Il sole pallido, i soldi e l'amore
VITA-LAVORO La rubrica di Valeria Croce racconta le vostre storie e la ricerca di un equilibrio- forse impossibile - tra vita privata e professionale
Sarebbe difficile tornare in Italia, adesso, sapendo delle possibilità che mia figlia avrebbe in Danimarca, un Paese che certamente ha i suoi limiti ma in cui c’è un vero servizio sanitario pubblico, dove non esistono ticket. E in cui per studiare all’università si viene pagati
Lanfranco ha trentacinque anni e una figlia di due mesi che ogni tanto si intromette nella conversazione con gorgoglii e versetti che attraversano il telefono e arrivano fino a me, che sono in Italia. Loro invece, mentre parliamo, sono a Copenaghen. Lanfranco ci si è trasferito sei anni fa per quella che doveva essere un’esperienza di studio di dieci mesi, e non è più tornato.
Nell'ultimo numero di Vita-Lavoro avevo raccontato la storia di Vito, chef che dopo dieci anni di carriera a Londra ha deciso di tornare in Italia per seguire la sua compagna e cercare una vita più serena, che lì ormai non riusciva ad avere. Lanfranco ha risposto a quell'articolo scrivendomi che lui invece vive in Danimarca e, almeno per ora, non ha nessuna intenzione di tornare.
Lanfranco è partito nel 2019 da Rubiera, un piccolo paese tra Modena e Reggio Emilia. Dopo la laurea in medicina ha scelto la specializzazione in Farmacologia e Tossicologia Clinica, che ha deciso di concludere facendo un'esperienza all'estero. A Rotterdam non lo hanno preso, da Copenaghen un professore gli ha detto «vieni pure, anzi, ne abbiamo bisogno».
E di bisogno ne avevano talmente tanto che dopo una settimana gli hanno proposto di pagargli tre anni di dottorato a 3300 euro al mese, se fosse rimasto là. Lui, che in Italia ne prendeva 1400 e finita la specialistica non aveva prospettive di guadagno molto più alte, ha deciso di restare.
Tra i 60mila e i 205mila euro in più
«La mia era una specializzazione particolare», spiega. «Il mio anno ne hanno formati solo quaranta in tutta Italia. Finita quella le possibilità erano: partecipare a dei concorsi per un contratto strutturato ospedaliero, oppure da disoccupato fare sostituzioni come medico di medicina generale».
Un'altra opzione, per chi esce da questa specializzazione, sarebbe stata in teoria quella di lavorare nell'industria, ma in tutti quegli anni, mi dice, col settore non c’è mai stato nessun contatto. «E non avrei neanche saputo a chi chiedere, onestamente, quindi non è una possibilità che ho mai davvero considerato». Come ultima alternativa, incominciare da capo un'altra specializzazione. «In tutti questi casi sarei arrivato a malapena ai 2000 euro al mese».
Lanfranco mi ripete più volte che lui non ha pianificato di stare là. Che un po’ ci si è trovato e che da lì, poi, le cose sono successe. «Il posto giusto al momento giusto», dice. «Mi hanno proposto di fare qualcosa che non solo era pagato di più, ma che mi piaceva anche, perché avrei potuto continuare l’attività di ricerca che facevo in Italia e al tempo stesso avere più autonomia, più disponibilità economica e tempo per la mia vita personale».
In Italia Lanfranco doveva stare in ospedale dodici ore al giorno per fare un lavoro che, ritiene, avrebbe potuto svolgere in cinque o sei ore.
«Non sono partito con l’idea di restare, ma di certo ho lasciato l’Italia col sangue un po’ amaro», ammette con l’accento emiliano che in questi anni non ha perso del tutto.
«Onestamente non ero contento di quello che stavo vivendo. Perché non c’era nessuno con cui parlare di futuro, nessuno con cui poter organizzare le cose. Sapevo che la mia specializzazione sarebbe finita nell’arco di un anno ma non c’era nessuno che desse risposte sul dopo. Non esisteva un effettivo equilibrio tra la formazione e il successivo inserimento».
