Il bancario in trappola
VITA-LAVORO La rubrica di Valeria Croce racconta le vostre storie e la ricerca di un equilibrio- forse impossibile - tra vita privata e professionale
“Io ormai faccio lo stesso lavoro da vent’anni. So fare solo questo: intortare i clienti per far fare gli utili agli azionisti. Quindi non posso dirmi “lascia tutto e cambia vita, perché la serenità viene prima di ogni altra cosa”. Non quando vorrebbe dire andare a fare un lavoro che mi fa guadagnare mille euro in meno al mese, solo per risentirmi me stesso”.
Buongiorno a tutte e tutti,
oggi torna la rubrica di Valeria Croce Vita-Lavoro con un pezzo molto intenso. Con Valeria abbiamo pensato di raccontare nel concreto, oltre le statistiche e oltre i casi estremi che finiscono nelle cronache, il rapporto con il lavoro. Che è molto più complesso della questione salariale. Nel primo episodio aveva raccontato la sua di storia, ora racconta le vostre.
Di lavoro di solito si parla soltanto per lamentarne l’assenza o le condizioni degradanti, o la precarietà.
Ma un buon lavoro, ben pagato, stabile, a vita può rivelarsi una trappola. Chissà, forse c’è stata una stagione in cui lo stipendio regolare bastava a garantire l’appagamento, attraverso i consumi che permette, la possibilità di impostare una famiglia, la certezza di una pensione. Oggi, a leggere la storia di Daniele che ci racconta Valeria, non è più così ovvio.
Sono sicuro che tante persone che leggeranno questo pezzo si ritroveranno, altre si indigneranno, in ogni caso mi piacerebbe sentire cosa ne pensate.
Vi ricordo anche che domani presenteremo in conferenza stampa il podcast La Confessione che abbiamo realizzato con Giorgio Meletti e Federica Tourn, con la collaborazione di Carmelo Rosa e Stefano Tumiati.
Ne ho scritto per abbonate e abbonati in questo articolo, e per loro c’è anche l’invito alla conferenza stampa e il link per seguirla in streaming, come piccolo ringraziamento per aver reso possibile questo progetto con il loro sostegno economico
Ma ne continueremo a parlare da domani e per le prossime settimane perché è un progetto che speriamo possa coinvolgere molti ascoltatori e lettori, anche oltre la comunità di Appunti.
La Confessione è un podcast sugli abusi nella Chiesa italiana che, attraverso la vicenda di don Giuseppe Rugolo e del vescovo monsignor Rosario Gisana a Enna, ricostruisce il sistema di copertura e insabbiamento che protegge i colpevoli e silenzia le vittime.
Lo facciamo con documenti unici, cioè con le voci dei protagonisti della vicenda, sono loro a spiegare cosa pensano e perché. E questa vicenda arriva fino a papa Francesco, capirete perché.
Intanto, buona domenica
Stefano Feltri
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Se io avessi previsto tutto questo…
“Più di tutto mi ricordo il treno all’alba del lunedì mattina. La malinconia della stazione di provincia. Io e il mio amico di sempre lungo il binario con un borsone enorme, pieno dei vestiti per la settimana e del cibo preparato dalle nostre madri. Le verdure, il sugo, addirittura l’arrosto. Ognuno portava qualcosa.
Poi con questo borsone immenso arrivavamo a Torino e andavamo direttamente in facoltà. Ce lo portavamo dietro tutto il giorno e la sera finalmente lo svuotavamo a casa.
Sembravamo i migranti dei tempi. Io ero matricola ’96 e ho finito nel 2001.
Più di tutto mi ricordo questo, sì: le partenze all’alba del lunedì mattina, carichi come degli asini. Verso la grande città”.
Daniele (nome di fantasia, sarà chiaro il perché) è nato nel 1977 in una piccola città di provincia piemontese, poi si è trasferito a Torino per studiare economia all’università. Finiti gli studi è tornato nella sua città, dove tutt’oggi vive con la moglie e i suoi due figli adolescenti. Lavora in banca come gestore commerciale, guadagna 2400 euro al mese.
Fa questo lavoro da oltre vent’anni, e da quasi altrettanti vorrebbe cambiarlo.
