Chiunque vinca
Serve un “disarmo” congiunto tra le fazioni in lotta che riporti gli Stati Uniti nell’alveo delle democrazie pienamente liberali. Che alla Casa Bianca ci sia Trump o che ci sia Harris
Trump è stato un polarizzatore atlantico: le trasformazioni all'interno dell'ordine politico americano hanno un impatto diretto su Paesi che sono tradizionali consumatori di soft power americano. Come il nostro
Mattia Diletti
Buongiorno a tutte e tutti,
è arrivato il giorno del voto negli Stati Uniti dal quale dipende molto del futuro dell’Occidente, dell’Europa e forse perfino della democrazia liberale nei prossimi anni.
Sarà una lunghissima giornata che difficilmente si chiuderà con un verdetto chiaro, probabile che ci vogliano giorni per capire chi sarà il presidente. Vedremo, ogni previsione oggi è assurda, visto quanto sono vicini i candidati nei sondaggi.
Per questo la cosa più utile è leggere le “nove tesi sull’America” che Mattia Diletti ha messo al centro del suo bel libro per Treccani Divisi - Politica, società e conflitti nell’America del XXI secolo . Mattia le ha condensate in un pezzo per Appunti.
Sempre per approfondire, vi ricordo i tre episodi speciali di Revolution:
e le cose che abbiamo pubblicato qui con Manlio Graziano, Filippo Riscica, David Allegranti e con gli esperti della Bocconi:
Questa notte io sarò prima a un evento della Bocconi (trovate le info qui sotto) e poi dalle 2 circa fino al mattino a seguire gli eventi in diretta da Bruno Vespa a Porta a Porta, su Rai1, per una lunga maratona.
Vorrei anche fare l’esperimento di usare con più metodo Note di Substack - la sua funzionalità simile al vecchio Twitter - per aggiornamenti e commenti in tempo reale. Mi troverei davvero a disagio a usare ancora X - come in tante altre elezioni - ora che Elon Musk lo ha reso una piattaforma di disinformazione al servizio di Donald Trump.
Un ultimo ringraziamento alla Fondazione Feltrinelli che ha organizzato il ciclo di incontri che nelle ultime settimane mi ha portato a Milano, Roma, Napoli e Firenze per parlare di libri di economia e non solo.
E’ stata anche l’occasione per incontrare di persona amiche e amici di questo progetto di Appunti - chi lo scrive, ma anche chi lo legge - che ha così fatto un salto dalla sua dimensione puramente digitale a quella fisica, e inizia a trasformare connessioni quasi casuali in amicizie e nel nucleo di qualcosa di nuovo e più ambizioso di una newsletter.
Un grazie particolare a Laura Turini, sia per l’entusiasmo che ha messo fin dall’inizio nella collaborazione con Appunti, che per aver trasformato l’occasione dell’evento di Firenze in una bella “serata Appunti” che dopo un anno circa di lavoro su questo progetto mi ha confermato che siamo non soltanto sulla strada giusta, ma anche su una strada divertente e sensata.
Buon voto, e speriamo bene,
Stefano
Nove tesi sull’America
di Mattia Diletti
Mattia Diletti lavora presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale (CORIS) della “Sapienza” Università di Roma. Studia il sistema politico americano e il rapporto fra intellettuali, esperti e politica. Coordina l’osservatorio “SPAm” (Società e Politica Americana). Nel 2020, con Martino Mazzonis, ha curato lo speciale di “Atlante” Treccani Elezioni USA 2020. Nel 2023 ha pubblicato il volume Politica e intellettuali. Ideologi, esperti, think tank (Mondadori).
Qui di seguito presento nove tesi sulla polarizzazione americana, un estratto di quanto sostenuto in Divisi. Politica, società e conflitti nell’America del XXI secolo (Treccani, 2024).
E’ un invito a guardare oltre il voto del 5 novembre e a ragionare sul fatto che - chiunque vinca - la guerra civile “fredda” che attraversa gli Stati Uniti non arretrerà facilmente. Una vittoria dell’uno o dell’altra cambierà in modo decisivo il volto degli Stati Uniti e del mondo, ma è necessario che si trovi una soluzione.
La può trovare tramite un “disarmo” congiunto che riporti la politica americana nell’alveo delle democrazie pienamente liberali - non lo è una democrazia che tollera l’assalto a un Congresso - o tramite la vittoria di un campo sull’altro. Comunque vada, non sarà un pranzo di gala.
