Social Trump
Per capire il candidato Repubblicano e il suo popolo l’unico modo è osservare l’infinita conversazione su Twitter e altre piattaforme a base di falsità e insulti
Il messaggio di Trump è immediatamente riconoscibile, spendibile, resiste alla prova dei fatti e della verificabilità. Non c’è fact checking che possa resistere a un’Idea condivisa da una base, da un pubblico di elettori che non si lascia convincere dagli avversari: “Make America Great Again”
David Allegranti
Buon pomeriggio,
il pubblico di Appunti già conosce David Allegranti come uno dei più brillanti commentatori politici, soprattutto per quanto riguarda le vicende interne al centrosinistra e al Pd in particolare.
Ma David è uno che non si stanca mai di studiare e imparare cose nuove, per questo all’attività di giornalista affianca ora quella di ricercatore, come dottorando alla Sapienza di Roma.
Dal suo lavoro accademico è nato un libro che esce ora per Mimesis, Come parla un populista. Donald Trump, i social media e i fatti alternativi.
In questa giornata pre-elettorale non ci può essere lettura più adatta, ho quindi chiesto a David di condividere il succo della sua analisi con la comunità di Appunti e lui ha gentilmente accettato.
Buona lettura,
Stefano
Il populismo Twitter di Trump
di David Allegranti
I social media sono largamente utilizzati dai politici contemporanei, che hanno come obiettivo il maggior coinvolgimento dell’elettorato, secondo uno schema di interazione orizzontale in grado di eliminare non soltanto le differenze spaziali, geografiche, sociali, ma anche quelle relazionali.
Sui social, il candidato o il politico già istituzionalizzato riescono ad aumentare il grado di prossimità all’elettore, trascinato nelle dinamiche politiche ma anche personali, talvolta suo malgrado.
Il processo di intimizzazione della politica viene amplificato dall’uso, e talvolta dall’abuso, di social network e social media. Il politico sui social racconta anche la propria vita, cercando un dialogo costante con l’elettore.
A ogni epoca politica corrisponde un maggior utilizzo di uno strumento rispetto a un altro. Per restare agli Stati Uniti, Warren G. Harding per primo usò la radio per rivolgersi ai suoi compatrioti. Franklin D. Roosevelt si inventò le fireside chats, le chiacchierate al caminetto trasmesse via radio a milioni di cittadini; un modo, per il presidente, di entrare in contatto con l’opinione pubblica. John F. Kennedy catturò l’attenzione della pubblica opinione grazie al suo charme giovanile via televisione.
Bill Clinton usò l’e-mail per comunicare con l’astronauta John Glenn a bordo del Discovery, mentre stava orbitando attorno alla Terra.
Durante la sua attività, Barack Obama caratterizzò le proprie campagne elettorali con una presenza trasversale su ogni mezzo: podcast, Twitter, Myspace, Facebook, YouTube. Donald Trump si è caratterizzato per l’uso di Twitter, oggi noto come X, almeno fino a quando non ne è stato espulso dalla precedente proprietà. Possiamo persino sostenere, con una forzatura, che Trump attraverso il social media inventato da Jack Dorsey abbia governato gli Stati Uniti, facendo un uso performativo del mezzo.
Non si è limitato a esprimere le proprie posizioni pubbliche utilizzando la piattaforma nata per il microblogging e poi diventata una piattaforma ad ampio spettro, sulla quale oggi è anche possibile effettuare delle dirette video in streaming, ma ha compiuto atti che avevano un valore politico immediatamente esecutivo oltre che comunicativo.
Scritti spesso in caps lock, che secondo le regole della netiquette equivale all’urlo nella nostra conversazione orale, i tweet di Trump sono diventati una fonte primaria di informazione per i giornalisti.
L’ex presidente degli Stati Uniti ha utilizzato Twitter fino alla sua espulsione in maniera massiccia anche per attaccare gli avversari, non soltanto i Democratici, ma anche quelli interni al Partito Repubblicano, contribuendo ad aumentare quella che Ezra Klein descrive, in Why we’re polarized, come polarizzazione dello scontro.
