La tentazione del dazio e il fantasma di Keynes
In un mondo dove un singolo microchip attraversa dieci confini prima di finire in uno smartphone, erigere barriere commerciali significa distruggere la crescita
Negli anni Trenta, non furono soltanto i dazi a spalancare la porta ad Adolf Hitler, certo, ma fecero la loro parte nell’avvelenare l’economia globale e l’umore delle piazze
Alfonso Scarano
La storia non si ripete mai alla lettera, ma conosce ricorsi ironici così perfetti da sembrare fotocopie. E la guerra dei dazi, che oggi torna a infestare i discorsi dei politici americani, è una di questi ricorsi storici.
Correva il 1930 quando Herbert Hoover, presidente degli Stati Uniti, firmò uno degli atti più sciagurati della storia economica: lo Smoot-Hawley Tariff Act. Dazi vertiginosi su migliaia di prodotti, nell’illusione di salvare l’economia americana dalla Grande Depressione. Si pensava di proteggere il lavoro interno, difendere gli agricoltori, rianimare l’industria.
Il risultato fu una catastrofe.
Il Canada e poi l’Europa risposero colpo su colpo. In tre anni, le esportazioni americane precipitarono del 61 per cento, le importazioni del 66 per cento. Il commercio mondiale collassò.
Mentre le nazioni si chiudevano dietro nuove cortine doganali, la miseria si allargava come una macchia d’olio. E in quel vuoto di pane e di speranza, in Germania, il nazismo trovò la sua strada verso il potere.
Non furono soltanto i dazi a spalancare la porta ad Adolf Hitler, certo, ma fecero la loro parte nell’avvelenare l’economia globale e l’umore delle piazze.
È inevitabile, di fronte alle mosse degli Stati Uniti negli ultimi anni, provare un brivido storico. Oggi non siamo nel 1930: non c’è stato un crollo rovinoso di Wall Street, non ci sono code chilometriche davanti alle mense dei poveri. Ma il vento del protezionismo soffia di nuovo, con bandiere nuove ma con lo stesso slogan antico: America First.
Donald Trump ha dato inizio alla stagione dei dazi contro la Cina, alzando muri doganali su acciaio, alluminio e centinaia di prodotti.
Il bersaglio dichiarato è la Cina, accusata di slealtà commerciale e di minaccia strategica. Ma la traiettoria dei dazi colpisce anche l’Europa, il Giappone, la Corea. Gli alleati sono diventati concorrenti, e guardano con crescente fastidio le politiche industriali di Washington, che rischiano di svuotare i loro investimenti e di distorcere il mercato globale.
La tentazione irresistibile
C’è un paradosso tragico: in un mondo così intrecciato, dove un singolo microchip attraversa dieci confini prima di finire in uno smartphone, erigere barriere commerciali significa tagliare i fili stessi della crescita economica.
Eppure, la tentazione resta irresistibile. Gli Stati Uniti convivono con un debito pubblico gigantesco e con un disavanzo commerciale strutturale.
Il protezionismo appare, agli occhi di molti, la scorciatoia più semplice per riportare industrie e posti di lavoro entro i confini nazionali.
Ma la storia insegna che queste scorciatoie hanno il sapore dolce dell’oppio e il retrogusto amaro del veleno.
I dazi fanno salire i costi interni, alimentano l’inflazione, rallentano gli scambi e rischiano di provocare un contraccolpo globale.
Il WTO, l’organizzazione mondiale del commercio, avverte già di un rallentamento del commercio mondiale nei prossimi due anni, e il timore è che il pianeta si divida in placche tettoniche con faglie sismiche assai attive.
E mentre il mondo osserva con apprensione la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, incombe un’altra ombra ben più cupa: lo spettro della guerra vera. Perché, oltre alle dogane, oggi si alzano muri di retorica bellica.
In Europa, si agita lo spettro, ipocrita, di una Russia con presunte mire espansionistiche illimitate. Una narrazione che, certo, trova alimento nell’aggressione russa all’Ucraina, certamente alimentata, ma che si è trasformata in una nuova cortina fumogena, utile a giustificare bilanci militari sempre più gonfiati e politiche energetiche sempre più opache.
Ipocrita, perché sotto quella retorica si muovono i soliti burattinai: i lobbisti dell’industria delle armi, bramosi di commesse miliardarie, e i lobbisti dell’energia, pronti a riplasmare i mercati globali a suon di sanzioni, rendite anche parassitarie per forniture alternative e nuove dipendenze.
Tutti interessati a un mondo spaventato, perché la paura, si sa, è il miglior carburante per gonfiare i prezzi, i contratti e gli utili.
Se potessimo evocare oggi John Maynard Keynes, lui, con la sua ironia tagliente, probabilmente sorriderebbe amaramente di fronte all’America che alza muri doganali per proteggersi dal mondo e di fronte a un’Europa pronta a blindarsi dietro eserciti e forniture strategiche.
“Il protezionismo,” direbbe, “è l’illusione di chi crede di potersi arricchire serrando le porte e trincerandosi dietro cannoni e dazi”.
Keynes ci ricorderebbe che la vera forza di una nazione sta nella capacità di mantenere i mercati aperti, nella fiducia reciproca tra Paesi e, soprattutto, nella consapevolezza che la pace e la prosperità camminano sempre mano nella mano . E ci ammonirebbe sul rischio che la politica del dazio, e ancor più la retorica del nemico alle porte, anziché difendere la prosperità, finiscano per alimentare fratture geopolitiche, nazionalismi rabbiosi e, nei casi peggiori, conflitti armati.
Nel 1930, Hoover non voleva distruggere il mondo. Voleva salvarlo. Ma firmò un pezzo di carta che diventò benzina sul fuoco della crisi di allora.
Oggi, l’America e i suoi alleati devono decidere se ripetere quell’errore, magari a colpi di sanzioni e missili, o se ascoltare finalmente la lezione della storia.
Perché se la storia non si ripete mai identica, a volte ricorre. E, inquietante come un tuono all’orizzonte, oggi rischia di chiamarsi guerra dei dazi — e forse qualcosa di molto peggiore.
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proprio così, indubitabilmente, ma
chi è 'sto Keynes? un sardo che ha studiato con Borghi e Bagnai?