“Da ragazzino ero un sognatore. Le canzoni, gli ideali politici. Ma al tempo stesso non ho mai avuto grandi aspirazioni, a livello lavorativo. Ho fatto ragioneria, sono figlio unico: mia madre mi ha sempre detto “studia e trovati un lavoro”. E io così ho fatto”.
Quindi dopo essersi laureato, “come tutti i ragazzotti di provincia di trent’anni fa”, Daniele ha subito cercato il posto fisso. Quando passava con un suo amico davanti alla banca, quella in cui poi avrebbe iniziato a lavorare, gli diceva “qui ci lavora un ragazzo che conosco, ha un lavoro stabile. Magari trovassi lì, una volta finito”.
“Cosa vuoi che facciano”, pensava. Ma quando è entrato, poi, gli è un po’ caduto il mondo addosso.
Soltanto vendere
Da giovane laureato in economia, Daniele credeva che lavorare in banca, nel settore degli investimenti, significasse parlare con il cliente e offrirgli la migliore opportunità possibile, da professionista. Ma con il tempo ha capito che gli investimenti che doveva cercare di vendere non erano quelli a beneficio del cliente, ma della banca.
“Sarebbe quella persona che ti chiama a casa per proporti con estrema gentilezza e presunta professionalità questo o quel prodotto: un investimento, la polizza sanitaria, la polizza casa. Ma, di fatto, il suo obiettivo è solamente vendere. A prescindere dalla qualità del prodotto, a prescindere dalla persona a cui lo sta proponendo, dalle sue esigenze.
Ci costringono a chiamare questi poveri clienti continuamente, inseguendo delle liste interminabili di persone da contattare. Mi sono ritrovato in un incubo fatto di numeri, controlli, risultati, obiettivi di vendita da raggiungere quotidianamente. “Cosa hai venduto? Quanti clienti hai chiamato? Cosa hai detto? Quanto hai collocato?”
È qualcosa di inimmaginabile per chi viene da fuori, per chi non conosce quel mondo.
Per me, era inimmaginabile”.
Mi racconta che un suo collega era talmente stressato dalle continue pressioni commerciali dei suoi responsabili che per non portarsi a casa questa frustrazione usciva dall’ufficio e, pur abitando nello stesso paese in cui lavorava, impiegava mezzora per tornare.
Faceva il giro largo, per smaltire i pensieri. Per non portarseli a casa.
Daniele sa di doversi definire fortunato, nonostante tutto. Lo stipendio è buono, esce dall’ufficio alle 17.00 e il weekend è libero. Ha l’aria condizionata d’estate e il riscaldamento d’inverno. Ma sa anche che questo, almeno per lui, non è tutto.
“La cosa che mi pesa di più è che il mio lavoro mi impedisce di essere me stesso. Ormai la coscienza l’ho persa anni fa, dice. Mi vergogno di cosa faccio e non oso raccontarlo ai miei figli”.
La più piccola ha sedici anni, e gli ricorda se stesso da ragazzo. I sogni, i valori, le canzoni. Se lei lo sapesse, pensa, forse ne resterebbe delusa.
Daniele ammette che adesso, dopo tanti anni, in parte si è abituato, “ci ha fatto il callo”. Da un anno si è anche iscritto al sindacato e fa il sindacalista, per tutelare se stesso e i suoi colleghi.
Ma quello di cui non si capacita è il perché di queste cose non si parli.
“Si parla delle questioni ambientali, di quelle economiche, ma di questa catena del fregare si sente poco, si legge poco. Come se fosse tacitamente concessa. E io non me lo spiego”.
Ha provato diverse volte a farsi spostare, cambiare di ruolo, ad essere trasferito nel back office o negli uffici amministrativi, ma non è servito a nulla, di ruolo non ti cambiano: “chi è in prima linea come noi è destinato a rimanerci. Sei quello che porta gli utili all’azienda, servi lì, non altrove. Toglierti da lì vorrebbe dire per la banca rinunciare a quella parte di incassi, e non sono disposti a farlo”.
“Io ormai ho la coscienza di cuoio, mi ripete, anche per questo non mi spostano: perché per farti una coscienza così, ci vogliono anni”.
Il cambiamento impossibile
Nella storia di Daniele il cambiamento non c’è, non arriva. Perché non sempre il cambiamento è un’opzione possibile.
