Il momento di tornare
VITA-LAVORO La rubrica di Valeria Croce racconta le vostre storie e la ricerca di un equilibrio- forse impossibile - tra vita privata e professionale
Ogni tanto Vito pensa a Londra, ai suoi colleghi, all’adrenalina che c’era in cucina, alla soddisfazione che provava nel creare nuovi piatti, e prova nostalgia. “Poi però penso anche a tutto quello che c’era dietro, a quel peso enorme che mi sentivo dentro e mi dico che no, che è stato meglio così”
Buona domenica a tutte e tutti,
So che fa caldo, che magari oggi andrete in spiaggia o sognerete di andarci se siete ancora bloccati in città in attesa delle ferie.
Comunque, sono stati giorni intensi, anche qui su Appunti, con molta politica internazionale e attualità. Ho riassunto la settimana nella solita rubrica del weekend Appunti settimanali, la trovate qui:
E ho aggiunto un pezzo doveroso, visto il tanto lavoro dei mesi scorsi con Federica Tourn e Giorgio Meletti per il podcast La Confessione: un fact checking all’intervista al vescovo Rosario Gisana che prova a salvare la sua immagine pubblica dopo le pesantissime motivazioni della sentenza del tribunale di Enna sulla vicenda degli abusi commessi da padre Giuseppe Rugolo e insabbiati dalla Curia. Trovate tutto qui:
Oggi invece torna una delle rubriche più belle di Appunti, Vita-Lavoro di Valeria Croce. Ci vuole tempo per questo tipo di pezzi, ma leggete questo e capirete perché sono importanti e necessari.
Anche se siamo angosciati dalla geopolitica e preoccupati dalle elezioni, nella nostra vita quotidiana non c’è questione più cruciale della ricerca di un equilibrio tra il lavoro e il resto, tra le ambizioni e le necessità della famiglia, tra quello che ci piace fare e quello per cui ci pagano uno stipendio.
Valeria indaga con una sensibilità unica - che non ho mai trovato nei grandi o piccoli giornali tradizionali - le storie vere, concrete, di chi ci prova a trovare quell’equilibrio.
Sono anche pezzi lunghi perché ogni storia merita di essere raccontata per intero, ogni persona di essere ascoltata davvero.
Fateci sapere cosa ne pensate, e condividete con Appunti e soprattutto con Valeria i vostri personali tentativi di trovare quell’equilibrio tra vita e lavoro.
Buona domenica,
Stefano Feltri
Il momento di tornare
di Valeria Croce
È un pomeriggio di inizio dicembre. A Londra piove. Vito e la sua ragazza sono seduti sul divano di un appartamento al numero 26 di Cohbham Road, a metà tra l’East Village e il Langthorne Park, un piccolo parco nella zona Nord-Est della capitale.
Si sono conosciuti quattro mesi fa, lei è salita a Londra da poco, è lì per liberarsi un po’ la mente dagli studi e per imparare l’inglese. Vito, invece, è in Inghilterra da undici anni.
Quando è arrivato a Londra per la prima volta di anni ne aveva diciannove e con sé non aveva nulla. Solo una stanzetta trovata dall’Italia e la mano destra con cui farsi il segno della croce, prima di uscire di casa.
Stanno in silenzio. Dalla finestra entra quella luce grigio-azzurrognola che c’è in Inghilterra quando piove ma qualche sottile raggio di sole filtra comunque attraverso le nuvole e rende l’aria lucente.
Lui a un certo punto si gira, la guarda e le dice “basta, è il momento di tornare”.
Vito ha 34 anni. È nato in provincia di Trapani, in un paese di mare. “Ero un ragazzo di strada”, dice, “facevo quello che mi pareva e non ascoltavo mai”.
Di studiare non ne ha voglia, preferisce lavorare, fare cose pratiche. A sedici anni va a fare il muratore, poi inizia a lavorare in qualche bar e ristorante del suo paese. Dopo il diploma all’alberghiero si trasferisce in Sardegna per otto mesi, si sposta da un’isola all’altra per la sua prima stagione.
