29 Commenti

Articolo molto interessante. Mi ritengo un lettore abbastanza forte, nel senso che leggo una quindicina di libri all'anno. Di questi un terzo (quindi 5) sono di saggistica e solitamente almeno un paio sono classici mentre per i rimanenti tre cerco delle novità interessanti. Secondo me il problema principale è la mancanza di strumenti di critica che aiutino il potenziale lettore a "filtrare" la enorme produzione di novità. Ad esempio io leggo l'inserto "La Lettura" del Corriere della Sera per avere idee delle novità e se un articolo di recensione mi incuriosisce vado in libreria per vedere dal vivo il libro e decidere se procedere all'acquisto o meno. E' chiaro che di fronte alla strabordante pubblicazione di novità il lettore medio senza bussola si trova come il telespettatore che la sera ha 500 canali possibili più archivi immensi di servizi streaming trai quali scegliere: bene l'abbondanza ma un Virgilio per orientarsi nel mare magnum della produzione servirebbe!

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Solo oggi, al rientro di 5 gg. di vacanza senza pc, ho letto il suo Interessante scenario editoriale. Complimenti, signora editor. Non credevo che il settore si reggesse così bene. Anzi, in tempi come questi, dove la tastiera telematica (stupenda invenzione!) ha di sicuro moltiplicato a dismisura i tentativi e le tentazioni di scrivere, e quindi le richieste di pubblicare, immaginavo un settore con molti più scrittori che lettori. E quindi in affanno.

Perdoni però, gentile dottoressa, se deraglio il treno dei commenti sul suo bel panorama librario con una sorta di “Cicero pro domo sua”. Come si dice, per fatto personale. Ma, vede, fin dagli anni del liceo, l’amore, chissà quanto contraccambiato, per la scrittura, mi ha portato a mettere nero su bianco gli sfarfallii fantastici tipici della giovane età. E anche dopo, riservandomi la vita tutt’altro habitat, a tempo perso, sillabando a un pollice sulla “Lettera 22” di mio padre, venivano fuori brevi e lunghi racconti, talora quasi romanzi, che a leggere e rileggere, però, vi scorgevo solo intrinseca banalità, che mi pareva dicesse: “a grullo, e quando smetti!”. Ma niente. Dopo brevi o lunghi periodi di “blocco”, lo scrittore, apprendista stregone, imperterrito, ha sempre ripreso a ricamare le proprie sublimazioni esistenziali transustanziandole per iscritto. E, rigorosamente, in modo clandestino: mai venuto l’uzzolo di una pubblicazione. Nonostante qualche esclusiva mia lettrice, che coi libri sa il fatto suo, mi abbia sempre indotto alla tentazione della casa editrice: “si pubblica – insisteva – molto di peggio”. Ma a me, questo ascoso cimento, questo “mal di scrivere”, abusivo e incontenibilre, andava bene così, pur non ritenendolo degno della nobiltà del libro. Fino a un paio d’anni fa.

Correva la sciagura della pandemia, ma anche il memoriale dantesco. E mi venne il ghiribizzo, a 75 primavere, di fare al grande poeta un omaggio. “Omaggio a Dante”, infatti ho titolato quelle centinaia di pagine nelle quali, in estemporanei endecasillabi di terzine concatenate, in pseudo sintassi da dolce stil novo, ho fatto fare al sommo vate, e al maestro Virgilio, tra il serio e il faceto, un giro turistico tra Roma, Firenze e Milano ai giorni nostri. Fino ad assumerlo, essendo a tutti ignota la sua effettiva dimora ultraterrena, nell’Empireo celeste. Come gli spetta di diritto. Mi ci sono divertito, debbo dire. Fra pause e scoramenti, oltre un anno di lavoro. Ho mandato il file a una decina di persone. E, a parte qualcuna che ha trovato un testo troppo intellettuale (non so perché), è piaciuto. Sulla cui sincerità, però, non giurerei perché, come si dice, “a caval donato ..”. Fatto sta che, sia per l’insistenza di qualcuno/a, sia perché quasi convinto pure io d’aver fatto non un capolavoro ma un buon lavoro, ho pensato, per la prima volta, alla pubblicazione, e mi sono affacciato un po’ nel mondo della editoria. Mai l’avessi fatto. Mandato il file a tre o quattro case editrici, pur incassando favore per il lavoro, le condizioni offerte per la pubblicazione mi sono tutte apparse balzane. Per qualcuna avrei dovuto acquistare non so quante centinaia di copie. Per altre, mi gravava un costo per oltre 3.500 euro, proibitive per la mia risicata pensione. Ho quindi dovuto desistere relegando intenzioni e opera in un desolato scaffale del mio pc. Insieme a tutto il resto. In onore del re di Prussia.

