Una guerra di religione
Regime change? L’idea di riportare lo Shah dopo gli ayatollah in Iran rivela un conflitto sotterraneo globale sul ruolo della religione in un mondo secolarizzato
Tramontate le istituzioni internazionali e le loro regole, le opinioni pubbliche sono diventate fattori di importanza diretta? L’opinione pubblica secolarizzata esiste ovunque e costituisce una fetta importante del consenso, ma stenta a trovare una sua bussola perché ormai ovunque emergono forze identitariste
Riccardo Cristiano
L’analisi di Manlio Graziano sull’attacco americano
La crisi del multilateralismo, dell’ONU, dell’azione cooperativa per affrontare sfide globali, promuovere la pace e la sicurezza, e raggiungere obiettivi comuni, ripropone il problema di come estirpare il male, e di chi sia intitolato a farlo.
L’ONU non ha saputo contenerlo. Questa crisi è prodotta e/o autoprodotta, ma c’è. Come ci sono due visioni per le religioni: quella che non bada al potere diretto, ma a creare un incontro globale tra le fedi e il mondo secolarizzato, e quella di diversi “costantinismi”, aggrappati al potere nel nome di un’identità chiusa, impenetrabile.
La crisi delle istituzioni internazionali ci obbliga a guardare con lenti altrui. Così senza prendere in considerazione l’enorme fascicolo delle manchevolezze dell’ONU e degli strappi delle grandi potenze, vedo un farsi della storia con regole nuove, nelle quale contano i simboli, che dicono alle opinioni pubbliche cosa si sta facendo.
Ogni azione bellica deve avere uno sbocco, necessariamente: ma a tutt’oggi non c’è un Comitato di Liberazione Nazionale in Iran: cosa potrebbe accadere dopo?
Un’ipotesi di scuola, alle volte citata, sembra illuminarci: l’idea di riportare a Teheran lo Shah, sin qui non elaborata da loro, farebbe infatti vedere una guerra globale di cui poco ci rendiamo conto: quella per il cuore secolarizzato, che si tentò di unire ad altri contro la guerra metafisica, tra bene e male, evocata dal patriarca russo Kirill contro l’Ucraina.
La bandiera o l’icona dello Shah servirebbe a indicare che la strada è portare l’Iran nel campo secolare e globale, il cui simbolo è stata Farah Diba, l'ultima imperatrice del moderno Iran in quanto vedova di Mohammad Reza Pahlavi.
Tramontate le istituzioni internazionali e le loro regole, le opinioni pubbliche sono diventate fattori di importanza diretta? L’opinione pubblica secolarizzata esiste ovunque e costituisce una fetta importante del consenso, ma stenta a trovare una sua bussola perché ormai ovunque emergono forze identitariste.
Di Russia e Iran non serve aggiungere altro, ma ci sono anche gli Stati Uniti, dove il presidente della grande deportazione Donald Trump ha detto di voler difendere i valori cristiani, le tendenze messianiche in settori di Israele, le pressioni nostalgiche in Europa.
E visto che il primo campo religioso non ha avuto riscontro adeguato proprio da questo mondo secolarizzato, la bandiera, il simbolo per unire diviene importante. Non ci sono più le regole dell’ONU alle quali potersi affidare, emerge il peso delle icone prescelte.
Il compromesso siriano
Il caso siriano va sottolineato per la sua qualità cinematografica, impressionante. Era l’ 8 dicembre 2024: la realtà quel giorno è parsa proporci un altro finale per uno dei film più noti e popolari sulla storia mediorientale, Lawrence d’Arabia: il nuovo protagonista era Ahmed al-Sharaa, che a differenza di Lawrence d’Arabia ha trionfato, entrando a Damasco.
La realtà lo ha proposto come liberatore, alla guida di un complesso e a dir poco discusso cartello di forze, che però ha incontrato il favore popolare (e poi del mondo) per le orribili azioni che per mezzo secolo hanno caratterizzato l’insopportabile regime siriano.
La scena è stata reale, si è trattato di un “regime change”? Forse sì. Pianificata ad Ankara, la galoppata di Ahmed al-Sharaa, che fino ad allora si faceva chiamare con il suo nome di battaglia, al Joulani, a indicare le sue origini di figlio del Golan (siriano), è stata una galoppata che ha presentato al mondo spettatore un popolo che si è unito, pur con tanti dubbi, al nuovo “leader” della liberazione del Paese.
E’ stata una scena efficace. Chi l’ha pianificata ha pensato a cosa gli interessava dopo, non solo a ciò che voleva togliere di torno al momento. Per vincere al Sharaa dovrà tenere i secolarizzati, dando ai suoi il burkini obbligatorio, per poi declassarlo a “possibile”.
L’operazione militare “Rising Lion”, l’attacco di Israele al regine iraniano o al suo sistema nucleare, sembra richiamarsi al leone che compariva sulla bandiera iraniana prima della rivoluzione, ai tempi cioè dello Shah. Un richiamo esplicito alla dinastia dei Pahlavi?
Il premier israeliano ha parlato di guerra al regime, non certo al popolo iraniano, anzi, ha fatto riferimento ai “persiani”, nobili e amici. In Iran chi non ha il persiano come madrelingua mette insieme circa il 50 per cento della popolazione.
Oggi le devastazioni in Iran sembrano chiamare il mondo e gli iraniani alla stessa valutazione: colpa del regime o di chi lo attacca? I ripetuti paragoni tra la Teheran di domani e la Beirut di ieri per quel poco che sappiamo non sembrano aver spinto gli iraniani a dare la prima risposta, pur esasperati da decenni dal loro regime.
