Come rispondere alle “passioni tristi” dei cittadini?
IL DIBATTITO DI APPUNTI - La ricetta più sbagliata è contrapporre a una passione violenta e accecante come la rabbia, una cosiddetta visione razionale della realtà.
Un principio emerge dalla Retorica di Aristotele, ripreso nell’Etica di Spinoza: come nella fisica delle particelle, l’unico modo di contrastare una passione è introdurre un’altra passione, una forza opposta che contenga la passione originaria
Gloria Origgi
Buongiorno,
dopo un weekend più ricco del previsto, oggi torniamo al dibattito estivo di Appunti su come rispondere alla politica della rabbia. E lo facciamo con un pezzo strepitoso della filosofa Gloria Origgi, che tante reazioni suscita ogni volta che scrive per Appunti.
Leggetevelo, poi rileggetelo e fateci sapere cosa ne pensate
buona settimana,
Stefano
Il dibattito di Appunti - Come rispondere alla rabbia
I sostenitori della democrazia liberale sembrano destinati a diventare una frustrata minoranza, per effetto della rapida scomparsa dei partiti più moderati, per l’ascesa delle destre radicali e per l’affermarsi di figure e forze anti-sistema, non più soltanto populiste ma anti-democratiche.
Da Donald Trump negli Stati Uniti, ad Alternative für Deutschland in Germania, a Nigel Farage in Gran Bretagna, a Marine Le Pen e Jordan Bardella in Francia.
Questo rinnovato successo delle foze più antidemocratiche ha colto molti di sorpresa e suscita sconcerto.
Cosa si può fare? Ne discutiamo su Appunti per tutta l’estate a partire dal libro di Carlo Invernizzi-Accetti Vent’anni di rabbia (Mondadori)
Rispondere alle passioni con le passioni
di Gloria Origgi
Che le passioni giocassero un ruolo politico ce lo dice già Aristotele nella Retorica, il cui libro secondo è dedicato a far comprendere agli oratori politici come manipolare le emozioni nei loro discorsi.
Un principio emerge dalla Retorica di Aristotele, ripreso nell’Etica di Spinoza: come nella fisica delle particelle, l’unico modo di contrastare una passione è introdurre un’altra passione, una forza opposta che contenga la passione originaria.
Alla paura, passione tipica dell’autoritarismo, contrapporre la speranza, passione tipica delle forze progressiste, alla violenza, la compassione, e così via.
Dunque, la ricetta più sbagliata nella gestione delle passioni nella politica degli ultimi vent’anni, così com’è ben messo in luce dal saggio di Carlo Invernizzi-Accetti, Vent’anni di rabbia è contrapporre a una passione violenta e accecante come la rabbia, una cosiddetta visione razionale della realtà.
Siamo reduci da un’epoca strana, di accelerazione spaventosa e acefala, dalla globalizzazione a Internet, di ritorno della religione nella geopolitica internazionale (la Guerra Santa jihadista, le rivendicazioni dei conservatori cristiani in vari paesi occidentali, l’avanzata degli evangelici in America Latina, il conservatorismo hindu nell’India di Modi) e di esplosione delle politiche identitarie che si contrappongono violentemente al mantra dell’individualismo metodologico alla base del liberalismo politico ed economico.
La rabbia è un sentimento che nasce dalla comparazione con gli altri: dall’umiliazione di sentirsi “meno” rispetto agli altri. Il nostro benessere è essenzialmente relazionale
Non solo sfigati
Perché la rabbia è esplosa? Carlo Invernizzi-Accetti deplora la mancanza di riconoscimento di varie classi, molto eterogenee nel suo libro, dai bianchi middle-class sfigati americani, ai provinciali francesi, ai jihadisti di Bin Laden fino alle donne del Me-Too, che avrebbero tutti una “sindrome dello sfigato” che ricorda i risentiti del libro del grande filosofo Max Scheler, Il risentimento, del 1913.
Non sono sicura che si possa generalizzare un sentimento da losers di tutte queste categorie che spieghi una rabbia comune.
Le donne, per esempio, nei paesi occidentali dove il Me-Too è esploso, non sono mai state tanto riconosciute, non hanno mai occupato posti di potere così importanti, e la loro rabbia non viene da una posizione di “sfigate”, ma è una collera di potenti che hanno deciso che, una volta preso il potere, si cambiano le regole indecenti imposte da chi comandava prima.