I dati sui medici che se ne vanno all’estero li conosciamo già, se ne parla in continuazione in televisione e sui giornali. Circa 39mila tra il 2019 e il 2023, di cui 11mila soltanto dal 2022 al 2023 .
La motivazione alla base di questo fenomeno è generalmente la stessa che per prima ha convinto Lanfranco: tra i 60mila e i 205mila euro di stipendio in più all’anno. In media, 205mila in più in Lussemburgo, 110mila in Islanda e Olanda, 100mila in Danimarca, Irlanda e Germania.
Fenomeno che, oltre a peggiorare la già grave carenza di personale nel servizio sanitario nazionale, rappresenta per lo Stato un costo altissimo: secondo quanto riportato da Quotidiano Sanità nel 2023, la formazione quinquennale di un infermiere ha un costo di circa 22.500 euro (13.500 per il triennio), quella di un medico arriva a 41.000 per i sei anni della laurea e raggiunge i 150-160.000 euro per ogni singolo medico formato, se si aggiungono i costi della specializzazione.
Queste cifre vanno moltiplicate per ogni infermiere e medico trasferito all’estero.
Finito il dottorato Lanfranco ha lavorato per un anno e mezzo in azienda. «Ero pagato molto bene ma le attività non mi piacevano, mi annoiavano un po’, quindi ho deciso di tornare in università. Ho preso una piccola cattedra da Assistant Professor: guadagno il 20-25 per cento in meno, ma mi piace di più quello che faccio». Nonostante questa riduzione, il suo stipendio oggi è comunque più alto di quello di un Professore ordinario con anzianità in Italia.
Adesso Lanfranco a Copenaghen ha una famiglia. La sua compagna, Pamela, che nel frattempo è diventata sua moglie, dopo un anno lo ha raggiunto. Ha lasciato il suo lavoro da Luxottica nello stabilimento di Agordo, nel profondo Veneto, «dove il sole come te è sempre pallido», direbbe Vasco Brondi, e ne ha trovato un altro in una città in cui il sole, forse, è ancora più debole e timido che lì. Ma in cui in tre anni ha avuto quattro aumenti di stipendio e due promozioni.
Quello del sole però è un problema vero a Copenaghen, soprattutto d’inverno, in cui «il freddo è uguale a quello della Pianura Padana, ma è molto più buio». Lanfranco mi racconta che uno dei primi anni forse l’ha un po’ sottovalutata, la questione della luce. È tornato in Italia e il barbiere gli ha chiesto se era malato. «Ma te non stai bene – e qui marca l’accento –, c’hai i capelli che son tutti sfilacciati». Lui si è guardato allo specchio e ha capito che quella della Vitamina D era una faccenda che non doveva essere presa superficialmente.
Un’altra cosa che manca, racconta, sono i prodotti sugli scaffali dei supermercati. «Adesso stanno migliorando, ma non sono come quelli in Italia. A me vengono i lacrimoni agli occhi quando torno a casa ed entro in un supermercato italiano: c’è tanta di quella roba…», ride. «Qua non c’è il reparto rosticceria dove vendono i cibi pronti, o la macelleria. Nel supermercato che ho sotto casa c’è uno scaffale frigo che da quando sono arrivato è rimasto sempre vuoto. Non capisco come sia possibile».
È un’altra però la cosa che Lanfranco ha dovuto sacrificare di più, trasferendosi lì. Più della Vitamina D e dei cinquanta diversi tipi di pasta nei supermercati: «Io in Italia avevo più amici. In questi anni abbiamo conosciuto persone, abbiamo fatto amicizie ma la rete sociale che avevo prima non l’ho più trovata. Qua è decisamente meno ricca e appagante», dice, «in questo bisogna essere onesti».
A Copenaghen, insomma, si è un po’ più soli. «Ma anche i locali, anche i danesi sono più soli. È proprio il modo di vivere e di intendere la socialità che è diverso».
«Questa è una delle cose che ho dovuto mettere in conto, quando ho deciso di restare», confessa e la sua voce è rassegnata ma anche consapevole. «Ho messo tutto sulla bilancia, ma alla fine quello che guadagnavo era comunque più di quello che perdevo».
Gli chiedo cos’altro c’era sul piatto delle cose guadagnate, oltre allo stipendio.