Una dinamica che certamente non ha inventato Trump, come spiega bene Mattia Diletti nel suo ultimo libro, Divisi, ma di cui l’ex presidente degli Stati Uniti d’America ha beneficiato per peggiorare ulteriormente lo stato di salute del dibattito pubblico statunitense, come testimonia l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021, quando un gruppo di facinorosi – sollecitati dalle continue incursioni digitali dell’ex presidente – attaccò la sede dei due rami del Congresso americano per protesta contro i presunti brogli ai danni dello stesso Trump.
I fatti di Capitol Hill non arrivano per caso. Rientrano in uno schema preciso. Nel quale c’è anche una responsabilità da parte delle élite; ad alimentare l’antipolitica non ha forse partecipato anche la stessa classe dirigente, nel tentativo di fare ammenda nei confronti della popolazione? Nel tentativo di placare le pulsioni dell’elettorato, a sua volta la classe dirigente ha modificato sé stessa. Assumendo mentalità e stilemi populisti per ovviare alle mancanze nei confronti del popolo.
Simili meccanismi sono propri non soltanto dei populisti tout court, che naturalmente cercano di parlare in nome del popolo, ma anche di chi professa orientamenti liberal-democratici.
Per farsi ascoltare i populisti – ma anche i non populisti – usano sembianti di democrazia diretta. Come Facebook o Twitter. Utilizzati per informare, comunicare con il popolo, per sobillare l’elettorato, per organizzare raduni e manifestazioni, per orientare pubblicamente una discussione. Trump li ha usati anche per promuovere apertamente discorsi d’odio.
Quanto conta Twitter
L’arrivo di Trump su Twitter è datato marzo 2009, quando Barack Obama è appena diventato presidente degli Stati Uniti. Rapidamente, diventa lo strumento preferito del miliardario americano.
Trump avrebbe vinto senza Twitter? Lui è convinto di no, ma non esiste una controprova. Si può però constatare, per esempio, quanto siano stati rilevanti social media come Facebook e Twitter come fonte d’informazione per gli statunitensi durante la campagna elettorale. Il che fa capire anche quanta risonanza possa aver avuto un intervento manipolatorio effettuato su tali mezzi.
Secondo un report del Pew Research Center, centro studi statunitense che conduce sondaggi e ricerche demografiche, nel 2016 il 44 per cento degli statunitensi adulti ha seguito le news sulla campagna elettorale sui social media e il 24 per cento ha detto di aver letto post di Trump e Clinton.
Il giorno delle elezioni, l’8 novembre 2016, Trump aveva 12.9 milioni di follower, due in più dell’avversaria Hillary Clinton (10.2 milioni di follower). La differenza, in termini di engagement, era però più elevata, a vantaggio di Trump: il Pew Research Center ha analizzato, nel maggio del 2016, tre settimane di tweet e post dei candidati alle elezioni presidenziali.
Trump twittava e postava con la stessa frequenza di Clinton o di Bernie Sanders, ricevendo però molta più attenzione da parte degli utenti.
I tweet di Trump erano cinque volte più retwittati di quelli di Clinton, e il numero delle condivisioni su Facebook era 8 volte più alto in Trump rispetto a Clinton.
Numeri che fanno guadagnare a Trump l’appellativo di “Commander-in-Tweet”, secondo Klaus Kamps. Colui che usa Twitter per veicolare il messaggio. Un messaggio che non necessariamente deve passare attraverso un testo scritto, ma che è fatto di simboli, immagini, riferimenti iconici. Come un brand.
Il messaggio di Trump è immediatamente riconoscibile, spendibile, resiste alla prova dei fatti e della verificabilità. Non c’è fact checking che possa resistere a un’Idea condivisa da una base, da un pubblico di elettori che non si lascia convincere dagli avversari: “Make America Great Again”.
Non è importante che l’America alla fine sia tornata davvero grande; l’importante è che la gente – i seguaci - lo pensi, che gli elettori di Donald Trump continuino a pensarlo. Magari solleticati dalla continua comunicazione online del 45esimo presidente degli Stati Uniti.
Nei suoi tweet, Trump insulta, fa propaganda, rilancia teorie complottiste, governa (in senso proprio, appunto, non metaforico). Tutto insieme, tutto in una volta.
La brevità dei messaggi su Twitter e la possibilità di creare conversazioni in cui c’è spazio solo per affermare qualcosa, mettere un like o fare un retweet di certo non aiuta una conversazione socratica, nella quale vige la pazienza dell’ascolto, la volontà del dialogo, l’attesa per le conclusioni dell’interlocutore. Ma forse è per questo che Trump ci si è trovato così bene, con Twitter. Soprattutto nella sua fase iniziale, quando il limite era di 140 caratteri, poi innalzato a 280.