O forse il simbolo di cui qui si parla non è efficace?
Cosa resta dello Shah
Mohammad Reza Pahlavi e la sua consorte, Farah Diba, quel giorno con ben visibili stivali di pelle, lasciarono Tehran alle 13,15 del 16 gennaio 1979. Per una storia di circa 2500 anni giungeva la parola fine.
Oggi tutti sanno che il desiderio più grande di tantissimi iraniani è liberarsi da ciò che è emerso dopo il 16 gennaio 1979. Conta ancora qualcosa distinguere la rivoluzione iraniana da quella khomeinista? Poche righe per dire che sarebbe importante.
La crisi degli ostaggi americani, che coinvolse 52 diplomatici americani, tenuti in ostaggio dal 4 novembre 1979 al 20 gennaio 1981, segna il golpe khomeinista. Infatti il 4 novembre ebbe luogo l’azione, il 5 novembre 1979 si dimise il capo del governo provvisorio in carica a Teheran, Mehdi Bazargan: autorevole islamo-democratico, aveva capito che le riforme democratiche che proponeva erano state dichiarate impossibili con quell’azione.
Giunse alle stesse conclusioni alla fine di quella tragedia, nel 1981, il presidente Banisadr, esule. Loro sarebbero simboli di un mondo religioso che vuole convivere. Una strada di cui parla soprattutto la Chiesa cattolica, nonostante resistenze interne ben visibili.
Questa strada ha tante derivate, molto difficili, ma colpisce che in queste ore si sia tornato a sentire anche la voce dei comunisti, un po’ astorica, ma che ricorda che anche loro erano nel processo rivoluzionario che Khomeini zittì.
46 anni dopo la caduta di suo padre, Reza Pahlavi ha scritto su X “il momento è venuto”. Questo convince chi oppone Farah Diba alle donne obbligate ad avvolgersi nello chador. Ma il suo caso esiste? Emerge un problema, che richiederebbe a Reza Pahlavi di rientrare.
Un elemento forte della scenografia allestita ad Ankara per l’operazione siriana stava nella presenza in quell’inferno, da anni, del simbolo da loro prescelto, al-al-Sharaa. Il “regime change” è riuscito anche per questo: il passato rivoluzionario siriano, dal 2011, è stato - impropriamente o in sfregio alla storia - riversato su al-Sharaa, che però in quegli anni era lì.
Da quando si è autoproclamato imperatore nel 1980, Reza Pahlavi ha scritto dall’estero appelli efficaci, “scegliere la democrazia e non le bombe”, o “sta finendo la Repubblica islamica”. Sono opzioni che condividono in tanti, non solo qui, direi soprattutto in Iran. Nella diaspora iraniana poi non sono pochi a vederlo come bandiera di un’alternativa possibile, concreta.
Ma oggi Reza Pahlavi in Iran ancora non c’è e il protrarsi della guerra sembra dire che non emerga un fronte di piazza che lo invochi, come fu con Khomeini. Due esiliati, certamente, ma la storia oggi corre: il tempo e l’attesa pesano in un giorno come se si trattasse di anni.
Parlare dell’ipotesi Pahlavi ha senso se oltre al fatto simbolico si ricorda la storia.
I secolarizzati con l’ultimo Shah furono tali, favorirono il welfare, ma anche la caduta del governo di Mohammad Mossadegh che voleva la democrazia e la rinuncia coloniale al petrolio iraniano: cadde per il golpe del 1953, un “regime change” riuscito e nel quale gli USA svolsero un ruolo.
Lì i Pahlavi persero molto, arrivò l’involuzione: la creazione del partito unico Rastakhiz, nel 1975, la polizia segreta: si parlò di un nuovo nazionalismo persiano.
Oggi occorre pensare anche all’idea di futuro degli arabi nel Khuzestan, dei baluci nel Sistan-Baluchistan, dei curdi nel Kurdistan, degli azeri nell'Azerbaijan orientale e occidentale e dei turcomanni nella regione di Khorasan. E siamo a uno schematismo molto semplice.
Uno dei problemi più rilevanti che in Siria Ahmad al-Sharaa si è trovato a fronteggiare e che non ha ancora risolto, è proprio questo: unire allo Stato e nello Stato alawiti, curdi, drusi, anche loro con zone di controllo, oltre che diffusi sul territorio. È, a pensarci bene, il rischio che da tempo incombe anche sul Libano.
I programmatori di Ankara lo sapevano e hanno atteso quanto possibile la svolta curda di Ocalan prima di agire. Oggi nazionalismo e frammentazione sono temi importanti per l’Iran di domani, che potrebbe trovarsi tra centralismo nazionalista e frammentazione.
Ci sarebbe anche lo scenario evocato all'inizio, quello dell’altra visione nel mondo religioso, tesa a costruire il vivere insieme. Trascurato, non è finito, ma è complesso e non funziona in prime time. La recente intervista a papa Leone XIV però ci ricorda che c’è.
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Ottimo articolo su uno degli stati piú nazionalisti al mondo. Conosco la cultura iraniana perché mia moglie é nata a Teheran nel novembre del ´78 da padre tedesco e mamma iraniana e pochi mesi dopo dovettero fuggire a causa della rivoluzione. Lo faró leggere sicuramente anche a lei e lo traduco in farsi cosí lo puó girare ai suoi parenti che al momento cercano rifugio dalle bombe dell´occidente. Saluti. Andrea
Corretta e lucida analisi di cui, nei talk in televisione, non si parla mai o molto molto poco