Ma ora, letta la sua analisi del pianeta editoriale su Appunti, roccaforte di Stefano Feltri che è una penna fra le più moderne e raffinate in circolazione, mi è venuta un’idea stupenda. A me, direbbe Totò, piace. Non so quanto a lei, gentile dott.ssa Di Trapani. Laddove, con precisione quasi chirurgica fonda la positività del bilanci editoriali sul 70% del copioso venduto e assegna il restante 30% al pubblicato che a malapena vende solo una copia, ecco: mi piacerebbe sapere in che girone potrebbe finire il mio “Omaggio a Dante”. Ho preso scienza di competenze e poteri dell’editor che, a quanto pare, è la figura più autorevole circa i giudizi sui testi. E se poi, come nel caso, è un editor che fa capo alla “Laterza” (quanti suoi libri, a scuola!) da oltre 20 anni, la garanzia è a prova di bomba. Come se un vinello fatto in casa lo si affidasse per un giudizio all’enologo in servizio presso una fra le più rinomate cantine di champagne francese.

Naturalmente la degustazione del mio vinello, l’“Omaggio a Dante”, non deve comportarle in nessun modo, gentile dottoressa, disagi di sorta. Nel caso non ne comporti, e la ringrazio, mi dica come farle avere il file. Nel caso ne comporti, pazienza. Torno nella miseria, ma non mi lamento. Conciosiacosaché , scusandomi per la forse bislacca ortodossia con cui mi sono permesso di coinvolgerla, le auguro un buon lavoro e la saluto molto cordialmente. Gianni Lecca.

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Interessantissimo questo pezzo su un mondo che mi è stato molto vicino professionalmente e mi è vicinissimo da lettore

Articolo ampiamente condivisibile anche se pensando a etichette come Adelphi o e/o (nella narrativa) può sembrare ingeneroso.

Ma sono casi , la media è quella ben rappresentata dall’articolo

Forse un problema tra i molti è la scomparsa dell’editore che ha ormai lasciato il campo a mega aziende spersonalizzate in cui gli obiettivi editoriali lasciano ampiamente il campo agli obiettivi finanziari che facilmente spiegano il perché dei molti titoli e anche dei libri che vendono solo una copia

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Grazie per questo contributo. Con l’avvento del digitale, in tantissimi avevano pronosticato l’inevitabile declino dei libri scritti; si diceva “tutti lèggeranno gli e-book”; non è successo e credo perché l’esperienza di avere l’oggetto libro è diversa da leggerlo su un kindle. Quindi il pubblico c’e, come si evince anche dai dati indicati nell’articolo. Se, però, il canale di acquisto e la sponsorizzazione dei titoli passa da e-commerce e social, allora chi avrà più forza economica potrà maggiormente pubblicizzare il suo prodotto e, gli editori, avranno interesse a indicare sempre l’autore di punta. Questo non vuol dire che il pubblico non sarebbe interessato a leggere altro ma solo che nel mare magnum non entra proprio in contatto con proposte diverse. Forse è proprio questa connessione tra chi pubblica e chi legge che andrebbe ripensata.

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Grazie per i tantissimi spunti offerti da questo intervento: non avremmo mai pensato - credo - di dire "ci sono troppi libri", perché un numero ampio di pubblicazioni ci sembra uno spazio maggiore di espressione, ma di fatto diventa anche davvero un problema di spazio, per chi legge e per chi vende libri (che deve scegliere cosa tenere e per quanto tempo), con l'effetto che spesso, dopo pochi mesi, un titolo - tanto "sudato" - sparisce.

