa domanda nessuno potrà dare una risposta, certo non i polacchi.
Questo non fa che accrescere il nervosismo e l’incertezza sul tipo di rapporti avere con il paese a cui Varsavia si è affidata dagli anni 1990 in poi per la propria protezione.
Anche il più distratto e il più «trumpiano» dei polacchi si rende conto che, se Washington valutasse che la Polonia non offre più nulla, l’abbandonerebbe senza scrupoli a sé stessa. Un nuovo «Western Betrayal» è alle porte?
La terza ragione è che l’attuale governo «europeista» di Donald Tusk sembra pericolosamente pencolare dalla parte della Germania, o almeno dalla parte della impalpabile «coalition of willing», in un’Europa di cui comunque il cancelliere Friedrich Merz vorrebbe diventare il leader militare.
Vero è che, in quella coalizione, il peso della Germania sarebbe bilanciato e condizionato da Regno Unito e Francia, ma questo non scalfisce le inquietudini polacche, a maggior ragione se i «willing» volessero davvero prendere le distanze da Washington (sempre senza perdere di vista la possibilità che sia invece Washington a voler prendere le distanze da loro).
Questa è la condizione in cui si è arrivati alle elezioni di domenica 31 maggio.
Chi ha votato il candidato «europeista» Rafał Trzaskowski lo ha visto come il garante della continuità, ma chi non l’ha votato lo ha visto come autore di una deriva filo-tedesca e tendenzialmente anti-americana.
Il candidato «euroscettico» Karol Nawrocki è apparso a chi lo ha eletto come il garante di uno stretto rapporto con gli Stati Uniti, di una più decisa presa di distanza dall’Ucraina (e dagli ucraini opportunisti), e di un’equanime ostilità sia nei confronti della Russia che nei confronti della Germania.
Entrambe le posizioni sono dunque attraversate da incognite profonde, indipendenti dalla volontà dei due candidati e certamente dalla volontà dell’elettorato. Il minuscolo scarto tra i due (370.000 voti su quasi 21 milioni, cioè l’1,8%) rivela non tanto la spaccatura in due metà quasi uguali del paese quanto la grande incertezza sulle prospettive future.
Le velleità polacche di diventare leader della Nuova Europa, del nuovo «baricentro baltico» della NATO o dell’Intermarium, al di là dei facili innamoramenti per questa o quella formula, sono inficiate dalla piatta evidenza che l’avvenire della Polonia dipende da Washington, Londra, Berlino e Parigi – senza dimenticare Mosca e Kiev – molto più di quanto non dipenda da Varsavia.
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Articolo di una chiarezza e profondità straordinarie. Complimenti vivissimi.
Cito direttamente dal pezzo: “Le eredità storiche salienti che, nell’attuale fase di transizione, tornano prepotentemente a galla sono principalmente tre: l’ostilità nei confronti della Russia; l’ostilità nei confronti della Germania; l’aspirazione a parare la sempre immanente minaccia russo-tedesca mettendosi sotto la protezione della potenza che appare al momento la più forte.”
Se dovessi fare un twit che condensi la questione userei questo estratto. Insomma questa Polonia, liberale o populista che sia sarà un altro fattore di instabilità nel cuore dell’Europa.