L’importanza dei social media in una campagna elettorale si era già rivelata centrale nelle elezioni presidenziali del 2008. Dopo la sfida fra Barack Obama e John McCain, infatti, non si è più tornati indietro e Twitter, nel 2016, anche a dispetto dei suoi fondatori, ideologicamente orientati altrove, è stata la voce di Trump.
Il miliardario proletario si è messo a capo degli statunitensi della Rust Belt, quelli descritti da J.D. Vance nel memoir “Hillbilly Elegy”, nel quale l’attuale senatore del Partito Repubblicano, eletto grazie al sostegno di Trump, nonché candidato vicepresidente alla Casa Bianca, raccontava la sua storia di riscatto sociale.
Una conversazione infinita
L’accesso a una piattaforma di microblogging che imponeva l’uso di messaggi dai caratteri limitati ha democratizzato l’interazione fra popolo e politica.
Ma Trump non ha usato la creatura di Jack Dorsey solo per contestare l’establishment; Twitter è diventato uno strumento di perseguimento del potere. L’ideologia linguistica, sociale e politica di Twitter è stata improntata, non solo sotto l’egida di Elon Musk, al più totale free speech. Alla libertà d’espressione e di pensiero. Almeno nelle intenzioni iniziali.
Questo ha permesso a gruppi minoritari di avere accesso a un mezzo di comunicazione con centinaia di milioni di utenti e ha permesso loro di costruire una community, una base, in grado di contare poi al momento del voto. Un voto che non è soltanto politico, elettorale, ma esiste anche nelle scelte di consumo.
Gli hashtag dei tweet hanno permesso di mettere in contatto persone sconosciute, raccolte sotto una stessa, infinita, conversazione.
L’anonimato più o meno garantito ha tuttavia consentito agli utenti anche l’uso di una comunicazione più aggressiva, secondo l’idea errata di una impunità diffusa. È così che troll e utenti falsi hanno invaso il dibattito pubblico, utilizzando un registro linguistico che probabilmente nella vita di tutti i giorni non userebbero, a eccezione – probabilmente – dello stesso Trump. Il che ha aumentato la polarizzazione dello scontro all’interno del dibattito pubblico.
Sia da candidato, sia da presidente degli Stati Uniti d’America, Trump ha mantenuto intatto lo stesso livello comunicativo, improntato a una sostenuta aggressività linguistica.
Di volta in volta, ha individuato i nemici contro cui scagliarsi e contro cui scagliare il suo pubblico. Non solo Hillary Clinton nel corso delle elezioni del 2016, ma tutto un universo sociale, politico, mediatico che si è guadagnato gli strali trumpiani. Media non simpatizzanti, avversari interni al Partito Repubblicano nonché quelli del Partito Democratico, scrittori, intellettuali. Trump ha fatto ampio uso della retorica comunicativa del “Noi” contro “Loro” sostituendo però il “Noi” con l’“Io”.
Nei suoi tweet, emanazione diretta e non mediata del pensiero di Trump, è lo stesso miliardario americano a ergersi a difensore di una mitologica stagione perduta degli Stati Uniti. Una stagione che egli intende ripristinare.
Non è infatti cambiato, neanche per le elezioni presidenziali del 2024, lo slogan che ebbe fortuna nel 2016: “Make America Great Again”.
L’individuazione di un nemico è un meccanismo classico dell’agire comunicativo populista. Nello specifico, Trump, non pare aver problemi a cercare nemici anche nel suo partito, il Grand Old Party. Per non parlare dei media un tempo considerati vicini, come la Fox, sostenitrice di Trump alle elezioni del 2016 e dopo non più. Durante la campagna elettorale per le primarie del 2024, agilmente vinte dal tycoon, che non si è dovuto sporcare troppo le mani, i suoi avversari repubblicani sono stati pesantemente insultati.
Tra questi, colpiscono gli insulti rivolti a Nikki Haley, ex governatrice del South Carolina, già ambasciatrice della Casa Bianca all’Onu sotto l’amministrazione Trump. L’ex presidente degli Stati Uniti l’ha definita “birdbrain” (2024), cervello di gallina, e quando Haley ha vinto le primarie nel distretto di Washington D.C. gli insulti sono stati recapitati su Truth Social, il social media creato e finanziato da Trump dopo la sospensione del suo account su Twitter, ora noto come X.
