Cosa pensano i trumpiani?
Anche se Donald Trump perdesse, rimarrebbero i personaggi di riferimento della sua galassia a minacciare la democrazia americana: da Elon Musk a Ben Shapiro a Jordan Peterson
Nel 2016, Trump era un outsider che doveva contare sul supporto della classe dirigente del partito. Ora, Trump ha sviluppato quello che Michael Lind ha chiamato contro-sistema: un gruppo di fedelissimi capace di coadiuvarlo nel caso in cui dovesse tornare al governo
Filippo Riscica
Chi ha visto il film Oppenheimer, ricorderà una scena in cui Robert Oppenheimer incontra Albert Einstein mentre questi passeggia tra gli alberi con un bizzarro collega: Kurt Gödel. Per chi abbia studiato fondamenti della matematica e informatica teorica, Gödel è una specie di dio. Per intenderci, i tanto celebrati risultati di Alan Turing sono successivi e profondamente connessi agli studi di Gödel.
Oscar Morgenstern racconta una episodio legato alla naturalizzazione di Gödel che coinvolge anche Einstein. Gödel affermava di aver scoperto una falla nella costituzione americana capace di rendere legale la trasformazione della democrazia statunitense in una dittatura. Einstein sapeva di quanto diceva Gödel ed era terrorizzato che ne potesse parlare all’esame per la cittadinanza.
Durante l’esame, a cui Einstein era presente come testimone, il giudice chiese a Gödel che tipo di governo ci fosse in Austria. Gödel spiegò che a causa di alcune falle nella costituzione, l’Austria da democrazia era diventata una dittatura.
Il giudice, realizzando i peggiori incubi di Einstein, replicò che questo negli Stati Uniti non sarebbe mai potuto succedere, ottenendo la risposta di Gödel: “Certo, e posso anche provarlo!”
Capirete benissimo, quindi, che in una elezione in cui Donald Trump porta avanti idee illiberali e sembra essere in grado di vincere, sapere che Gödel fosse sicuro di poter provare che si può legalmente rendere gli Stati Uniti una dittatura è molto poco rasserenante.
In realtà, sono allarmato dai risultati del voto del 5 novembre indipendentemente dall’elezione di Trump.
Quello che mi preoccupa è che una sconfitta di Trump non chiuderà il capitolo iniziato nel 2016 con la sua prima vittoria. Sconfitto Trump, ormai ci sono i trumpiani e io temo che, anche in caso di vittoria di Kamala Harris, questi rimarranno e influenzeranno il partito repubblicano negli anni a venire.
Perché Trump ora è più pericoloso del 2016
Il fatto che il Partito Repubblicano sia diventato il partito di Trump è ben noto. Lungi dall’essere l’outsider del 2016, Trump è ora il capo carismatico indiscusso dei Repubblicani.
Quello che Trump sembra aver fatto in questi anni è stato esercitare il suo potere carismatico per creare una rete di potenziali membri di gabinetto che trovano la propria legittimità prima di tutto nel loro rapporto personale con Trump. È dal benestare di Trump che deriva la loro legittimità.
Questa è la prima grande differenza. Nel 2016, Trump era un outsider che doveva contare sul supporto della classe dirigente del partito. Ora, Trump ha sviluppato quella che Michael Lind in un pezzo per il New York Times ha chiamato contro-sistema (counterestablishment). Ossia, una classe dirigente fedele capace di coadiuvarlo nel caso in cui dovesse tornare al governo.
Ma questo dominio di partito non basta a spiegare le mie preoccupazioni. I partiti americani sono prevalentemente partiti piattaforme. Quindi, quello che rende un politico capace di avere presa sull’elettorato è anche la capacità di mobilitare figure influenti e affini agli ideali del partito, ma senza che ne siano necessariamente parte integrante.
La galassia repubblicana è sicuramente eterogenea. Tanti e vari gruppi di interesse le orbitano intorno. Per essere forti, questi gruppi variegati devono trovare un terreno comune. Al momento, Trump ha fornito un messaggio forte in quanto poco coerente.