Se i Gilets Jaunes francesi si sentono disprezzati e non visti dal potere centrale parigino, i jihadisti non hanno problemi di riconoscimento se non post-mortem: se ti fai saltare in aria è difficile che la tua esigenza sia quella di farti vedere. La loro rabbia dipende da uno scontro di civiltà reso visibile dalla globalizzazione e dalla mondializzazione dei sistemi di comunicazione, che hanno permesso il confronto costante tra sistemi di vita e di valori incompatibili.
La rabbia descritta così bene da Invernizzi-Accetti non ha secondo me una radice comune nella mancanza di riconoscimento. Ma sicuramente ha radicalizzato le battaglie sociali degli ultimi vent’anni.
Dunque, perché arrabbiati? Perché infuriati, pronti a dare fuoco e a darsi fuoco giusto per esistere? Perché la rabbia oltre l’economia e l’ideologia?
La rabbia è un sentimento che nasce dalla comparazione con gli altri: dall’umiliazione di sentirsi “meno” rispetto agli altri. Il nostro benessere è essenzialmente relazionale.
È stato dimostrato anche da molti economisti, come per esempio Robert Frank nel suo bellissimo libro del 1985 Choosing the Right Pond, che la rabbia e la frustrazione rispetto alla propria posizione sociale dipendono dal paragonarsi al vicino di casa che ha di più di noi, al collega che guadagna meglio o agli abitanti di un altro paese che hanno un welfare migliore.
Nel mondo denso della globalizzazione, che ci permette di compararci a chiunque nel mondo, la rabbia è esplosa come una lotta comparativa totale di tutti contro tutti.
C’è sempre qualcuno che sta meglio di noi, o che vive in un sistema di valori che invidiamo e allora vogliamo distruggere attraverso il meccanismo di inversione valoriale tipico del risentimento, o che ancora, come le donne, benché abbiano vinto tante battaglie sentono ancora di non essere stimate al suo giusto prezzo.
Oggi le donne in Occidente possono studiare, anzi, nella maggior parte dei paesi hanno superato il livello di studio degli uomini, eppure le loro carriere sono ancora spesso inferiori a quelle dei loro colleghi maschi, con stipendi inferiori.
Il valore non è nelle cose o nelle persone stesse: come due specchi che si guardano, il valore si crea nella relazione tra le cose o tra le persone
Siamo esseri comparativi
Gli esseri umani non sono né essenzialmente competitivi, né essenzialmente cooperativi: sono comparativi.
I risultati delle loro azioni assumono un senso solo se confrontati ai risultati delle azioni degli altri o a una scala normativa di valori.
Il valore - che sia morale o economico - si crea attraverso scarti qualitativi in un contesto: è il risultato per contrasto di un paragone.
Il valore non è nelle cose o nelle persone stesse: come due specchi che si guardano, il valore si crea nella relazione tra le cose o tra le persone, è il prodotto autonomo dello scambio comparativo e non ha altre finalità: creiamo valore per creare valore.
Non lo si può ridurre ad altre grandezze che gli pre-esistono, come l’utilità, la rarità o il lavoro (in economia): il valore è la traccia cognitiva, la generazione di opinioni che qualsiasi interazione produce e che struttura la percezione che abbiamo di noi stessi e degli altri.
Come diceva Karl Mannheim, considerato il fondatore della sociologia della conoscenza, l’essere umano “percepisce” il mondo gerarchicamente: afferra la realtà solo attraverso lo scarto valutativo generato da qualsiasi gerarchia.
Si tratta di un’attitudine cognitiva che non è solo il prodotto di una certa cultura, ma è radicata nei nostri meccanismi percettivi più profondi.
Sappiamo che il sistema percettivo umano è concepito per rilevare contestualmente i cambiamenti e che il modo in cui tratta l’informazione dipende dagli scarti di valore in un dato contesto.
Quello che sto cercando di mostrare è che questa attitudine comparativa è tra le più distintive della nostra specie: influenza come percepiamo il mondo, le nostre emozioni e il mondo in cui pensiamo.
L’homo comparativus legge il mondo attraverso gli scarti di valore. Il suo senso dell’oggettività si forgia attraverso questi scarti. Ciò non significa che il mondo intorno a lui non esista o sia completamente relativo al suo punto di vista.
Gli scarti sono inscritti nella dimensione relazionale del suo mondo, nelle miriadi di reti sociali che tessono la sua realtà e che gli permettono di estrarre l’informazione dal mondo.
