Ci può essere una rabbia “ottimista”?
IL DIBATTITO DI APPUNTI - Il risentimento non cerca vie d'uscita comuni ma vendette simboliche, quelle offerte dai leader populisti. Ma anche sindacati e partiti sono nati dallo scontento
C’è una rabbia che non si oppone alla democrazia, che può essere raccolta da visioni politiche non conservatrici e capaci invece di apertura e di visione, che si inserisca nelle questioni internazionali senza vederle come una minaccia
Paola Giacomoni
Buongiorno a tutte e tutti,
vedo che il nostro dibattito sulla politica della rabbia e su come risponderle continua a suscitare appassionate discussioni nei commenti e a mobilitare energie intellettuali preziose, che dimostrano quanta necessità c’è di una discussione più approfondita di quella piatta che domina giornali e talk show.
Oggi interviene Paola Giacomoni, che insegna Storia della Filosofia presso l’Università di Trento. Si occupa dei rapporti tra filosofia e scienza e delle relazioni tra pensiero e sua rappresentazione in immagini.
Il suo è un pezzo di cauto ottimismo, o almeno una diffida dalla tentazione di cedere al pessimismo e al cinismo.
Fateci sapere cosa ne pensate.
Il dibattito di Appunti - Come rispondere alla rabbia
I sostenitori della democrazia liberale sembrano destinati a diventare una frustrata minoranza, per effetto della rapida scomparsa dei partiti più moderati, per l’ascesa delle destre radicali e per l’affermarsi di figure e forze anti-sistema, non più soltanto populiste ma anti-democratiche.
Da Donald Trump negli Stati Uniti, ad Alternative für Deutschland in Germania, a Nigel Farage in Gran Bretagna, a Marine Le Pen e Jordan Bardella in Francia.
Questo rinnovato successo delle foze più antidemocratiche ha colto molti di sorpresa e suscita sconcerto.
Cosa si può fare? Ne discutiamo su Appunti per tutta l’estate a partire dal libro di Carlo Invernizzi-Accetti Vent’anni di rabbia (Mondadori)
Come sempre, fateci sapere cosa ne pensate,
Buona giornata,
Stefano
La rabbia costruttiva
di Paola Giacomoni
Buona idea questa discussione sulla rabbia e sulle possibili risposte, avviata da Stefano Feltri a partire dal libro di Carlo Invernizzi-Accetti. Provo a dare un contributo, che parte dall’analisi cercando qualche risposta.
Anzitutto: viviamo in una fase di disorientamento emozionale, in una complessa galassia dello scontento che sembra essere all’origine di una situazione divenuta poco controllabile.
È in atto un cambiamento radicale delle strutture psichiche che stanno alla base dei modi di sentire e di pensare il mondo, un vero e proprio mutamento di “regime emozionale”: i vincoli di solidarietà e di unione tra gli individui e i popoli svolgono un’influenza ridotta nel comportamento dei singoli e dei gruppi e una tendenza irrefrenabile al conflitto prende il centro della scena producendo una violenta frantumazione dei legami di coesione sociale.
Non è un fenomeno solo occidentale, investe molte culture del mondo. I popoli oggi hanno un presente comune, osservava Hannah Arendt già negli anni Sessanta, non sono più separati come in passato da culture diverse e da diverse storie, o meglio queste differenti culture mostrano un elemento condiviso, che sta nelle aspirazioni alla libertà, all’indipendenza, alla prosperità e alla giustizia che sono vive oggi, in diversi modi, in tutto il mondo.
Questi ideali sono sembrati alla portata di tutti, soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino, percepito come svolta epocale non solo per i popoli dell’Europa orientale, ma a livello mondiale.
Attraverso la possibilità di confronto con le altre culture ci si è resi conto ovunque che le disuguaglianze e le gerarchie sociali non sono naturali, che non sono qualcosa da accettare come un destino, ma al contrario hanno origine storica e suscitano attese di libertà, indipendenza e giustizia irrinunciabili.
Molti popoli in diversi modi si sono avvicinati autonomamente alla modernità, anzi hanno costruito molte, diverse modernità, come è visibile nella notevole crescita del prestigio dei Brics (Brasile, Russia India, Cina), e questo ha fatto crescere molte attese.
Chi si aspetta libertà osserva tuttavia che le disuguaglianze non vengono meno, e che ne nascono di nuove.