Grazie all’assenza di coerenza tipica dei discorsi di Trump, gruppi disparati possono identificarsi in quello che dice, danno salienza alle frasi a effetto che più li aggradano.
Dietro a Trump, però, stanno convergendo varie figure con un pensiero più strutturato. Ecco, a me sembra che alcune di queste figure siano particolarmente inquietanti perché molto brillanti nel dibattito pubblico.
Uno lo conosciamo tutti: Elon Musk. Gli altri sono meno conosciuti al pubblico italiano ma sono molto influenti nel mondo statunitense: Ben Shapiro, Matt Walsh e Jordan Peterson.
I provocatori: Matt Walsh e Ben Shapiro
Matt Walsh e Ben Shapiro sono molto conosciuti negli ambienti repubblicani. Matt Walsh è diventato molto popolare anche grazie all’insistenza con la quale pone una domanda: “Cos’è una donna?”
Ben Shapiro gestisce un podcast di grande successo, The Ben Shapiro Show, ed è il co-fondatore di una piattaforma mediatica, The Daily Wire, che si occupa della produzione e diffusione di contenuti conservatori, tra cui i documentari di Matt Walsh.
Entrambi si presentano come ragionevoli ma intransigenti conservatori. Interessati ai fatti non alle chiacchere. Con questo approccio, provocano gli elettori democratici con domande che sembrano andare al nocciolo. Un esempio che fanno sempre è chiedere cosa sia una donna, per provocare persone vicine agli ambienti LGBTQ+.
Però, questa domanda viene posta ben consapevoli che l’interlocutrice o l’interlocutore potrebbero cadere in contraddizione o avventurarsi in spiegazioni complesse che non sono in grado di fare presa sul pubblico.
Nel documentario di Walsh What is a Woman? alcuni minuti sono particolarmente significati. Intorno al minuto 19:30, Walsh intervista un professore di studi di genere.
Mentre questi spiega in cosa consista il suo ambito, entra una musichetta che copre la gran parte di quanto detto, e frammenti del discorso vengono tagliati e sovrapposti per indicare che si tratta di un’inutile chiacchera volta a incantare l’ascoltatore. Questo mi sembra indicare un punto cruciale: l’obiettivo non è, come dicono, capire i fatti, ma delegittimare completamente la credibilità degli interlocutori.
Inoltre, questa domanda viene presentata come banalmente semplice quando non lo è. Cerco di spiegarmi, chiedendo perdono per la grossolanità con la quale affronto un tema così complesso in poche righe.
Il grande effetto retorico che gente come Matt Walsh e Ben Shapiro ottengono è dato dal fatto che la domanda come la risposta sembrano semplicissime.
La difficoltà della domanda non deriva dal fatto che la biologia non conta niente. La difficoltà deriva dal fatto che quando si mescolano descrizioni del mondo (in cui le scienze dovrebbero dare le risposte) e questioni di diritti (che non sono oggetto di studi scientifici, ma di continua contrattazione) i piani si confondono e diventa difficile dare risposte semplici.
Un modo per vedere il dibattito è capire che quello che si sta mettendo in questione quando si nega che la risposta è data dalla biologia è che sul piano dei diritti la categoria del sesso non è l’unica categoria che conta.
Le rivendicazioni, dunque, sono un modo per sollevare il problema che per molti cittadini (nel caso in cui fosse sfuggito che lo sono) le categorie biologiche non sono esaustive per rendere conto delle loro esigenze.
Ora, troverei abbastanza sorprendente che qualcuno contestasse che l’unica categoria che conta nella politica è quella della natura. Infatti, non mi risulta che siano naturali alcuni concetti fondamentali per la politica democratica, come quello di cittadini e quello veramente elementare di persona maggiorenne e dunque dotata di pieni diritti politici.
Sono quindi dei ragionevoli conservatori interessati solamente alla verità? No. Sono persone che o confondono profondamente il piano dei diritti con quello dei fatti oppure sfruttano strumenti retorici per polarizzare il dibattito e presentare gli avversari come delle persone senza senno.