Quando torna, decide di partire per Londra.
I suoi genitori non lo trattengono. Anche se è così giovane, anche se non parla una parola di inglese. Anche se Londra, da Trapani, sembra un posto lontano.
“Io sono sempre stato una persona libera di decidere quello che voleva fare nella sua vita. Mio padre, anzi, mi ha spinto ad andare. Diceva che era giusto così. Che in Sicilia il lavoro c’era, ma era un lavoro sfruttato. Che c’era poca dignità”.
Sua madre si dispiace ma gli dice “vai. Se devi andare, vai”.“Le mamme sono tutte così”, dice Vito ridendo, “anche se quando sei piccolo e combini i danni ti strillano «non vedo l’ora che te ne vai!». In realtà non è vero, non lo vorrebbero mai”.
Appena arrivato a Londra, Vito si rimbocca le maniche. Fa il giro dei ristoranti, entra e chiede di poter lasciare il curriculum. È il 2009, ancora si faceva così.
Lo prendono a lavorare in un ristorante francese. Non si trova bene, lo trattano male, dopo poco se ne va.
Il secondo ristorante è italiano. Lì le cose vanno meglio, ma anche quell’esperienza dura poco. Un giorno viene a pranzo uno chef stellato, si chiama Richard Corrigan. Vito non lo riconosce, gli serve la sua pizza e gli sorride, mentre col suo inglese ancora zoppo cerca di parlargli, di mostrarsi gentile.
Prima di andare via Corrigan gli si avvicina. “Hai molta empatia”, gli dice, “vieni a fare un colloquio da me”.
Quando il giorno dopo Vito arriva davanti al suo ristorante si ricorda di esserci già passato, qualche mese prima, quando girava per Londra con le fotocopie del suo curriculum nello zaino. Si ricorda anche di aver pensato “questo è troppo lussuoso, non mi prenderanno mai”, e di essere andato avanti.
Questa volta entra, fa il colloquio. Pochi giorni dopo inizia.
Tempo per vivere
Vito resta al Bentley's Oyster Bar per cinque anni. Comincia come portapiatti, poi gli dicono che deve imparare il menù, e lui lo impara. Gli dicono di prendere gli ordini, lui li prende.
In poco tempo diventa capocameriere, poi supervisore di sala, infine l’addetto al bancone delle ostriche, la promozione più importante. I suoi responsabili lo incoraggiano, con i colleghi si trova bene, c’è armonia. Vito sente di aver imparato tanto.
A forza di servire e veder passare tra i tavoli i piatti meravigliosi che escono dalla cucina, però, a Vito viene la voglia di imparare a cucinare. Di passare a lavorare in quello che in una qualsiasi altra azienda chiameremmo “back office”. Quindi a malincuore saluta la città e i colleghi e decide di iscriversi a una scuola di cucina che si chiama Alma, a Parma.
Torna in Italia per un anno, ma a Parma si sente più lontano da casa che in Inghilterra. È solo e realizza quanto Londra fosse effettivamente diventata, nel frattempo, casa sua.
Finita la scuola, quindi, torna a Londra.
Da lì, poi, gli anni e i luoghi di lavoro, questa volta come cuoco, si succedono in fretta.
Dopo diverse esperienze in alberghi, ristoranti e addirittura un club privato delle forze reali aeronautiche, Vito arriva al Wiltons. “Era il mio sogno”, ricorda, “ma era troppo lussuoso. Avevo già provato anni prima ma non mi avevano preso”. Questa volta ce la fa e se potesse tornare indietro, dice, rifarebbe lì tutti gli undici anni di carriera a Londra. “È stato il posto più bello in cui ho lavorato”, ammette e la sua voce, anche dal telefono, trabocca nostalgia.
Poi, però, succede qualcosa.
Conosce Samia nel 2018. Lei si è appena laureata in giurisprudenza, è a Londra da poco e non ci resterà a lungo: deve tornare in Italia per iniziare l’abilitazione da avvocato. Vanno a vivere insieme ed è allora, nell’appartamento al numero 26 di Cohbham Road, che Vito si rende conto di ciò a cui sta rinunciando.