L’apertura resa possibile dalla caduta del Muro di Berlino ha deluso, osserva l’autore indiano Pankaj Mishra nel suo recente L’età della rabbia: nuove disuguaglianze diventano visibili rendendo vane le attese di molti. La reazione contro l’ingiustizia che in tal modo si crea non genera tuttavia veri e propri movimenti collettivi, possibili quando si condividono situazioni di lavoro che uniscono nei possibili obiettivi di una lotta comune, ma frustrazioni individuali.
Le offese all’onore
Anche nella convention del partito Repubblicano americano che si è tenuta a Milwaukee nei giorni scorsi, con l’indicazione di Donald Trump come candidato presidente, e anche quella del vice J. D. Vance l’aria che si respira è quella della riscossa dei left behind, e l’auspicio è quello di una risposta al declino sociale dell’America rurale bianca “sacrificata” dalla globalizzazione che l’ha trascinata verso il basso della scala sociale.
I montanari degli Appalachi trapiantati in città con i loro valori austeri e un po’ antiquati sono raccontati da Vance in Elegia americana nello scenario di un tracollo etico, oltre che economico, di fronte alle promesse non mantenute della modernità. Chi si aspettava benessere e dignità sociale dal lavoro in fabbrica si trova marginalizzato di fronte alla deindustrializzazione, che toglie prospettive di vita e di dignità a vasti strati di popolazione.
Ciò che è in gioco, più che il benessere materiale, sono elementi simbolici, è la percezione di non contare più, di non essere protagonisti della propria storia, di non poter più basarsi sugli antichi valori ormai obsoleti e nemmeno su quelli nuovi da cui si è esclusi.
La rabbia dipende da ciò che viene percepito come un’offesa all’onore, parola antica di recente di nuovo in voga anche in bocca a qualche politico, che enfatizza il sentimento del proprio valore rispetto all’umiliazione di chi avverte che ciò a cui più tiene è messo a repentaglio.
Lo scadimento della propria dignità è misurabile con precisione rispetto a una fase non lontanissima in cui la classe operaia era considerata protagonista della storia e assumeva così un ruolo simbolico eccezionale.
Era la “classe generale”, rappresentava l’interesse di tutti ed era fornita di un progetto politico, non era un’accozzaglia di individui emarginati senza identità e senza programmi.
È il venir meno di questa immagine di sé che scatena la rabbia, non interpretabile come irrazionalità, ma come una reazione complessa a ciò che viene percepito come una mancanza di riguardo giudicata come immeritata.
In gioco nella rabbia è qualcosa che ci sta a cuore, ciò che riguarda strati non superficiali della personalità, ma il suo nucleo centrale, che è messo in pericolo. E questo genera sofferenza.
Ci si adira quando si soffre, e chi soffre è tale perché aspira a qualcosa, come Aristotele aveva ben compreso.
L’aspirazione alla dignità, oltre che al benessere, e l’energia necessaria a costruire un progetto di vita subiscono lesioni se ostacolate e rese impraticabili, se non riconosciute come fornite di valore.
Se si diviene invisibili, se si è considerati socialmente incompetenti, incapaci di ruoli sociali rilevanti e quindi messi a margine, dimenticati.
Perché solo la destra?
Mi sono chiesta molte volte come mai sia la destra ad attirare questi strati sociali trascinandoli verso posizioni antidemocratiche anziché la sinistra come nella tradizione novecentesca.
Certo, manca anzitutto l’esperienza di una condizione di vita comune, quale era il lavoro in fabbrica: chi ne viene escluso si ritrova a gestire il problema nel privato senza più disporre della solidarietà che ne era conseguenza normale. E questo restringe il punto di vista: senza condivisione il panorama appare desolante e ognuno cerca soluzioni individuali.
Il vissuto è quello del distacco dalla politica: nessuno dei governi che si sono succeduti ha riconosciuto il problema e cercato vie d’uscita dignitose. Le élites sono tutte estranee, e quindi odiose, ignare di queste difficili situazioni.
Si smette di credere di potere contare qualcosa, di essere in grado di far sentire la propria voce nell’agone democratico; ciò che resta è il risentimento, dimensione psichica ben più aspra della rabbia, che coinvolge l’intera vita emotiva, impoverendola e chiudendola nella sfera privata senza possibilità di una scarica emozionale che consenta di pensare a una mobilitazione per la giustizia.