Lui risponde con il titolo di questa rubrica. «Il work life balance, soprattutto quello. Qua si inizia a lavorare un pochino prima, ma non ci sono cartellini da timbrare: ognuno lavora per quello che deve lavorare. Alle tre o alle quattro di pomeriggio si può andare casa. Ed essere a casa alle quattro di pomeriggio vuol dire avere ancora tanto tempo e cose da fare, la giornata non è ancora finita».
Due o tre volte a settimana, poi, si può lavorare da casa. «Cosa che abbiamo sempre fatto senza che nessuno ci rompesse le scatole».
Tutte le strade possibili
A lungo andare, confessa, questa nuova routine li ha un po’ trasformati, si sono adeguati al tipo di vita che si fa lassù al Nord. «D’inverno, col buio, ceniamo più alle sei che alle sette. Quindi quando torniamo in Italia facciamo un po’ fatica se i nostri amici il venerdì sera prenotano il ristorante alle nove e mezza», ride. «Però insomma, ci adattiamo».
«Col cuore ti direi di sì, che prima o poi tornerò», mi risponde quando un po’ a bruciapelo gli domando se rientrerà mai in Italia. «Perché in fondo non sono venuto qua a fare delle cose diverse, che in Italia non si potrebbero fare. Ed è forte il rammarico di non aver potuto contribuire a casa, migliorare le cose là dove c’era bisogno, che in fondo è quello che mi piace di più. Ho preferito l’università all’ospedale anche perché mi piace stare a contatto coi giovani, stimolarli a dare il meglio di sé, a fare cose belle. E mi piace farlo qua – un po’ in inglese, un po’ in danese –, ma mi rendo conto che avere la possibilità di farlo a casa, in un posto in cui abbia davvero senso farlo, sarebbe ancora più gratificante».
Ma come potrebbe incoraggiare i ragazzi a realizzare quello che vorrebbero fare, si chiede, se poi le possibilità effettive di farlo in Italia non ci sono?
«Ma soprattutto», mi dice, «adesso non sono più solo. Non è più soltanto a me che devo pensare. Io ho una laurea in medicina e una specializzazione, un impiego in qualche modo redditizio lo trovo. Ma mia moglie ha paura. È preoccupata di come la potrebbero trattare in azienda».
Là, spiega Lanfranco, ci sono delle policy ferree per quanto riguarda le discriminazioni di genere. C’è in generale un livello di attenzione a questo genere di cose molto più alto che in Italia. «Lei ha paura di tornare, prendere meno soldi e non essere rispettata e valorizzata come lo è qui. Non è solo una questione di stipendio. E io la capisco».
«E poi c’è mia figlia», conclude mentre lei ogni tanto continua a dar segnali di sé. «Sarebbe difficile tornare in Italia, adesso, sapendo delle possibilità che lei avrebbe in questo Paese, che certamente ha i suoi limiti e le sue problematiche, ma in cui c’è un vero servizio sanitario pubblico, dove non esistono ticket. E in cui per studiare all’università si viene pagati: c’è un piccolo stipendio che ti consente di mantenerti, di uscire di casa, che se abbinato a un lavoretto part-time permette di arrivare a 1500-1600 euro al mese, che a Copenaghen sono pochi, è vero, ma abbastanza per uno studente. Anche perché qui i giovani hanno moltissime agevolazioni».
«Soprattutto», dice infine, e dice tutto, «non vorrei negarle la possibilità coltivare le sue passioni e di scegliere liberamente la sua strada, tra tutte le strade possibili. Qua in ogni campo si può sopravvivere, e dignitosamente. Se mai si dovesse interessare di arte o volesse fare la regista, o la musicista, o volesse intraprendere, non so, studi religiosi, ecco, qui ci sono finanziamenti per dedicarsi a tutte queste cose. Lo stipendio di chi si occupa di scienze religiose è praticamente uguale allo stipendio del dottorato che prendevo io da medico».
A me, che ho lavorato nell’arte e nella cultura in Italia e conosco quel mondo e le condizioni spesso precarie di chi ci lavora e ci dedica tutta la vita, viene un sorriso un po’ amaro.