Per Trump con il passaggio a Truth è cambiato poco, visto che ha continuato a usare il simil-Twitter allo stesso modo. “Mi sono tenuto volutamente alla larga da Washington: la ‘palude’, con pochissimi delegati e nessun vantaggio”, ha scritto Trump sul suo social media.
Ecco riaffiorare un’altra idea cara allo stile populista: Washington, sede del governo degli Stati Uniti, non fa gli interessi del popolo. Washington è un posto dove ci sono politicanti ed élite che pensano soltanto a sé stessi.
Insulti per tutti
Come detto, l’ex capo della Casa Bianca ha usato Twitter per attaccare avversari e compagni di partito. Una ricognizione fra i tweet di Trump, fra quando annunciò la sua candidatura alla presidenza degli Stati Uniti, nel giugno 2015, e l’8 gennaio 2021, quando Twitter lo rimosse, può essere utile a capire concretamente di che cosa stiamo parlando.
Il New York Times ha catalogato (2021) tutti gli attacchi di Trump in questo periodo. È quella che viene definita Insult Politics, la politica dell’insulto. Il primo tweet raccolto dal New York Times è rivolto ai politici: “Tutti chiacchiere e zero fatti” (16 giugno 2015).
Ma Trump ne ha fin da subito per tutti, e non soltanto per i Democratici: Lawrence O’ Donnell, popolare conduttore televisivo, viene definito “una delle persone più stupide della televisione” (25 giugno 2015), Barack Obama viene definito “debole e inefficace” (2 luglio 2015) oltre che “terribile” (12 ottobre 2015), Mitt Romney, senatore repubblicano, ex governatore del Massachusetts, ha “perso un’elezione che avrebbe dovuto vincere facilmente” (18 luglio 2015).
Arianna Huffington, fondatrice di Huffington Post, è una “liberal clown” (18 luglio 2015). Jeb Bush, ex governatore della Florida, Repubblicano, è un “miserabile” (3 agosto 2015) nonché “patetico” (17 ottobre 2015).
Ted Cruz, senatore Repubblicano, è “disonesto” nonché “totalmente ineleggibile” (31 gennaio 2016). David Brooks, giornalista, “è uno dei più stupidi tra tutti gli esperti” oltre che un “clown” (19 marzo 2016), Hillary Clinton è corrotta (17 aprile 2016), “forse la persona più disonesta ad aver mai corso per la presidenza” (29 aprile 2016).
I media mainstream sono “falsi”, “fake news” (7 agosto 2017). Michael Wolff, autore di “Fire and Fury: inside the Trump White House”, è un autore “totalmente screditato” e “mentalmente squilibrato” (13 gennaio 2018). Ha accusato James Comey, ex direttore dell’Fbi, di “aver mentito” (13 marzo 2019). Facebook e Twitter sono “dalla parte dei Democratici di Sinistra Radicale” (19 marzo 2019). Il New York Times è una “disgrazia per il giornalismo” (17 marzo 2020). L’amministrazione Obama era “totalmente corrotta” (9 luglio 2020).
La famiglia Biden è “un’impresa criminale” (18 ottobre 2020). La Fox, emittente televisiva, è “morta” (26 novembre 2020). Trump ama anche inventare soprannomi per screditare gli avversari. Biden è Sleepy Joe. Nancy Pelosi, speaker della Camera, è “Crazy Nancy”. Bernie Sanders è “Crazy Bernie” ma anche “Castro lover”. Hillary Clinton è “Crooked Hillary”. James Comey è “Dirty Cop”. Elizabeth Warren, senatrice, è “Pocahontas”. Chris Cuomo, ex anchor della Cnn, è “Fredo”.
Come si nota da questa lista di insulti e nomignoli, Trump non risparmia nessuno. Nemmeno i suoi compagni di partito. Non c’è circostanza in cui Trump non voglia ribadire la propria diversità, rispetto ai propri avversari e alle élite.
La battaglia di Trump contro i cosiddetti gruppi dirigenti dominanti si è vista anche durante le primarie del Partito Repubblicano.
