Milano è abusiva
In Parlamento si discute della legge per sanare i grandi progetti immobiliari oggetto delle inchieste della Procura e per rendere permanente il "modello Milano". A beneficio solo dei costruttori
Davvero la città più ricca e dinamica d’Italia non vuole essere altro che l’indotto della speculazione edilizia?
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C’è una vicenda incredibile della quale però non si parla quasi, ma la faccenda sta esplodendo: mi riferisco alla questione del tentativo trasversale di Fratelli d’Italia e Pd di sanare per legge giganteschi progetti immobiliari a Milano che la Procura considera illegali e che ha sequestrato: Hidden Garden, Torre Milano e Park Towers, e poi la settimana scorsa anche Scalo House.
Ci sono quindici inchieste, enormi cantieri bloccati, mesi di lavorio sotto traccia in Parlamento per smantellare le inchieste per via legislativa, ma in silenzio, come se si volesse evitare di rendere anche questa vicenda parte della più grande questione dello scontro quasi quotidiano tra governo Meloni e magistratura. O meglio, delle polemiche del governo Meloni contro i giudici.
La faccenda della cosiddetta legge Salva Milano non può essere parte di quel filone perché c’è anche il Pd questa volta che appoggia il principio, c’è il sindaco di Milano Beppe Sala Sala e non solo.
Prima il Giornale della famiglia Angelucci, ora il Foglio dell’immobiliarista Valter Mainetti hanno lanciato una campagna non contro il sindaco di Milano di centrosinistra, ma contro i magistrati che lo mettono in difficoltà. Il direttore del Foglio Claudio Cerasa ha invocato un “patto trasversale per difendere la politica dalle esondazioni dei pm”, in una battaglia che si combatte proprio a Milano.
Rendere legale l’illegale
Una sintesi un po’ brutale di questa storia è che se serve una legge per rendere legali i progetti immobiliari sotto sequestro, significa che hanno ragione i magistrati e che quei progetti - senza la sanatoria - sono illegali.
Ma per aggirare questa apparente ovvietà, in questa storia si usano espressioni oscure come il “rito ambrosiano” dell’edilizia e la necessità di stabilire una “interpretazione autentica della legge”, che evidentemente a Milano interpretano in modo diverso che nel resto d’Italia, per effetto - dicono i difensori dei progetti contestati - di una legge regionale del 2005 dalle maglie larghe.
La Corte Costituzionale, però, già nel 2019 ha stabilito che in Lombardia non possono valere regole drasticamente diverse dal resto d’Italia.
Intanto il Comune di Sala ha appena deciso di chiudere lo sportello edilizia per evitare ogni contatto tra i funzionari e il pubblico, in attesa della legge salva Milano e di ridefinire i rapporti con le Procure.
Ma vediamo di capire il nocciolo della questione: il Comune in questi anni si è comportato come se fosse sufficiente una Scia, cioè una Segnalazione certificata di inizio attività, anche per realizzare edifici sopra i 25 metri e per ristrutturazioni profonde, che modificano la natura di immobili esistenti trasformati in condomini di lusso.
La Procura contesta che invece serve un piano attuativo per il quartiere. La differenza è enorme, la Scia è una semplice comunicazione, il permesso a costruire con un piano regolatore ha invece una gestazione lunga, costi più elevati, la definizione di servizi per il quartiere. Con la Scia si possono fare ristrutturazioni, che mantengono inalterata la struttura dell’immobile, ma quando con la Scia si costruiscono interi piani di appartamenti, box auto, garage e molto altro che poi verrà venduto a caro prezzo, è difficile che si possa parlare di mera ristrutturazione.
In pratica, con la scusa della rigenerazione urbana, a Milano si sono avviati decine di progetti milionari che sono passati come semplici ristrutturazioni, che però cambiavano la natura di interi quartieri - come Isola - ma senza che venisse ripensato il contesto, una trasformazione della città non discussa o approvata davvero da nessuno.
Il risultato è che i gruppi immobiliari hanno potuto sviluppare progetti di lusso senza che la collettività traesse alcun beneficio.
La procura di Milano non contesta qualche episodio di illegittimità, ma un sistema urbanistico che vede coinvolti architetti, funzionari del Comune, progettisti, imprese.
Gianni Barbacetto, inviato del Fatto Quotidiano, è praticamente l’unico giornalista che da mesi racconta sui giornali nazionali il tentativo della politica di fermare le inchieste sui progetti edilizi milanesi. Gianni, mi puoi fare un quadro delle inchieste in corso?
Sono una quindicina le inchieste su questioni urbanistiche aperte a Milano, o almeno queste sono quelle visibili. Ma sono almeno 150 i casi simili in città, a detta dello stesso sindaco di Milano Beppe Sala.
Le ipotesi della Procura, poi, sono già state confermate da alcuni giudici riesame, da giudici delle indagini preliminari, dalla magistratura amministrativa dei TAR e dalla magistratura contabile della Corte dei Conti.
Nell’ultima settimana sembra che l’inchiesta stia salendo di livello, perché?
La novità di questi giorni è che le contestazioni dei magistrati non sono più soltanto su singoli reati urbanistici, su singoli casi e singoli cantieri. I magistrati hanno individuato quello che chiamano un sistema un “sistema urbanistico” che si avvale di facilitatori cioè di personaggi che avendo contatti tra interni a Palazzo Marino fanno un po' da ponti tra i costruttori, gli operatori immobiliari e gli uffici dell'urbanistica.
In pratica, secondo i magistrati, decidono chi può costruire e chi no, chi ottiene subito il via libera e chi invece deve essere frenato. I pm cominciano a contestare agli indagati anche il traffico di influenze illecite e questo è un salto di qualità.
Perché?
La figura del facilitatore ci fa capire che non tutti i progettisti sono uguali a Milano. Secondo i pm sono emerse situazioni di disparità di trattamento tra progetti al vaglio della commissione In alcuni casi, finché c'era un certo progettista i permessi del comune non arrivavano. Cambiato il progettista individuato quello giusto i permessi arrivavano.
Questi facilitatori fanno tornare alla mente gli “architetti da riporto”, com'erano chiamati ai tempi della “Milano da bere” quegli architetti che servivano più che progettare il palazzi a portare a casa i permessi del Comune. Qualche anno dopo quel sistema trovò un nome: Tangentopoli.
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