La polarizzazione è un fenomeno globale e non è un fenomeno nuovo; l’America l’ha già conosciuta in passato. Al di là della guerra civile del 1861, evento che chiude il processo di formazione dello Stato americano avviato alla fine del Settecento, non è la prima volta che il conflitto politico assume una forma tribale.
E non è la prima volta che i temi polarizzanti sono la “razza”, l’immigrazione, il genere, il federalismo, il welfare e il ruolo dello Stato: temi che hanno strutturato anche in passato il conflitto politico e la competizione partitica.
La polarizzazione politica, oggi, è una precisa strategia dall’alto, una scelta delle élite politiche conservatrici per mantenersi competitive nel sistema politico americano.
È questa la novità più recente, una scelta che ha finito per influenzare tutto il mercato dell’offerta politica, favorita dal disagio percepito da diversi segmenti della società americana dopo la crisi economica del 2007-2008. Nel frattempo, insomma, anche l’elettorato si è allineato a questa tendenza.
Vi è un legame stretto fra polarizzazione e crisi dell’ordine politico neoliberale. Per raffigurare un ordine politico si prende a riferimento la definizione che ne dà Gary Gerstle in The Rise and Fall of the Neoliberal Order (2022):
«Un ordine politico è connotato da una costellazione di elementi ideologici, di policy e di elettorati che modellano la politica americana oltre i cicli elettorali di due, quattro o sei anni (...). Una caratteristica fondamentale di un ordine politico è la capacità del partito ideologicamente dominante di piegare quello di opposizione alla sua volontà».
Gerstle sostiene che il neoliberismo si sia affermato con Ronald Reagan, ma sia diventato un ordine politico in via definitiva solo grazie a Bill Clinton. Al contrario, l’ordine politico del New Deal di Franklin Delano Roosevelt ha
caratterizzato anche l’epoca del “Conservatorismo dinamico” del Repubblicano Dwight Eisenhower nel corso degli anni Cinquanta del Novecento.Per Gerstle la crisi economica del 2007-2008, preceduta dai fallimenti militari in Iraq e Afganistan, ha incrinato l’ordine neoliberale a guida americana, mettendo in discussione molti dei suoi assunti.
La crisi ha generato lo spazio per l’emersione di un malcontento diffuso, che è stato esasperato dalle élite politiche per ottenere dividendi elettorali, anche prima che si affermasse Donald Trump: un malcontento che è stato creato non solo attraverso la messa all’indice dell’establishment - la weltanschauung populista - ma anche grazie alla inevitabile ripoliticizzazione delle “fratture americane” (sociali, economiche, culturale, razziali e di genere).
Questa crisi dell’ordine politico ha già prodotto cambiamenti di policy in entrambi i partiti (per esempio il ritorno del protezionismo e di politiche assai restrittive in tema di immigrazione e richiedenti asilo, sia con Trump che con Biden).
È di moda discutere di polarizzazione anche fuori dagli Stati Uniti, anche se il dibattito accademico su questo tema, qui da noi, è molto più recente. Va particolarmente di moda parlare di “polarizzazione emotiva” (Mason, 2018): la polarizzazione emotiva non riguarda solo la distanza fra le leadership politiche e i partiti, ma soprattutto la crescente animosità e i forti sentimenti negativi verso l’avversario politico che coinvolgono i cittadini che si “radicalizzano”.
È un fenomeno che gli specialisti temono perché può avere implicazioni significative per la coesione sociale e la qualità della democrazia. Spesso, anche loro, sono nostalgici di un tempo che forse non è mai esistito, quello della politica educata, civile e pragmatica.
Alcuni autori credevano che la polarizzazione fosse una scelta tattica delle élite e che gli elettori fossero per lo più “centristi”, ma questo avveniva prima della crisi economica del 2007-2008 e della successiva ondata populista: sono stati smentiti.
Per alcuni denunciare la polarizzazione è un atto romantico, un’espressione di nostalgia per un presunto moderatismo dei tempi d’oro (ma anche una manifestazione di orrore verso i conflitti).
Non è questo un modo utile di affrontare la questione. Serve piuttosto comprendere come rendere trasformativa e inclusiva, e non distruttiva ed esclusiva, un’evidente domanda di protezione e cambiamento.
Da tempo si palesa una crisi della relazione fra democrazia e mercato: i rapporti di forza pendono chiaramente verso il secondo. Studiosi di molte discipline pongono la questione, con preoccupazione, dal almeno venti anni, ricordando come la tenuta della democrazia dipenda dalla natura del rapporto fra Stato e mercato.