Queste reti sono costitutive del suo mondo: non c’è una realtà ultima al di là dell’interconnessione degli eventi. È grazie a queste relazioni che il mondo è percepito, che l’informazione acquisisce un valore.
L’importanza della dimensione comparativa nelle passioni sociali non è un’idea nuova. Hobbes descrive la gloria come una passione ben distinta dall’utilità. A livello spirituale, questo impulso si esprime in un desiderio illimitato di potenza e, più precisamente, di superiorità sulla potenza altrui.
Negli Elementi di legge naturale e politica, Hobbes definisce precisamente la passione della gloria - una delle tre passioni fondamentali che causano rivalità - come un sentimento di trionfo sugli altri:
“La gloria, o il sentimento interno di compiacenza o trionfo della mente, è quella passione che deriva dall’immaginazione o concetto del nostro potere, superiore al potere di colui che contrasta con noi”.
La gloria è dunque una passione essenzialmente comparativa: è il piacere di sentirsi il migliore, di trionfare sugli altri. Si attribuisce a Talleyrand la riflessione seguente: “Quando mi considero resto perplesso, quando mi confronto mi esalto”.
Ma questo giubilo del paragone non si ferma alla nostra immagine e alle passioni narcisistiche: è una proprietà cognitiva dalla qualche dipende non solo il nostro comportamento morale ma anche le nostre capacità epistemiche.
È grazie a questa attitudine comparativa che siamo capaci di estrarre informazione dal mondo.
La globalizzazione e la comparsa di Internet all’inizio del nuovo millennio hanno creato una cassa di risonanza gigantesca per compararsi l’un l’altro
Valore e informazione
L’idea che la dimensione della valutazione sia primaria non solo nella motivazione all’azione ma anche nell’estrazione di informazione si può ritrovare in una letteratura sparsa in diverse scienze sociali, sotto forme molto differenti tra di loro, ma che evocano la stessa intuizione ontologica fondamentale: è nello scarto di valore che le cose assumono un senso e che l’informazione si costituisce, e non esiste oggettività che può fare a meno di questa dimensione comparativa.
In un saggio sul valore in economia, l’economista francese André Orléan propone un quadro concettuale radicalmente nuovo per ripensare l’economia inserendola finalmente di nuovo in uno schema esplicativo che vada al di là dei modelli quantitativi e che prenda in considerazione le altre scienze sociali.
Riprendendo l’intuizione di Schumpeter secondo il quale “il problema del valore deve sempre occupare una dimensione centrale come strumento di analisi principale di ogni teoria pure che parta da uno schema razionale”, Orléan rifiuta l’idea che il valore possa essere identificato a una sostanza - l’utilità - che gli pre-esiste.
Il valore si crea negli scambi e non è riducibile ad altre grandezze: “La ricerca di prestigio che manifestano le lotte di distinzione è uno sprone altrettanto potente nel rapporto agli oggetti. Più generalmente, in diverse situazioni, il valore viene ricercato per sé stesso, in quanto potere d’acquisto universale”.
Di qui il suo progetto di rifondare l’economia focalizzandola su una nozione di valore autonomo, oggetto di studio di tutte le scienze sociali: “comprendere il valore di mercato nella sua autonomia, senza cercare di ridurlo a una grandezza preesistente”.
La sociologa giapponese Eiko Ikegami ha studiato la componente essenzialmente comparativa della costruzione dell’io in Giappone.
Ricostruendo la storia dei guerrieri samurai, Ikegami mostra che la specificità dell’organizzazione sociale giapponese non è il collettivismo, ma una cultura della competizione comparativa in cui l’onore e il continuo confronto con gli altri giocano un ruolo fondamentale.
La globalizzazione e la comparsa di Internet all’inizio del nuovo millennio hanno creato una cassa di risonanza gigantesca per compararsi l’un l’altro. E non solo: lo sviluppo del Web e delle reti sociali hanno reso possibile visualizzare questa comparazione, esaltarla, metterla in forma e dare voce alla rabbia e all’umiliazione di chi credeva di essere tutto e si ritrova un nessuno in un mondo globalizzato.
Non c’è più nessuna dimensione della comparazione che sia risparmiata, non c’è un sistema di valori rispetto al quale ci confrontiamo e ci rassicuriamo della nostra posizione, perché i valori possibili e le dimensioni lungo le quali ci guardiamo e siamo guardati ormai sono potenzialmente infinite.