Il tycoon ha evitato accuratamente di partecipare ai dibattiti presidenziali, sicuro della propria vittoria. Per non dare neanche un minimo di vantaggio ai propri avversari. Ha dunque privilegiato l’umiliazione verso i propri compagni di partito.
L’ex presidente degli Stati Uniti ha usato Twitter come un megafono ma anche come un mezzo per trasformare l’immagine del partito che lo sostiene, intervenendo negli ambiti più disparati. Dalla politica estera a quella interna.
Il complotto che unisce
Il sottofondo di questi attacchi è sempre caratterizzato dalla retorica del complotto, secondo uno schema consolidato, osserva Zeffiro Ciuffoletti in un suo classico, La retorica del complotto:
“Gruppi politici, partiti, ideologie, apparati, cercano con l’ausilio delle teorie del complotto e dei connessi schemi interpretativi di dominare situazioni che sfuggono dal loro controllo e di spiegare come mai non si sia raggiunto il paradiso in terra, e il miglioramento radicale dei rapporti economici e sociali o anche di spiegare le sconfitte e di individuare i cospiratori. Le forze oscure che impediscono l’instaurazione del paradiso in terra vengono, quindi, presentate come cospiratori”.
In certi casi le teorie del complotto vengono riprese come proposte identitarie. Come nel caso di Trump: il presunto scippo elettorale diventa parte della identità dei trumpiani. Il complotto ridefinisce sé stessi: si è trumpiani proprio perché si crede a una menzogna. È in questo modo che si appartiene a una tribù, nel caso di Trump inevitabilmente anche digitale.
Come osserva Byung-Chul Han in Infocrazia. Le nostre vite manipolate dalla rete, “le tribù digitali rendono possibile una forte esperienza identitaria e d’appartenenza: per esse le informazioni non rappresentano risorse di sapere bensì di identità. Le teorie del complotto sono particolarmente adatte alla costruzione in rete del biotropo tribale, perché consentono delimitazioni ed emarginazioni, che cono costitutive per il tribalismo e la sua politica identitaria”.
L’odierno tribalismo, peraltro, divide e polarizza la società: “Esso fa dell’identità uno scudo o una fortezza, che respinge ogni alterità. La tribalizzazione progressiva della società mette a rischio la democrazia. Essa conduce a una dittatura tribale dell’opinione e dell’identità, priva di qualsiasi razionalità comunicativa”.
È in questo contesto di tribalizzazione che prima e durante l’amministrazione Trump, il pensiero scientifico e lo stesso concetto di conoscenza sono stati messi a dura prova da quelli che una consigliera trumpiana alla Casa Bianca, Kellyanne Conway, ha definito “alternative facts”, fatti alternativi.
Una definizione interessante da analizzare e utile a capire fin dove si sia spinta la battaglia contro la verità sostanziale dei fatti nell’epoca di Trump. Che si è fatto riconoscere subito nel giorno dell’inaugurazione della sua presidenza, il 20 gennaio 2017, fornendo numeri falsi della partecipazione dei cittadini sulla Washington Mall.
L’allora portavoce della Casa Bianca Sean Spicer parlò di 700 mila persone; Trump disse che erano un milione e mezzo. Il New York Times pubblicò, mettendole a confronto, due foto scattate dopo 45 minuti dall’inizio della presidenza Obama e dopo 45 minuti dall’inizio della presidenza Trump. Il risultato era impietoso, a svantaggio di Trump.
Il giorno dopo arrivò l’attacco di Spicer ai giornalisti: “Ieri, in un momento in cui la nostra nazione e il mondo intero stavano osservando la transizione pacifica del potere e, come ha detto il Presidente, la transizione e l’equilibrio del potere da Washington ai cittadini degli Stati Uniti, alcuni membri dei media sono stati impegnati in notizie deliberatamente false”. Conway, intervistata da Chuck Todd nel programma Meet The Press, disse che Spicer aveva fornito dei “fatti alternativi”.
Il problema è che i fatti non dipendono dalle nostre sensazioni. Eppure, il politico populista che parla nel nome del popolo è legittimato a inventarsi nuove forme di realtà. La verità è un concetto accessorio.
Seguendo la tradizione politica populista, può benissimo rivendicare una verità in seno al popolo, spiegando che sono le solite élite ad aver orchestrato presunte verità scientifiche per screditare il popolo sovrano. Un popolo che è sovrano anche nella verità.