Visto che Lia Di Trapani parla di saggistica, mi permetto di suggerire uno sguardo all'"editoria" universitaria/accademica (il senso delle virgolette si capirà), perché per chi non la conosce è un mondo da studiare, con parecchie sorprese. Di certo si tratta di uno di quei mondi che alimenta a dismisura il numero di titoli in circolazione e, quasi sempre, il consumo di carta. La proliferazione si spiega facilmente: volendo semplificare, con il sistema vigente di accesso alla carriera accademica, per abilitarsi come professore associato occorre almeno una monografia (dunque un libro), per abilitarsi come professore ordinario, ne occorrono almeno due.

Il problema del pubblico, però, si fa subito sentire. Chi è interessato a comprare quei libri (che riguardino studi di diritto, letteratura, fisica, medicina, storia, ingegneria o qualunque altra disciplina)? Le biblioteche (universitarie e non) e un certo numero di studiose/i (persone affermate o, se possono permettersi il prezzo spesso non contenuto dei volumi, emergenti o in via di formazione). Si tratta di un pubblico molto più ridotto rispetto a quello di un manuale o di un volume comunque adottato in un corso come testo da studiare, libri che quindi - in tempi più o meno dilatati - "si vendono". Stampare un numero consistente di copie delle tante monografie che vengono scritte per ragioni accademiche, invece, è un investimento ben più rischioso, perché molte copie - specie se lo studio è molto settoriale, non in grado di incrociare l'interesse di una platea più ampia - potrebbero restare invendute.

Da tempo, quindi, sempre più spesso molti editori (per fortuna non tutti e non sempre) finiscono per trasformarsi in tipografi: attività nobilissima e affascinante, ma - appunto - un'altra attività. Di fronte a un libro necessario (per chi lo scrive), ma non conveniente (per chi lo produce), capita spesso che l'accordo tra editore e autore abbia questo contenuto: "tu ci dai X euro ogni 16 pagine di libro e noi, oltre a dotare il volume di ISBN ti diamo 100 delle copie che stampiamo". Una volta un numero consistente di copie era necessario, in vista della partecipazione ai concorsi; quell'uso in parte è oggi superato (si inviano o si caricano i Pdf), ma le copie cartacee sono ancora utili per omaggi (spesso opportuni, quando non richiesti o sollecitati) e scambi; le copie non (ancora) utilizzate, in compenso, occupano un sacco di spazio nelle case degli autori o nelle stanze delle Università.

Resta però una domanda: se 16 pagine di libro finiscono per costare al committente di solito tra i 100 e i 200 euro (senza considerare nella somma anche la produzione e la cura del file) e spesso i volumi accademici sono piuttosto consistenti, chi paga la stampa? Se si ha la fortuna di accedere alle risorse messe a disposizione dall'università o da altri enti, i soldi arrivano da lì. In altri casi si cercano degli sponsor (spesso capita, tra l'altro, con gli atti dei convegni o le raccolte "in onore di" o "in memoria di" qualche docente, altre opere destinate alla consultazione nelle biblioteche più che all'acquisto del singolo, anche perché di solito il prezzo è proibitivo). E se non ci sono i fondi, gli sponsor o altre fonti di finanziamento (come i premi per pubblicare la tesi di dottorato), chi paga la stampa? Indovinate.

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Questo argomento lo conosco abbastanza bene. Vale la stessa cosa che ho scritto qui sopra: chi valuta la qualità del libro? Certo, ce ne sono molti che potrebbero andare al macero prima ancora di essere pubblicati, ma ce ne sono di grande valore scientifico. Questi sono indispensabili per chi studia la materia e per chi vuole aggiungere un proprio tassello alla ricerca. Son d'accordo con Lei per quel che ha detto riguardo alle pubblicazioni necessarie per proseguire la carriera accademica

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ago 30Messo Mi piace da Stefano Feltri

Grazie del pezzo, è molto interessante. Ci voleva.