Abbiamo avuto una discussione con Carlo Invernizzi Accetti durante una presentazione del suo libro: Internet è stato un acceleratore della rabbia o sono altri fattori sociali che l’hanno determinata?
Secondo Carlo i fattori sono altri, sono legati al generale risentimento dei declassati. Secondo me invece, un po’ di tecnodeterminismo è necessario per capire il vaso di Pandora di emozioni e sentimenti che si è scoperchiato negli ultimi vent’anni. Internet è una cassa di risonanza delle lamentazioni collettive, delle speranze di visibilità deluse da un sistema dei network sociali che premiano gli outlier e lasciano nell’invisibilità totale tutti gli altri che non sono che basso proletariato intellettuale che produce contenuti per nutrire gli algoritmi che venderanno loro pubblicità.
Il linguaggio liberato dalle reti sociali fa male, infiamma: come dice la filosofa Judith Butler nel suo bel libro Parole che provocano, il linguaggio è uno strumento di violenza a volte più pericoloso delle armi.
Questo coro collettivo di lamentele, di insulti, di confronti continui gli uni con gli altri e di sovraesposizione permanente è stato sicuramente un fluido infiammabile che ha alimentato la rabbia di questi anni.
Calmare la rabbia significa prendersi la responsabilità di chi siamo e abbiamo deciso di essere.
Scegliere e decidere
I rimedi? Difficile chiudere il vaso di Pandora una volta scoperchiato. Ma sicuramente il mondo intero globalizzato come cerchia di riconoscimento è troppo grande. Ciascuno di noi deve imparare a cercare riconoscimento nella comunità di riferimento per lui. Un mio maestro mi disse una volta: “Non è importante essere stimato da tutti. Ciò che è importante è essere stimato da chi tu stimi”.
La cerchia di riconoscimento dovrebbe essere limitata a coloro con i quali abbiamo un progetto comune, un’idea comune di vita politica, sociale e culturale, poco importa che dall’altra parte della società o addirittura del mondo non siamo visibili o non siamo apprezzati.
Un altro rimedio contro la rabbia è recuperare una distinzione importante in politica: quella tra scegliere e decidere.
Oggi in politica la maggior parte delle volte scegliamo questo o quel governante dal quale saremo quasi sempre delusi. Ma lo scegliamo senza impegno, come scegliessimo una borsetta in un negozio.
Decidere in politica è un’altra cosa: significa assumere delle battaglie, capire da che parte stare nella vita, al di là delle qualità o dei difetti di chi ci governa.
Riprendere il senso della nostra azione politica e sociale, e comprendere che molta della nostra situazione più o meno “sfigata” come la definisce Carlo nel suo libro, dipende dalle nostre decisioni e non solo da un mondo stregato e capovolto che passa sopra alla nostra testa.
Decidere per esempio per me di essere una donna, una madre e un’accademica, è stato assumere anche di dovermi confrontare con battaglie per difendere la mia dignità sul lavoro e la mia possibilità di avanzare professionalmente che certamente dipende da un’ingiustizia strutturale tra i generi, ma che dipende anche dalle decisioni che ho preso nella vita.
Calmare la rabbia significa prendersi la responsabilità di chi siamo e abbiamo deciso di essere.
I bambini piccoli urlano di rabbia perché sono completamente dipendenti dai genitori, non possono decidere nulla della loro vita e sopravvivenza.
Crescere significa sapere che non siamo visti e capiti da tutti, non siamo riconosciuti dal mondo intero, non contiamo se non per un numero molto limitato di persone. Crescere significa imparare a decidere quali sono le nostre battaglie utili ed affrontarle con sangue freddo.
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non cedio nella "rabbia" di pochi sfiigati o dei losers perchè è un istnto, Credo nelle protesta che è un atteggiament rzionale; Dice Dostoevsky : " In Russia di questtempi non vi è nessuno esempio chje si possa imita, E per un paese che dopve non vi sono esempi che la gn te ammira è una atroce calamità." Caoito? un atroce calamità -- Saluit da MP
grazie dal profondo, Gloria Origgi, una visione coesa e convincente.
Ma associo ai commenti e ringrazio i loro migliori autori.
penso che dovremmo insistere per dar massima visibilità a queste idee, soprattutto nei circoli politici e di ONG.