Lo spirito trumpiano dei tempi
A decidere la Casa Bianca saranno poche centinaia di voti, ma il malessere degli Stati Uniti rimarrà lo stesso chiunque vinca: è difficile accettare il declino inevitabile di ogni grande potenza
È empiricamente provato, e scientificamente spiegabile, che tutte le grandi potenze sono destinate a declinare e, infine, un giorno, a sparire. Quanto tempo prenda questo processo dipende da una molteplicità di fattori, tra i quali il talento della classe dirigente
Manlio Graziano
Buongiorno a tutte e tutti,
Ho passato il weekend in un posto molto bello ma con una connessione wi-fi poco affidabile e questo ha avuto qualche impatto sulla gestione di Appunti, mi scuso per qualche refuso e doppio invio.
Questa è la settimana del voto americano, il gran giorno è domani, martedì 5 novembre, anche se decine di milioni di americani hanno già votato e non è affatto detto che mercoledì mattina conosceremo il nome del presidente.
Se finora non avete letto niente e volete farvi un’idea, vi consiglio il ciclo di tre puntate di Revolution - in questo caso American Revolution - che abbiamo preparato apposta per questa esigenza. Sono uscite nel weekend e in pochi minuti potete recuperare mesi di campagna elettorale e analisi sul futuro imminente, sia che vinca Donald Trump o Kamala Harris.
Qui su Appunti abbiamo già iniziato a pubblicare cose interessanti - poche, dense, diverse da quelle che trovate in giro - e che credo siano utili strumenti di analisi.
In particolare vi segnalo questo pezzo che raccoglie le analisi degli esperti dell’Institute for European Policymaking della Bocconi:
E quello di Filippo Riscica che spiega perché l’impatto culturale, ideologico, del trumpismo va molto oltre Trump e ha generato una serie di personaggi che continueranno a condizionare gli Stati Uniti e non solo.
Oggi non potevamo che cominciare la settimana con il nostro commentatore principale sulle questioni di geopolitica, Manlio Graziano, che in un pezzo davvero imprescindibile inserisce le elezioni in una dinamica di lungo periodo del declino americano.
Non per dire che questo voto conta poco o nulla - come incredibilmente stanno dicendo e scrivendo molti commentatori dopo aver gridato per mesi alla dittatura imminente - ma per spiegare la complessa interazione tra gli sviluppi contingenti e la scelta dei protagonisti con lo sfondo nel quale le loro azioni e intenzioni dovranno dispiegarsi.
In coda al pezzo di Graziano trovate anche la sua lezione ai seminari dello Spykman Center e vari appuntamenti nei quali discuteremo di questi temi durante e dopo il voto.
Buona settimana,
Stefano
I cattivi presagi oltre il voto
di Manlio Graziano
Migliaia di commentatori in tutto il mondo si stanno posizionando sui blocchi di partenza, pronti a spiegarci come l’America sia tornata ad essere un faro di civiltà per aver eletto la prima donna presidente della sua storia, oppure a servirci la zuppa riscaldata di un’America bigotta, reazionaria e un po’ razzista per aver osato mandare di nuovo alla Casa Bianca un pregiudicato misogino e aspirante golpista.
Poche migliaia di voti in un senso o nell’altro nei sette swing states stanno per disegnare la faccia degli Stati Uniti di fronte al mondo nei prossimi quattro anni. Gli altri quarantatré Stati, e i loro elettori, non interessano a nessuno, men che meno a Donald Trump e Kamala Harris.
A dispetto degli editoriali dei prossimi giorni, però, l’America resterà quello che è, chiunque venga eletto: non sono gli umori passeggeri di qualche elettore dell’Arizona o della Pennsylvania a farla più reazionaria o più progressista il 6 novembre di quanto non lo fosse il 4.
È un’America disorientata di fronte all’accelerato declino del proprio ruolo nel mondo, un declino che, ancorché relativo, si ripercuote sulla vita quotidiana di molti suoi abitanti.
Non dimentichiamo che gli americani, cullati da duecentocinquant’anni di successi e di arricchimento quasi ininterrotti, non sono in grado di assorbire psicologicamente i contraccolpi del degrado della potenza del proprio paese e, di conseguenza, delle loro condizioni di vita.
Una delle conseguenze di questa incapacità è l’impoverimento della classe politica. In un libro del 1987, Helmut Schmidt datava l’inizio di questo processo con l’elezione di Jimmy Carter e di Ronald Reagan, due personaggi «venuti da fuori», e diventati presidenti proprio per la loro estraneità allo swamp, alla palude, di Washington, promossi dagli elettori per non essere stati corresponsabili delle difficoltà in cui, allora, si trovava il paese – difficoltà, tra l’altro, che appaiono irrisorie in confronto a quelle di oggi.
Quel che agli occhi degli elettori appariva un pregio, agli occhi di Schmidt era il peggior difetto possibile. Carter e Reagan, scriveva l’ex cancelliere, non s’intendevano di questioni internazionali ed erano convinti che la politica si riassumesse in un rapporto tra loro e i votanti, autorizzandoli a «personalizzare» le istituzioni sostituendo funzionari esperti e garanti della continuità della politica estera con uomini di fiducia, premiati semplicemente per la loro capacità di tradurre in voti gli umori sociali.
Il degrado della classe politica, proseguiva Schmidt, comincia col «crescente adattamento del personale dirigente all’opinione pubblica del momento, largamente influenzata dalla televisione».
Da allora, le cose sono andate sempre peggio, e il personale «dirigente» dirige meno di quanto non sia diretto dall’«opinione pubblica del momento».
Great Again?
Continua a leggere con una prova gratuita di 7 giorni
Iscriviti a Appunti - di Stefano Feltri per continuare a leggere questo post e ottenere 7 giorni di accesso gratuito agli archivi completi dei post.