È allora che si accorge, soprattutto, di essere stanco.
“Londra è una città meravigliosa”, mi dice. “La consiglio a tutti. Perché ti dà tanto, ti fa conoscere diverse culture e religioni, diverse persone. Soprattutto le persone. Ti mostra come sono veramente”.
Fa una pausa, ci pensa, cerca il pensiero giusto. Lo trova: “Ti fa crescere, ecco. Soprattutto quando sei solo, non hai l’appoggio della tua famiglia e te la devi cavare con le tue stesse mani, con le tue stesse paure, emozioni, sentimenti”. Questo è, soprattutto, quello che Londra gli ha lasciato. “Però ti toglie anche tanto tempo per vivere”.
A Londra, vito arrivava a lavoro alle otto di mattina e tornava a casa dopo mezzanotte, ogni giorno. Nell’ultimo ristorante, il Wiltons, aveva due orette di pausa, ma spesso non le usava. “Perché poi lì la coscienza ti dice che se quelle due ore te le prendi, poi non riesci ad arrivare in tempo alla cena, perché ci sono delle preparazioni che devi fare. Quindi va a finire che resti in cucina”.
La ristorazione, dice Vito, è un lavoro bellissimo, che ti permette di sprigionare tutta la tua fantasia. È una devozione. Però, dice anche, vivi solo per quello.
Un po’ come Londra, insomma.
Quindi a trent’anni, dopo più di dieci anni dedicati al lavoro che ha scelto e che ama, Vito per la prima volta sente di essere di fronte a un bivio: da una parte c’è la vita che ha già, col suo lavoro, i suoi amici e colleghi, la sua città fagocitante e frenetica, dall’altra la vita che forse, adesso, si accorge di volere. “Una vita più stabile”.
È allora che Vito si volta e, col cuore pieno di paure e dubbi guarda la sua ragazza e le dice che è arrivato il momento di tornare a casa. Di tornare in Italia.
Si traferiscono a Roma: Samia è di Terni, sembra un giusto compromesso. Lui tramite un contatto trova un lavoro in un albergo a Piazza di Spagna, ma ancora una volta il nuovo impiego durerà poco: dopo otto mesi arriva il Covid, chiude tutto, soprattutto alberghi e ristoranti, e Vito e Samia restano in casa per un anno.
“È lì”, dice Vito, “che ho scoperto ancora di più il valore della vita. Il valore dello stare insieme alla persona che ami, a cui tieni”.
È lì che Vito porta a termine il cambiamento iniziato quasi due anni prima, in quel pomeriggio di dicembre nell’appartamento di Cohbham Road: quando l’emergenza finisce e tutto sembra tornare verso la normalità, Vito e Samia lasciano anche Roma e si trasferiscono a Terni, in Umbria. La madre di Samia ha una pescheria e ha bisogno di aiuto: Vito pensa, “andiamo”.
Chi va e chi torna
La storia di Vito non è un caso isolato. Come ricorda l’Istat, i giovani italiani fra i 25 e i 34 anni espatriati fra 2012 e 2021 sono stati circa 337mila, di cui oltre 120mila laureati. Quelli rimpatriati nello stesso periodo sono 94mila, di cui 41mila laureati. La dinamica è piuttosto diversa fra Nord, Centro e Mezzogiorno.
Nello stesso decennio il Nord ha azzerato le perdite e ha registrato, anzi, un saldo positivo di giovani laureati poiché ha accolto quelli che si sono spostati dalle regioni del Mezzogiorno; allo stesso modo il Centro ha pressoché azzerato le perdite, mentre il Mezzogiorno, fra chi è andato all’estero, come Vito, e chi si è mosso verso le regioni del Centro-Nord, ha subito una perdita netta di circa 157mila giovani laureati.
Come nella storia di Vito, però, oltre a chi va c’è anche chi torna. Nel 2021 circa 75mila italiane e italiani che vivevano all’estero hanno scelto di tornare in Italia, il numero più alto di sempre.