«Questo è quello che più di tutto ci impedirebbe di tornare in Italia a cuor leggero».
La canzone di Lanfranco è una canzone che parla d’amore, come in realtà anche una buona parte di questa intervista, nonostante sia piena di numeri e soldi. È un brano di Jean-Michel Blais che si chiama, appunto, Amour. «Siamo finiti un po’ casualmente a un suo concerto, qui a Copenaghen. E uno di quei brani è entrato nelle nostre vite. Pamela lo ascoltava spesso in gravidanza, mentre faceva la doccia. Adesso lo facciamo ascoltare a nostra figlia».
È la musica che associ alla tua vita lì? Gli chiedo.
«È la musica che associo ai più bei momenti che sto vivendo qua, sì».
Ascoltandola, sembra quasi di poterli immaginare.
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Un ricercatore qualche tempo fa mi ha detto che l'alta formazione in Italia è morta da tempo a causa del berlusconismo: gli unici che dovevano fare carriera erano quelli che incensavano il cavaliere e lo aiutavano.
La storia raccontata oggi così bene da Valeria Croce conferma quest'idea, in Italia ormai chi ha un percorso di studi così elevato trova le stesse offerte di uno uscito con 90 dall'università.
Da questo punto di vista sarebbe bello sentire la voce di un influencer, do un creatore di contenuti almeno di un marketing manager che ha lasciato l'Italia, aprirebbe prospettive inedite secondo me.
Profondo rispetto per tutte le esperienze degli expat che ci raccontano di quanto sia meglio fuori rispetto alla sempre bistrattata Italia. Quasi sempre in questi resoconti, talvolta giovanili o volutamente di formazione, nella seconda parte ci sono riferimenti a luoghi comuni sul cibo o sul clima (ma come pensate di vivere in Danimarca se siete nati a sud delle Alpi ?!?!) e amenità varie. Sarebbe interessante poi chiedere quanti amici locali hanno in nord Europa anche dopo 10 anni che sono lì.
Personalmente questo tipo di resoconto penso che non porti nulla al dibattito italiano. Anzi, per certi versi offre una risposta comoda a tutto ciò che non funziona come dovrebbe: giovani andatevene. Ecco, se qualcuno ha a cuore le vicende di questo paese senza limitarsi alla lamentela perenne verso il governante di turno o verso tutto ciò che vorrebbe diverso da come gli appare, questa narrazione è assai di comodo per continuare a stare seduti, magari all’ora dell’aperitivo limitandosi a pensare a cosa fare nel weekend o dove prenotare per le ferie estive.
Bhe, se si vuol provare a dare risposte diverse e necessario produrre una tensione diversa nella società, generare un dibattito che ipotizzi scelte forti e che smetta di dire ai giovani, formati e non, andatevene che questo è un brutto paese.
Un dibattito che porti la politica a mettere sul piatto l’idea che forse dovrebbe mettere più soldi in tasca ad un ricercatore o ad un medico di base che non ad un pensionato. Scelte forti, ma ormai quasi ineluttabili se si vuole cambiare inerzia. Del resto carsicamente (e da destra) questo governo che ha vinto promettendo meno tasse le sta alzando (giustamente) in maniera serrata.
Attenzione, i grandi talenti andranno sempre via perché certe opportunità sono naturalmente altrove, specie in ambito scientifico. Altri andranno via perché si parte per tanti motivi, non solo perché in Italia le cose non funzionano. Altri ancora andranno perché hanno le loro legittime ambizioni che prescindono da questi temi.
Limitarsi alla testimonianza, alla sterile denuncia senza incidere su dibattito serve a poco, anzi forse è addirittura nocivo perché la risposta sistemica è: siete bravi andatavene da questo paese. Anzi, conosco molti colleghi che ipotizzano proprio questo per i loro figli.
Ecco perché c’è un cortocircuito nel dibattito interno su questi temi e gli unici che hanno il potere di rovesciare la prospettiva sono i giovani. Altrimenti la politica continuerà a vincere le elezioni su quota 100 o 101 o 103 che sia, sui barconi e su come far egoisticamente pagare meno tasse domani mattina al cinquantenne egoista.