Le campagne elettorali trumpiane sono state caratterizzate da uno spregiudicato uso di retorica del complotto. A farne le spese è stato Barack Obama, accusato dai birthers – movimento di cui ha fatto parte anche Trump - di non essere effettivamente nato negli Stati Uniti, quindi non autorizzato – secondo Costituzione – a diventare presidente. La alt right per anni ha cavalcato questa fake news, che un tempo avremmo definito semplicemente balla, sostenendo che Barack Hussein Obama non aveva titolo di arrivare alla Casa Bianca.
Nemmeno un solido repubblicano conservatore ma leale alle istituzioni come John McCain, già avversario di Obama, è riuscito a spegnere del tutto queste voci. Soltanto nel settembre 2016, Trump ha finalmente ammesso, in pubblico, che “il presidente Barack Obama è nato negli Stati Uniti, punto”.
Il problema è che l’uso esteso della teoria del complotto ha trasformato, scrive ancora Zeffiro Ciuffoletti, “il confronto politico in una ‘retorica dell’intransigenza’, una sorta di ‘guerra civile’ che ha contribuito alla crisi e al discredito del sistema politico”.
Il risultato è che, contrariamente a qualsiasi insegnamento democratico, vengono usati argomenti volti a schiacciare l’avversario, a delegittimarlo, ad annichilirlo, ad annientarlo. Trump ancora una volta non ha inventato niente, ha alimentato un sistema vecchio come la politica.
D’altronde, scrive Ciuffoletti, “l’ossessione del complotto ha trovato sempre un terreno favorevole nella subcultura di massa e nella oggettiva complessità dei fenomeni economici, sociali e politici, che sfuggono all’immediata comprensione degli individui. La politica, il potere, sono stati sempre percepiti con un senso di estraneità e persino con ostilità dal popolo. Ed è relativamente facile, con i mezzi di comunicazione attuali, scagliare la ‘piazza’ contro il ‘palazzo’, agitando l’idea di trame oscure, di intrecci, di misteri”.
Il complotto in azione
Un gioco estremamente pericoloso per i meccanismi delicati che reggono le democrazie. Negli Stati Uniti, l’apoteosi della retorica del complotto si è verificata il 6 gennaio 2021 a Capitol Hill.
Alla base dell’attacco, come detto, c’era la falsa credenza secondo la quale Joe Biden, vincitore delle elezioni presidenziali del 2020, non aveva in realtà vinto legittimamente contro Donald Trump ma anzi aveva barato e rubato, sottraendo l’elezione al tycoon.
Tutt’ora un nucleo di elettori americani è convinto che Biden sia lì al posto di Trump e che l’attuale presidente statunitense sia stato aiutato dal deep state per vincere. Ma anche un manipolo di parlamentari trumpiani sostiene che Trump abbia subito un torto.
Anche in questo caso, a niente sono servite le parole di chi come Pence ha spiegato che non c’è stato niente di irregolare. “Il 6 gennaio io ho fatto il mio dovere difendendo la Costituzione, mentre Trump ha sbagliato e sbaglia anche oggi”, ha detto Pence presentando la sua candidatura alle primarie del 2024, dalle quali poi si è ritirato. Ma come puoi convincere qualcuno assolutamente convinto che la terra sia piatta che in realtà la terra è sferica?
La risposta più ovvia sarebbe mostrare un’immagine della Terra dallo spazio, ma probabilmente il nostro terrapiattista direbbe che si tratta di un’immagine manipolata. Aggiungerebbe qualcosa riferendosi a oscuri poteri forti che vogliono impedire di conoscere la verità. Allo stesso modo è difficile se non impossibile convincere un elettore che sostiene la teoria del complotto contro Trump.
Il problema con i complottisti è che negano i dati di fatto perché, appunto sono convinti che esistano fatti alternativi. Verità alternative. Come se la verità fosse plurima e appannaggio di chi sa come costruirne una.
Trump ha potuto contare su questo scetticismo di massa; un senso di sfiducia nei confronti delle istituzioni, della scienza, che rende impossibile credere a ciò che ti dice qualcuno, soprattutto se è qualcuno che non stimi politicamente, nella convinzione che stia facendo soltanto il proprio interesse e non quello del popolo.
Geopolitica americana: la lezione di Manlio Graziano
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