Inoltre, il saldo migratorio tra chi parte e chi rientra è tornato per la prima volta ai livelli del 2011, prima della lunga crisi economica.
Secondo un’analisi condotta in collaborazione dal think-tank Tortuga, chEuropa e Forum della Meritocrazia, alcuni rimpatriati al loro rientro scelgono di cambiare carriera: la ricerca, l'università e le carriere da dipendenti nel privato sono meno attrattive rispetto all’estero; al contrario, il settore pubblico e il lavoro autonomo e imprenditoria acquisiscono importanza al rientro in Italia.
Ma oltre il lavoro, perché si rientra in Italia?
Chi torna dice di avere nostalgia del cibo, della socialità, della natura e dell’appartenenza culturale all’Italia. Tra gli aspetti relativi al welfare, il sistema sanitario è l’unico davvero attrattivo – citato dal 40% dei rimpatriati tra i motivi che hanno contribuito al rientro.
Deludono invece la multiculturalità, asili nido e servizi per l’infanzia, ammortizzatori sociali, sistema pensionistico, coesione sociale ed equità, mentre la sicurezza e l’ordine pubblico superano le aspettative di un rimpatriato su cinque.
Per cercare di favorire il rientro in Italia di chi si è spostato all’estero, il nostro Paese negli ultimi dieci anni ha introdotto una serie di agevolazioni fiscali. Il numero di persone che ne ha beneficiato negli ultimi anni è più che quadruplicato, raggiungendo le 20mila unità nel 2021, man mano che le agevolazioni si facevano più generose.
Gli effetti sono stati concreti: gli economisti Bassetto e Ippedico hanno calcolato che gli incentivi introdotti nel 2011 abbiano aumentato del 30 per cento i rientri dall’estero.
Il costo di queste misure però non è indifferente, ed è andato crescendo anch’esso nel tempo, superando nel 2021 il miliardo di euro. La domanda sorge spontanea: il gioco vale la candela? La risposta, secondo gli autori dello studio, dipende dalla generosità dell’incentivo. In un primo momento gli incentivi venivano compensati dalle maggiori tasse pagate da coloro che senza lo sgravio non sarebbero rientrati.
Ma con l’aumento della generosità avvenuto nel corso degli anni, probabilmente la bilancia ha cominciato a pendere più dalla parte dei costi che dei benefici.
Per questo gli autori sostengono che i cambiamenti annunciati lo scorso autunno dal governo Meloni vadano nella giusta direzione, perché limiterebbero la durata dell’incentivo e la percentuale di esenzione in modo ragionevole, portando i costi probabilmente più vicini ai benefici.
“When I left my home and my family / I was no more than a boy / In the company of strangers”, cantano Simon and Gurfunkel in The Boxer.
“È una canzone che mi rassicura tanto”, dice Vito alla fine dell’intervista. “Che parla appunto di questo ragazzo che deve lasciare la sua casa e i suoi cari per un lavoro e un futuro incerto. Mi sono ritrovato molto in quella canzone. Oggi l’ho riascoltata e qualche lacrimuccia mi è scesa”.
Siamo al telefono, ma io sono sicura che sta sorridendo.
Oggi Vito vive a Terni con la sua fidanzata. Lavora nella pescheria della madre di Samia e adesso, nei giorni e nelle ore di pausa che ha, va in palestra, o in moto, o a fare trekking sui monti che circondano la città. “Ma non è solo una questione di tempo”, dice, “anche di energia”.
“Nelle poche ore libere che a Londra mi erano concesse, dormivo. Perché ero talmente distrutto che non ce la facevo proprio a fare nulla”, ricorda. “Ero dimagrito, pallido, quindi ne approfittavo per chiudere gli occhi e riposare un po’”.
Sarà stato forse anche il clima, dice. “Sarà stato che lì pioveva sempre e mi metteva giù di morale. Sai quando piove, e ti senti quella fiacca addosso?”
Ogni tanto Vito pensa a Londra, ai suoi colleghi, all’adrenalina che c’era in cucina, alla soddisfazione che provava nel creare nuovi piatti, e prova nostalgia. “Poi però penso anche a tutto quello che c’era dietro, a quel peso enorme che mi sentivo dentro e mi dico che no, che è stato meglio così”.