Lo psicanalista: Jordan Peterson
Jordan Peterson è un caso molto particolare. La quasi totalità delle persone culturalmente vicine a Trump manifesta una certa avversione per gli accademici e l’università. Invece, Peterson è stato dal 1998 al 2021 un professore di psicologia dell’Università di Toronto in Canada. È profondamente influenzato da Jung e cerca di tracciare ampie linee culturali nei suoi discorsi.
Peterson è diventato famoso intorno al 2016 per essersi opposto all’introduzione di una legge canadese riguardante i discorsi d’odio. Secondo Peterson, questa legislazione limitava di fatto la libertà di parola e per questo andava combattuta.
Al momento ha varie attività. Conduce un podcast, il Jordan B. Peterson Podcast. Ha una piattaforma per l’analisi della personalità, Understanding Myself. Ha anche lanciato una sorta di contro università, la Peterson Academy, in cui promette di dare l’educazione che le università contemporanee non danno.
Peterson si presenta come un liberale classico, che crede in una democrazia pluralista e nella tutela delle libertà individuali. Perché, dunque, si è associato a un movimento che sembra essere profondamente illiberale?
Credo che nel suo caso i motivi siano particolarmente complessi, perché legati a considerazioni sui limiti della razionalità e del metodo scientifico. Lui è uno che crede che il fine principale dello Stato sia tutelare le libertà individuali, ma crede anche che un approccio razionale non sia esaustivo.
Per questo motivo, rivendica un ruolo fondamentale a tipi di giustificazione che non si appoggiano su analisi puramente razionali.
In una recente puntata del suo podcast (dal minuto 32:25), in cui dialogava con Richard Dawkins, Peterson afferma che “qualsiasi cultura che non considera il rapporto madre–figli sacro muore”.
Ora, una affermazione del genere per essere sostenuta razionalmente dovrebbe essere supportata da dati empirici che osservano l’evoluzione di una società per secoli e che sia anche in grado di valutare il livello di sacralità di un rapporto. Peterson sostiene questa tesi basandosi sulla lettura dei miti. Questo è molto suggestivo, ma poco significativo.
Questo genere di considerazioni lo portano a sostenere una visione dei rapporti di genere e della famiglia profondamente conservatrice. Anche se Peterson dovrebbe ricordarsi che figure cardine del liberalismo come Mill e Russell furono molto critici rispetto ai valori tradizionali.
Da questo punto di vista, il motivo che lo porta ad abbracciare il campo Repubblicano è l’avversione per qualsiasi forma di politica che metta in discussione alcuni ruoli sociali che lui reputa sacri.
Questo è connesso con il secondo punto. Peterson ha una avversione, basata anche su considerazioni metodologiche, nei confronti della cosiddetta woke culture.
Secondo lui, la woke culture è una diretta espressione della filosofia francese post-strutturalista e post-marxista. In particolare, una diretta espressione di Foucault.
Questo in realtà è in parte vero. Foucault ha lavorato moltissimo sul ruolo del potere sulla creazione della cultura, sui rapporti di oppressione e sulla sessualità. Attraverso l’influenza esercitata su Edward Said, l’iniziatore degli studi post-coloniali, Foucault è stato anche molto influente nella riflessione sulla colonizzazione.
Però, per Peterson questi sono ambiti inaccettabili perché negano l’oggettività della conoscenza e cadono tutti, secondo lui, sotto il terribile anatema di marxisti.
Ora, la questione è spinosa. Non è completamente vero che sono tesi che negano l’oggettiva della conoscenza. Semmai, indagano come valori non-scientifici hanno influenzato la ricerca scientifica, per esempio nel caso delle malattie mentali.
Poi, non sono posizioni veramente marxiste. Semmai, sfruttano alcuni metodi di critica marxista della società.
Infine, Peterson sembra dare valore alla razionalità scientifica a fasi alterne. Quando si tratta di difendere i valori tradizionali è pronto a rigettare come inutili le metodologie scientifiche, mentre quando si tratta di criticare le posizioni woke, è pronto a invocare la razionalità scientifica.
Inoltre, il punto che Peterson non coglie è che, anche se è vero che molte persone influenzate dai post-marxisti e da Foucault sostengono tesi che lui chiama woke, non segue che ogni persona che sostiene tesi woke sia una post-marxista.