Mi chiedo, allargando il discorso anche alla narrativa, quanto peso abbiano in questo "surplus" di pubblicazioni le case editrici a pagamento, che mi sembrano una sciagura sia per l'autore che (anche ingenuamente) ci si affida (sborsando soldi direttamente o indirettamente con l'acquisto di n copie) che per il mercato, che si vede invaso di prodotti di qualità discutibile e che non sono per nulla oggetto di promozione.

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ago 29Messo Mi piace da Lia Di Trapani

Ciao Lia, grazie della riflessione. Credo che nel mondo dell’editoria ci sia un enorme bisogno di questa capacità di riflessione sullo stato delle cose nel mondo della produzione e della distribuzione dei libri. Sono d’accordissimo con te sul fatto che 80.000 libri all’anno siano un numero FOLLE di libri da pubblicare. Ma perché è possibile farlo? Perché gli editori nel 95% dei casi pagano la carta su cui i libri sono stampati più di quanto paghino noi autori. Avendo quindi questa enorme supply di contenuto a costo zero, pubblicano una marea di titoli sperando che qualcuno funzioni. Ma cosa determina questa sovrapproduzione? Il fatto che gli editori nella maggior parte dei casi non facciano delle campagne per assicurarsi che i libri riescano a incontrare i lettori giusti, ma li abbandonano invece a se stessi per passare al titolo successivo e a quello dopo, con una bulimia che danneggia tutti. C’è un problema ambientale gigantesco nel modo in cui l’industria del libro funziona, e c’è il problema di una catena del valore che ha raggiunto livelli di disfunzionalità non sostenibili. La distribuzione non solo mangia una percentuale troppo grossa del prezzo di copertina, ma restituisce agli editori dati opachi sulle vendite che non permettono di monitorare quali iniziative funzionino realmente a livello della promozione e quali no. Inoltre, crea dei problemi di cash flow importanti a causa dei resi, che rendono necessario per gli editori di mettere fuori un libro dopo l’altro per non andare in rosso nel conto col distributore.

Credo che, se si amano i libri, se si rifiuta l’idea che l’industria si regga sullo sfruttamento degli autori, se si crede che i libri siano necessari per un buon funzionamento della società (io lo credo) bisogna davvero mettersi davanti allo specchio, e iniziare a fare dei cambiamenti reali, anche mettendo in discussione assunti che ci sembrano scolpiti nella pietra.

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Se pensiamo a domani condivido tutte le considerazioni. Ma tra 50 anni, io non ci sarò (ma si scrive per chi leggerà, quindi nel futuro, o no?), siamo sicuri che di libri non si parlerà solo all'ora di storia, mentre passa un video sulla parete interattiva?

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Mi ricorda un libro di terrificante profezia...