Anche se lasciare quella vita è stato difficile: “mi sembrava, dopo tanti anni, di dover ricominciare da capo”.
Senza il sostegno della sua ragazza, dice, probabilmente non ce l’avrebbe fatta. Non avrebbe trovato il coraggio. “Quindi è anche grazie a lei se adesso sono dove sono. Sicuramente più sereno e comunque soddisfatto, perché anche qui non ho smesso di sperimentare e di creare”.
Quello che Londra mi ha lasciato, dice Vito, me lo sono portato dietro.
Anche qui, anche in una piccola città di provincia circondata non da grattacieli, ma da vecchie montagne.
Now the years are rolling by me
They are rockin’ evenly
I am older than I once was
And younger than I’ll be, that’s not unusual
Nor is it strange
After changes upon changes
We are more or less the same
After changes we are more or less the same
Questa era la storia di Vito, della sua scelta di partire, prima, per inseguire il lavoro, e della sua scelta di tornare, poi, per riprendersi la vita.
È una delle tante storie di giovani (per lo più) italiane e italiani che ogni anno partono, che ogni anno tornano. E che lo fanno per motivi diversi ma per uno più di tutti: partono per cercare un lavoro che nel loro Paese non trovano, o che trovano, ma non retribuito, tutelato o valorizzato abbastanza.
Tornano per nostalgia, per stanchezza, a volte per convenienza, spesso per la famiglia – per costruirne una nuova, per accudire la vecchia.
Alcuni sono felici di partire. Alcuni, come Vito, sono felici lì dove sono arrivati e ci restano, per un periodo della loro vita o per sempre. Altri, però, vorrebbero tornare ma, nonostante gli incentivi, non possono.
Altri ancora avrebbero preferito non andarsene, avrebbero preferito restare.
È a questi “altri” che dobbiamo pensare. È delle motivazioni che li hanno spinti a emigrare e di ciò che impedisce loro di tornare che ci dobbiamo occupare.
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Come rispondere alla politica della rabbia: il dibattito su Appunti
I sostenitori della democrazia liberale sembrano destinati a diventare una frustrata minoranza, per effetto della rapida scomparsa dei partiti più moderati, per l’ascesa delle destre radicali e per l’affermarsi di figure e forze anti-sistema, non più soltanto populiste ma anti-democratiche.
Da Donald Trump negli Stati Uniti, ad Alternative für Deutschland in Germania, a Nigel Farage in Gran Bretagna, a Marine Le Pen e Jordan Bardella in Francia.
Questo rinnovato successo delle foze più antidemocratiche ha colto molti di sorpresa e suscita sconcerto.
Cosa si può fare? Ne discutiamo su Appunti per tutta l’estate.
Il Podcast: La Confessione
Ascolta La Confessione, il podcast di inchiesta che rivela per la prima volta da dentro come funziona il sistema di copertura e insabbiamento degli abusi sessuali nella Chiesa cattolica italiana.
Un podcast realizzato da Stefano Feltri, Giorgio Meletti e Federica Tourn, realizzato grazie al sostegno della comunità di Appunti. Con la collaborazione di Carmelo Rosa e la consulenza per musiche ed effetti di Stefano Tumiati.
ma solo io ho notato che lavorare dalle otto di mattina a oltre mezzanotte non è vita ma sfruttamento anche se la persona in questione sembra non lamentarsene? Sono contenta che in questo caso i dieci anni di vita dedicati solo al lavoro per far arricchire il padrone siano serviti a riuscire a costruirsi una vita più equilibrata in Italia, ma spesso non è così ed è uno dei problemi maggiori del nostro paese quello dei giovani costretti a partire (parlo di costrizione, non di libera scelta).
Bellissima storia, raccontata in modo molto coinvolgente. Faccio a Vito e Samia un grande in bocca al lupo per il loro futuro. Abbiamo bisogno di persone come loro, che fanno esperienze lontano e tornano con un gran bagaglio!