Giusto per fare un esempio, la filosofa del MIT di Boston Sally Haslanger usa metodologie che non sono in alcun modo attaccate da quanto detto da Peterson.
Ma c’è di più. Peterson non sembra riconoscere ai diritti e ai valori la dimensione della contrattazione sociale. Non crede che siano il prodotto dei nostri scontri e delle nostre deliberazioni. Crede che i valori tradizionali siano il risultato degli stessi archetipi che determinano i miti.
Per questo motivo, siccome Peterson crede che i miti siano in un senso astratto reali, è portato a credere che chi nega i valori tradizionali stia negando cose che hanno lo stesso valore del fatto che la terra è rotonda. Negarlo è follia.
L’imprenditore: Elon Musk
Infine, c’è Elon Musk che, soprattutto nelle ultime settimane, ha avuto un ruolo molto rilevante nella campagna di Trump. Musk non credo abbia bisogno di presentazioni.
Più o meno nei giorni in cui Musk intervistava Trump, usciva la registrazione di una conversazione proprio tra Jordan Peterson ed Elon Musk. Questa conversazione è particolarmente interessante per capire cosa pensa Musk, perché Peterson l’ha pressato più su questioni di principio che su fatti legati alle sue attività.
Quello che emerge è un ritratto intellettuale molto interessante che può essere sintetizzato così.
Musk crede che quello che conta di più sia migliorare la nostra comprensione dei fatti del mondo e che porsi domande più strettamente connesse ai valori sia inutile. Questo lo porta, credo, a ritenere le discussioni suoi valori e i diritti secondarie rispetto a questioni di fatto.
A questa prospettiva, Musk aggiunge una classica posizione libertaria. Ossia, vincoli statali ridotti al minimo. A cui unisce i due unici valori che contempla: quello che conta è ottenere le cose con il merito e la tutela della libertà. Certo non si preoccupa di spiegare come il solo merito sia conciliabile con diverse estrazioni sociali.
Alla fine dell’intervista, Musk spiega anche che il motivo della sua avversione verso quello che chiama il “virus woke”: uno dei suoi figli ha intrapreso un percorso di transizione e lui crede che psicologi e medici lo abbiano ingannato. Poi conclude (minuto 1:50:07) con una frase su cui vorrei riflettere: “So I vowed to destroy the woke virus”, così ho promesso solennemente di distruggere il virus woke.
Questa frase è particolarmente problematica perché tradisce che l’uomo più ricco del mondo, e il proprietario di uno dei più influenti social network, abbia deciso di impiegare le sue smisurate risorse per portare avanti una battaglia personale, influenzando il dibattito pubblico.
Credo sia chiaro che, per chiunque crede che il sistema politico da tutelare sia una democrazia pluralista basata su assemblee deliberative, l’intervento di un singolo individuo che usa mezzi privati spropositati per portare avanti una battaglia personale senza entrare direttamente nel dibattito politico sia quanto di più distante dall’idea di partecipazione democratica alla politica.
Gli appuntamenti
Se volete seguire la notte elettorale, c’è un bell’evento - in presenza e da remoto - proprio della Bocconi al quale parteciperò anche io. Trovate tutte le info qui.
Vi aspetto poi all’evento di analisi del risultato, giovedì 7 novembre alle 18, come sempre all’Egea di Milano, per un nuovo “dibattito di geopolitica”.
Discuteremo delle elezioni e delle conseguenze sull’Unione europea con Franco Bruni (IEP@BU e ISPI), Gianluca Passarelli (Sapienza University), Graziella Romeo (IEP@BU), Majda Ruge (ECFR), Thomas J. Schoenbaum (University of Washington in Seattle). Io sarò il moderatore.
Per info e registrarvi c’è questo link.
Geopolitica americana: la lezione di Manlio Graziano
Qui sotto il video - in inglese - per abbonate e abbonati.
Continua a leggere con una prova gratuita di 7 giorni
Iscriviti a Appunti - di Stefano Feltri per continuare a leggere questo post e ottenere 7 giorni di accesso gratuito agli archivi completi dei post.