Questa sorta di autoavvelenamento psichico - come ha scritto Max Scheler - e il sentimento di impotenza che ne nasce, sono ben descritti nel libro di Vance, che mostra la profondità dei danni che provoca, per uscire dai quali la via non è quella offerta da sindacati e partiti, ma quella di soluzioni drastiche immediate, apparentemente efficaci.
Il risentimento non cerca vie d'uscita comuni ma vendette simboliche, quelle offerte dai leader populisti.
Se vivi in una condizione di estrema indigenza di cui nessuno sembra occuparsi, problemi come l’accoglienza degli immigrati, le questioni ambientali o la solidarietà con i popoli in guerra, care alle sinistre, sembrano venire dalla luna e non dallo spazio ben conosciuto e disastrato intorno a te.
Un ampliamento di prospettiva in chiave universalistica appare offensivo o minaccioso rispetto alla spaventosa frantumazione del vivere civile in cui solo l’immediato ha un posto riconoscibile.
E allora i muri e i dazi, le politiche anti immigrati proposte da Trump sembrano rispondere a questa richiesta di difesa, mentre incredibilmente non si fa caso se il leader propone una riduzione fiscale per i ricchi e limitazioni all’accesso alla sanità, purché esprima nel suo stile comunicativo l’asprezza del vissuto.
Non un’autorganizzazione è quello che ne nasce, ma una ricerca di protezione, di tutela e di salvaguardia, una politica che si batta non per qualcosa – fight, fight, fight – ma contro qualcosa, contro le élites da cui ci si sente abbandonati, nelle fabbriche del nord della Francia come nell’Ohio americano e forse come nelle campagne indiane.
La retorica “sfascista” di Trump e di Le Pen, sguaiata ed eccessiva, risuona paradossalmente come una riscossa dell’onore di chi si sente abbandonato e privato di ogni dignità, come risposta a una rabbia che è in realtà risentimento, senza fini e senza progetti.
In fondo sindacati e partiti sono nati storicamente dalla capacità di alcuni di dare forma e organizzazione a uno scontento generalizzato e diffuso nella società che implicava gradi di consapevolezza elevati
La rabbia costruttiva
Ma l’analisi della rabbia va ampliata e diversificata: c’è anche una rabbia non cieca e senza progetto, una rabbia che ha buone ragioni e mira alla giustizia, che non è solo impotente distruttività, ma al contrario strumento di promozione della propria integrità.
In generale la rabbia non è semplicemente sfogo emotivo effimero, è una dimensione psichica complessa che sa valutare i rapporti tra sé e il mondo, come gli antichi avevano ben capito.
Proprio di fronte all’oltraggio la riflessione su di sé diviene rilevante: la sofferenza prodotta dall’offesa sollecita domande sul proprio valore e sulla stima pubblica di cui si gode e sui modi per ripristinarla.
Chi prova rabbia è il primo a sapere che cosa significa avere in mente qualcosa, per immaginare vie d’uscita da una situazione incresciosa.
In fondo sindacati e partiti sono nati storicamente dalla capacità di alcuni di dare forma e organizzazione a uno scontento generalizzato e diffuso nella società che implicava gradi di consapevolezza elevati.
Il fine di questa rabbia non è quello della vendetta: in vista è la necessità di rinegoziare in modo organizzato una relazione di potere e di subordinazione non più vista come un destino, promuovendo un equilibrio su nuove basi e trasformando radicalmente una situazione di ingiustizia.
È una rabbia “ottimista”, tipica di chi crede che la situazione sia modificabile e si batte per questo, non è il risentimento impotente che esplode a tratti in forme ribellistiche.
Per questo ho delle riserve sul carattere ateleologico della rabbia, molto sottolineato da Invernizzi-Accetti, sul suo avere una causa ma non un fine, se non nella vendetta che conterrebbe in sé la propria soddisfazione.
Incanalare la rabbia
Che la rabbia non abbia un obiettivo preciso e che miri solo a rendere manifesto il sentimento da cui nasce, come se fosse un semplice impulso privo di capacità strategiche, non corrisponde a vari possibili esempi storici, in cui il cambiamento è nato proprio quando lo scontento si è dato una forma di organizzazione in grado di individuare obiettivi e di adeguarvi i mezzi.