L’alta concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi individui e pochi gruppi economici, le tendenze monopolistiche dei mercati (soprattutto in settori chiave dell’economia della conoscenza e del digitale), l’aumento della povertà assoluta nei paesi occidentali, la diffusione di “lavoro povero” e la privatizzazione del welfare sono tutti fattori che rafforzano le polarizzazioni economico-sociali. Queste ultime alimentano gli squilibri di potere, la retorica populista e la delegittimazioni dei sistemi democratici.
Una via d’uscita realistica, ma non desiderabile, potrebbe configurarsi attorno a una nuova dinamica del rapporto fra attori del mercato e democrazia, a discapito della seconda. Ovvero un’alleanza fra mercato e attori politici autoritari, negli Stati Uniti come in Europa.
La polarizzazione ha bisogno di polarizzatori. Nei sistemi democratici la domanda politica degli elettori si struttura in larga parte come riflesso dell’offerta che proviene dalle leadership, dai partiti e dai media. Il meccanismo, anche oggi, è tutt’altro che disintermediato.
Un contro-establishment di polarizzatori - finanziatori, intellettuali, think tank, politici, media partigiani, associazioni di base, chiese e reti personali - è indispensabile per sorreggere una proposta politica radicale nel corso del tempo.
I loro asset decisivi sono proprio il tempo - precedono e sopravvivono il ciclo vitale di una leadership politica - e la funzione anti-ciclica: mantengono il filo ideologico nei momenti di ritirata strategica. Questi network, nel momento della riscossa, possono affiancare le leadership politiche in rodaggio: contagiano e si fanno contagiare.
Un think tank di primo piano come la Heritage Foundation era a fianco di Reagan nel 1980 ed è a fianco di Trump nel 2024. Quarantacinque anni di proposte, adattamento e trasformazione, all’interno di un frame ideologico tutto sommato coerente.
Un corollario tutto americano di questa vicenda è la parabola dei polarizzatori perdenti. La vicenda del Partito Repubblicano si riassume nel detto “chi semina vento raccoglie tempesta”.
Dagli anni Novanta del Novecento alla metà dei Dieci il sistema politico americano è stato attraversato da diverse generazioni di polarizzatori.
L’unico ancora sulla breccia fra i “rivoluzionari” dei Novanta, sebbene in una posizione defilata, è il neo-trumpiano Newt Gingrich.
Si sono defilati i neo-conservatori, che nei primi anni Duemila divennero gli intellettuali di riferimento del presidente Bush junior. Radicali e ispiratori dei cambi di regime per mano militare - il progetto della Global War on Terror che animò la guerra in Iraq - oggi sono anti- trumpiani. Hanno invece lasciato la politica i referenti istituzionali del movimento del Tea Party, quello che all’inizio degli anni Dieci rappresentava il contrappeso grassroots della presidenza Obama, nato per denunciare l’avanzata del “socialismo” in America (il tema del contendere era la moderatissima riforma sanitaria di Obama).
Paul Ryan, la stella emergente del Partito Repubblicano di allora, nel 2024 si è schierato contro Trump.
Per non parlare degli oppositori di Trump nelle primarie del 2016 e del 2024: o assorbiti dal trumpismo o marginali. Alla fine ha vinto il polarizzatore in capo, spodestando i polarizzatori emersi nel trentennio precedente.
Un altro corollario tutto americano di questa vicenda è la “questione bianca” (il rovescio dell’eredità storica della schiavitù). Nelle loro presidenze Barack Obama e Joe Biden hanno cercato con strategie diverse di diventare “pacificatori in capo”, tentando di ricucire i rapporto con l"America che li ha contrastati: hanno fallito entrambi.
Fra i loro avversari vi è uno schieramento bianco e interclassista - anche se questa tendenza diminuisce fra i bianchi con un livello di istruzione più alta - che ha rigettato l’idea di un’America post-razziale.
La vittoria di Obama ha acceso la scintilla di un sentimento di insicurezza da parte dei bianchi, legato alla perdita di identità, centralità sociale e status. Fenomeni che Trump ha sfruttato alimentando il risentimento razziale, con cenni al nazionalismo bianco a volta sottili, a volte palesi.