“Io ormai faccio lo stesso lavoro da vent’anni. So fare solo questo: intortare i clienti per far fare gli utili agli azionisti. Quindi non posso dirmi “lascia tutto e cambia vita, perché la serenità viene prima di ogni altra cosa”. Non quando vorrebbe dire andare a fare un lavoro che mi fa guadagnare mille euro in meno al mese, solo per sentirmi realizzato, per risentirmi me stesso. Non quando hai una famiglia, due figli adolescenti che andranno all’università e vivi del tuo stipendio.
Il posto fisso non si molla. Per me questo lavoro è indispensabile.
Non posso più fare il sognatore”.
Come spiega Francesco Armillei, dottorando in economia presso l’Università Bocconi e socio del think-tank Tortuga “Nel periodo post-pandemico abbiamo osservato un netto aumento del numero di persone che, pur avendo già un posto di lavoro, sono alla ricerca di un nuovo impiego, diverso dal precedente”.
Il tasso di occupati che non solo dichiarano di volere un lavoro diverso, ma che si sono dati attivamente da fare per cercarlo, è salito dal 2,6% del 2019 a oltre il 4% nel 2023 (dati Istat elaborati da Armillei).
In termini assoluti, ci sono oggi oltre mezzo milioni di dipendenti in questa condizione.
Il fenomeno delle cosiddette “grandi dimissioni”, ci cui molto si è parlato negli ultimi anni - e che abbiamo già introdotto nello scorso numero di Vita-Lavoro -, è stato un ulteriore segnale di questo desiderio di spostamento dei lavoratori. Continua Armillei
“Non si è trattato infatti di lavoratori che hanno dato le dimissioni per abbandonare del tutto il mercato del lavoro, ma di dipendenti che hanno volontariamente lasciato il posto di lavoro per raggiungerne un altro, evidentemente a delle condizioni migliori”.
Ma cosa spinge i lavoratori italiani a desiderare di cambiare lavoro?
Le ragioni principali hanno a che fare con i due aspetti costitutivi di un posto di lavoro: il salario e - come nel caso di Daniele - la qualità del posto di lavoro.
Altre motivazioni invece (come il desiderio di un orario di lavoro più adatto alle proprie condizioni di salute, oppure più consono alla cura di figli o altri famigliari - motivazioni maggiormente connesse al parametro “vita” del titolo stesso di questa rubrica) risultano statisticamente molto meno rilevanti.
“Più di un terzo dei lavoratori che stanno cercando di cambiare lavoro dichiara di volerlo fare per guadagnare di più, e un altro terzo invece dice di essere alla ricerca di un lavoro più qualificante per le proprie capacità e con maggiori prospettive di carriera”.
Oltre lo stipendio
I dati Istat elaborati mostrano negli ultimi anni una tendenza decrescente per la prima risposta e un trend invece crescente per la seconda: sempre meno attenzione nel tempo all’aspetto monetario e sempre più per la qualità del posto di lavoro.
Nel 2022, addirittura (dato poi confermato nel 2023), tra gli under35 il desiderio di un lavoro più gratificante e più qualificante per le proprie competenze è arrivato al primo posto, superando quello connesso alla ricerca di uno stipendio più alto.
Nella storia di Daniele, il desiderio di cambiamento deriva interamente dal “lato lavoro”.
In una bilancia immaginaria in cui poniamo su un piatto le motivazioni connesse alla professione, alla carriera e sull’altro quelle legate alla sfera privata, familiare (quindi all’ambito “vita” del nostro binomio “vita-lavoro”), il peso pende stavolta in modo netto, squilibrato quasi, verso il primo piatto.
Daniele rientrerebbe infatti - se fosse davvero in cerca di un altro impiego - in quella maggiore percentuale di lavoratori che desidera cambiare lavoro per ragioni connesse al lavoro stesso.
Nello specifico, in quella crescente quota in cerca non di un salario più alto, ma di una migliore qualità del proprio posto di lavoro. Pur non essendo un under35.
Ma Daniele, in realtà, non rientra in queste statistiche perché lui - e come lui molti altri lavoratori e lavoratrici, e per motivi diversi - un nuovo lavoro ha rinunciato a cercarlo. E questo ci suggerisce che il fenomeno è, nel concreto, ancora più ampio e complesso di come appare.