In questa direzione si possono individuare possibili risposte alla rabbia, possibili vie d’uscita, se si è in grado di leggervi anche elementi di ricerca di una nuova definizione di sé da parte di individui e gruppi.
Come nel caso dei movimenti ambientalisti che un’adolescente come Greta Thunberg ha saputo far parlare e far agire in modo nuovo. Certo queste strade non sono segnate, da esse si può tornare indietro, le nuove forme di comunicazione possono portare a risultati effimeri che non producono veri movimenti organizzati.
Non è facile per le organizzazioni tradizionali incanalare la rabbia verso obiettivi comuni, ma forme nuove di comunicazione, favorite e non ostacolate dai social media sono visibili e molto sentite soprattutto dalle nuove generazioni.
Si è visto, come sottolinea anche Stefano Feltri, che alcune azioni eclatanti nascono da forme di organizzazione che avvengono senza contatto personale, ma via Internet; questo potrebbe valere anche per forme di protesta in direzioni costruttive, mirate ad ottenere obiettivi specifici e raggiungibili, come sta accadendo con le provocazioni ambientaliste mirate a far risaltare le urgenze del riscaldamento globale.
Anche se non tutti i mezzi sono convincenti, c’è tuttavia uno sforzo molto chiaro di sollecitare una presa di coscienza collettiva e una mobilitazione generale sulle sorti del pianeta
Anche la loro “leggerezza”, la capacità di agire senza lasciare traccia ma segnando un metodo che può essere ripreso in qualsiasi momento può non essere un difetto se smettiamo di pensare con la mentalità delle organizzazioni classiche novecentesche che forse hanno fatto il loro tempo.
C’è dunque una rabbia che non si oppone alla democrazia, che può essere raccolta da visioni politiche non conservatrici e capaci invece di apertura e di visione, che si inserisca nelle questioni internazionali senza vederle come una minaccia.
Occorrono strumenti nuovi e soprattutto linguaggi nuovi, capaci di intercettare bisogni emergenti che in Occidente sono vissuti soprattutto dalle giovani generazioni, talvolta intralciate nella loro crescita dal pessimismo che nasce spesso in chi vive a lungo in epoche di crisi.
Generazioni definite da alcuni “nichiliste”, che invece sono colme di qualità e di capacità, come sa chiunque insegni nelle aule universitarie o scolastiche e abbia il polso di queste generazioni. Fin da piccoli amano viaggiare, parlano le lingue, si sentono a casa dovunque in Europa e nel mondo.
La loro non è la rabbia asfittica di chi è chiuso su di sé e cerca protezione o riscossa da leader autoritari e opportunisti. Basta che gli sguardi sui fenomeni sociali diventino più attenti e approfonditi e che si smetta di utilizzare strumenti interpretativi ormai obsoleti.
Anche Paola Giacomoni è ottimista e convincente; mi piace l'idea di farmi convincere ! magari i giovani prendessero coscienza in massa dei suoi argomenti e ricordassero che l'indifferenza è il peggiore male.
È la seconda volta in queste chat estive sulla "rabbia" che lodevoli prof di filosofia dimostrano fiducia nelle giovani generazioni italiane (forse non solo di sesso femminile, alla buon'ora!).
Bene, brave avanti così, sono sicuro che il patriarcato vacilla più che mai anche in Italia. Picchiatelo forte con il vostro cervello !
Da figlio del Novecento (ho 66 anni) con le sue organizzazioni sindacali e politiche che tanto mi/ci hanno insegnato e tanto sono servite per migliorare le prospettive e le condizioni di vita di intere genererazioni, il mio primo sentimento è di ringraziamento per Paola Giacomoni.
La sua analisi stringente ma soprattutto quell'invito finale a superare i metodi, i linguaggi (soprattutto i linguaggi), le categorie, le organizzazioni del Novecento, porta sia un afflato di freschezza che una prospettiva.
Ha ragione!!! Alle nuove generazioni va data fiducia, vanno spronate, anche a sbagliare. Forse la mia generazione non ha sbagliato? Non abbiamo generato anche idee assurde e pericolose?
Sono solo i giovani occidentali che possono farlo ( come è stato per la mia generazione)?
Penso di no. Tra i tanti benefici della globalizzazione c'è anche quello che ha avvicinato giovani di tutto il mondo. Anche da queste relazioni può generarsi quella solidarietà necessaria per il cambiamento.