Il culmine di questa tensione si è mostrato nella campagna elettorale del 2020, dopo l’uccisione di George Floyd e il ritorno nelle strade del movimento Black Lives Matter: mai come allora Trump è stato il “presidente dei bianchi”.
Nel 2024, e parzialmente anche nel 2020, i sondaggi e le analisi elettorali hanno però registrato dei piccoli spostamenti del voto delle minoranze verso il Partito Repubblicano. Si tratta di fenomeni reali, ma non davvero significativi: ciò che i Democratici devono temere di più non è una marginale trumpizzazione delle minoranze, quanto il loro sentimento di rifiuto, lontananza e apatia rispetto alla politica e ai loro leader (quanto è cambiata davvero, in meglio, la vita di afroamericani e latini durante le presidenze di Obama e Biden?)
Uno dei risultati di questa polarizzazione estrema è la paralisi del sistema istituzionale. Un sistema basato sul controllo e il bilanciamento reciproco fra istituzioni non sostiene una pratica di ostruzione continua.
Il dialogo istituzionale si paralizza quando il presidente di un partito è di un colore e il Congresso di un altro, trasferendo alle corti il potere di indirizzare le politiche pubbliche, poiché un irrisolvibile conflitto politico finisce per trasformarsi in conflitto giudiziario. In un meccanismo di checks and balances il sistema tiene e non diventa disfunzionale solo se si afferma un’élite bipartisan - anche solo blandamente tale - capace di convergere su alcune regole del gioco e alcuni valori minimi di fondo.
L’architettura istituzionale che divide e frammenta i poteri immaginata dai padri della costituzione - certo, nel quadro di una società politica più ridotta e omogenea - finisce per impantanarsi di fronte all’ostruzionismo totale di una delle due parti, a meno che non vi sia una schiacciante vittoria elettorale di un partito in tutte le istituzioni federali (un caso che non si dà in natura da moltissimo tempo).
Un think tank autorevole come la Brookings Institution possiede una sezione dedicata al malfunzionamento delle istituzioni federali, la “FixGov” (“Aggiusta il governo”). Non è l’unico.
Tutto questo ha un impatto sull’Occidente e sull’Italia. Come ha scritto Cas Mudde «semplicemente in quanto presidente degli Stati Uniti, la figura politica elettiva più potente e più mediatica del mondo, Trump è stato cruciale nel processo di normalizzazione dell’estrema destra.
Quando il leader del mondo libero” fa dichiarazioni di stampo nativista o populista, vengono automaticamente normalizzate e legittimate dentro e fuori gli Stati Uniti» (Mudde, 2022).
Secondo Cas Mudde, Trump non si è mai interessato davvero alla costruzione di una !internazionale populista” (nonostante infinite speculazioni nei media). Diversi suoi ambasciatori, però, hanno cercato attivamente di normalizzare l'estrema destra nei paesi con i quali avevano relazioni: Richard Grenell in Germania, Pete Hoekstra nei Paesi Bassi, David Friedman in Israele.
I “fornitori di ideologia” americani dichiaratamente di parte - think tank, media, opinionisti, influencer, animatori dei social - hanno avuto un impatto significativo sui confratelli europei.
Trump è stato un polarizzatore atlantico: le trasformazioni all'interno dell'ordine politico americano hanno un impatto diretto - sebbene fortemente mediato dagli schemi mentali e dagli interessi materiali dei leader politici nazionali - su paesi che sono tradizionali consumatori di soft power americano. Come il nostro, per esempio: come diceva il presidente Porfirio Diaz a proposito del suo Messico, anche noi siamo “così lontani da Dio, così vicini agli Stati Uniti”.
Gli appuntamenti
Se volete seguire la notte elettorale, c’è un bell’evento - in presenza e da remoto - proprio della Bocconi al quale parteciperò anche io. Trovate tutte le info qui.
Vi aspetto poi all’evento di analisi del risultato, giovedì 7 novembre alle 18, come sempre all’Egea di Milano, per un nuovo “dibattito di geopolitica”.
Discuteremo delle elezioni e delle conseguenze sull’Unione europea con Franco Bruni (IEP@BU e ISPI), Gianluca Passarelli (Sapienza University), Graziella Romeo (IEP@BU), Majda Ruge (ECFR), Thomas J. Schoenbaum (University of Washington in Seattle). Io sarò il moderatore.
Per info e registrarvi c’è questo link.
Geopolitica americana: la lezione di Manlio Graziano
Qui sotto il video - in inglese - per abbonate e abbonati.
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