Daniele è felice della sua vita, della sua famiglia e vive il suo lavoro come una frattura, come una porzione della sua quotidianità sconnessa e in contrasto con il resto e soprattutto con se stesso. Con il ragazzino sognatore che era.
Al tempo stesso è proprio questa vita, che lui ama e vuole preservare, che lo trattiene e gli impedisce di cambiare, di cercare un altro lavoro, magari meno pagato, ma che gli restituisca la serenità e la dignità che da anni sente di aver perso. Un lavoro da poter raccontare ai suoi figli.
Alla fine della nostra intervista ho chiesto a Daniele una canzone. Una canzone in qualche modo connessa alla sua storia. A un suo ricordo, a un suo momento. O una canzone che semplicemente a questa storia facesse da sfondo. L’avvelenata di Francesco Guccini.
C’è una frase di questa canzone che avevo messo come citazione all’inizio della mia tesi. “Se io avessi previsto tutto questo / dati causa e pretesto / forse farei lo stesso”
E oggi? Gli chiedo. A distanza di anni, rifaresti lo stesso?
“Per la parte razionale, risponde, forse sì, forse farei lo stesso. Perché comunque ho un buono stipendio e una sicurezza economica che, con i tempi che corrono…
A livello di realizzazione personale, di svegliarsi la mattina e andare a lavoro volentieri, ecco, io quello non so che vuol dire. Non riesco neanche ad immaginarmele, le persone che si svegliano la mattina e vanno a lavoro volentieri. Sarebbe un sogno, che non ho mai avuto e non penso avrò mai”.
“Quindi ho fatto bene o male?”, Si chiede infine.
“Col senno di poi, non lo so”. Mi risponde, si risponde.
Questa era la storia di Daniele, del cambiamento lavorativo che, come molte altre persone, vorrebbe ma non può, o non riesce a ottenere. Dell’importanza che spesso ricoprono alcuni aspetti del lavoro, al di là dello stipendio o delle condizioni contrattuali. Di come questi aspetti talvolta influiscono sul resto della propria vita, di come si infilano in casa e dentro i rapporti con le persone che ci sono vicine.
Il suo è solo uno dei tanti modi in cui può andare e non vuole, e non può, essere esplicativo di un fenomeno che comprende tanti casi, tante peculiarità, tanti esiti.
Con questa storia abbiamo voluto riportare uno di questi esiti, sicuramente non il più positivo. Tuttavia, reale. E quindi meritevole di essere raccontato.
Se vuoi raccontare la tua di storia, di come il lavoro ha cambiato la tua vita o di come, viceversa, la vita - e più in generale tutto ciò che vi accade intorno - ti ha portato a cercare un cambiamento lavorativo, rispondi a questa newsletter o scrivimi a valeriacroce96@gmail.com.
Lo racconteremo ai lettori e alle lettrici di Appunti.
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Trovo la testimonianza sconcertante. Partiamo dal fatto che il 90% della gente fa un lavoro per portare a casa la pagnotta, la roba di "follow your dreams" poteva dirla solo uno come Steve Jobs che aveva molte qualità ma non era esattamente un mostro di empatia e non aveva la psicologia tra le sue materie preferite. Se il nostro amico pensava che il lavoro di banca non fosse commerciale era un problema suo, è da decenni che le filiali bancarie sono fondamentalmente hubs commerciali. Peraltro trovo poco credibile che non possa trasferirsi in altri reparti, ovvio che magari al back office non hai gli incentivi commerciali che hai in filiale ma dubito che ci sia la fila per andarci. È vero che la pressione commerciale spinta è fortemente sbagliata ma vale per le banche come per tante altre attività (chiedere a qualunque rappresentante commerciale di qualunque settore)e comunque, ripeto, nessuno ti costringe a lavorare nel commerciale. Mah..
Io invece credo che siano pochi coloro che veramente si realizzano sul lavoro. E' una fortuna immensa che una passione si traduca nel lavoro che si svolge per vivere. Credo però che la soddisfazione sul lavoro sia altamente sopravvalutata. Siamo portati a pensare che il lavoro sia la nostra vita e che noi siamo il lavoro che facciamo