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Apprezzo il contenuto dell'articolo e cerco di riflettere sul suo portato, sulle conclusioni, anche se provvisorie, che si possono trarre. Come Feltri credo di dover riconoscere all'autrice una notevole onestà intellettuale nel denuciare problemi, il lato oscuro, il rovescio della medaglia del lavoro che fa. Mi colpisce, ma non mi stupisce poi molto che addirittura il 30 % dei libri pubblicati non venga venduto. Ma la domanda é: l'invenduto "tombale" quanto pesa sul budget dell'editore? O si tratta magari di pubblicazioni il cui autore, pur di vedersi stampato, ci mette del suo? Io leggo quel 30% di invenduto come una perdita, strettamente economica, di lavoro (non parlo degli autori) fatto per niente, non remunerato da un normale processo di mercato. Se la signora Di Trapani prende un suo stipendio e lavora per un percentuale di quella percentuale di invenduti, quella sua percentuale di stipendio che le paga Laterza è logicamente una perdita. Certo è un discorso schematico e paradossale, ma di fatto, come si sopportano, e soprattutto che senso hanno i 24000 titoli (titoli, non copie) invenduti? La gente legge poco? Secondo me, sia pure molto schematicamente, c'è chi scrive troppo, o in troppi scrivono. E non parlo solo di narrativa ma anche di saggistica. Dal mio punto di vista di lettore tutt'altro che bulimico ed anzi ultraselettivo, che compra un libro solo se ritiene di "doverlo" leggere per propria cultura, formazione o anche intrattenimento, si scrive troppo. I libri -non tutti ma parecchi- non vengono letti semplicemente perchè non interessano, non attraggono e se poi letti non dicono niente, sono vaniloqui, esercizi egotistici, autoseduzioni. Scrivere bene, scrivere cose buone utili ed interessanti è raro. Anche in saggistica: ho comprato (vorrei scrivere "spesso" ma mi limito a "talora") saggi che in teoria come dice l'autrice dovrebbero approfondire argomenti, problemi fenomeni e vicende storiche o di cronaca con proprietà e competenza di strumenti, ricchezza di documentazione etc. e mi son trovato davanti a minestre annacquate. Quello che si poteva sintetizzare utilmente in un articolo o in un podcast, diluito su diverse pagine, reiterato, gonfiato quasi ad arte e a danno degli alberi (benchè ora il riciclo sia spesso un vanto delle stamperie). Non parliamo di narrativa o, quod deus avertat, di poesia, dove chiunque si sente autorizzato a metter su carta fantasie, sogni, ubbie, visioni del mondo mutuate da telenovele e serie tv. Senza solidi ed originali impianti linguistici lessicali semantici grammaticali e sintattici. La gente da una parte scrive troppo e dall'altra non legge invece ciò che dovrebbe leggere prima di scrivere. Alcuni commenti parlano di libri dimenticati sul comodino. Io non leggo a letto, e dato che non vado al mare, neanche sotto l'ombrellone; il leggere non è un metodo per "rilassarmi", per volare con la fantasia, o per ficcare il naso nell'intimo altrui. Devo ricavarne qualcosa di solido: le rare, rarissime, volte che un saggio mi ha davvero convinto e un lavoro narrativo mi ha davvero coinvolto, ne sono rimasto "scosso" (nei miei luoghi comuni ad esempio, nelle mie idées réçues, nella mia ignoranza...), "impressionato", anche "emozionato". Se un libro non fa questo è inutile. Naturalmente parlo per me. Ma penso a quelle persone, meritevolissime e lodatissime, che leggono in continuazione un libro dopo l'altro: mi piacerebbe chieder loro se davvero tutto quel che leggono si sedimenta dentro di loro, le fa pensare, modifica il loro modo di sentire, di agire e di conoscere il mondo. Concludo con una citazione che amava ripetere un amico, diversi anni fa, di cui mi è difficile ricostruire l'autore: "Fare un libro val meno che niente, se il libro fatto non rifà la gente". Quante delle migliaia delle tonnellate di carta che escono dalle "rotative" rifanno, almeno un pochino, la gente?

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Molto interessante. Un tema da approfondire criticamente, anche rispetto alle ricadute sociopolitiche di un mercato culturale che cambia

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A voglia a video su tik tok, che non utilizzo, per promuovere libri! l'articolo conferma il pensiero che spesso ho avuto davanti la mole di libri nuovi esposti nelle librerie ogni mese, molti non vengono acquistati. La Feltrinelli che frequento in 30 anni ha replicato il suo spazio di vendita, ma la vastità di offerta fa passare un po' la voglia di aprire un libro sconosciuto, di leggere il risvolto di un autore mai visto prima, come se la mancata selezione da parte degli editori facesse pensare che c'è molta fuffa esposta.

Allora io per difendermi leggo gli inserti culturali dei quotidiani per farmi aiutare nella selezione 🤞🏻

Emanuela

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Un piccolo editore, scomparso dieci anni fa, sconsolatamente diceva: in Italia tutti scrivono e nessuno legge.

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E si potrebbe allargare: tutti parlano e nessuno ascolta.

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Nell’universo editoriale sono presenti anche tante piccole case editrici il cui mercato editoriale è stato cannibalizzato dai grandi editori. Mi riferisco al settore dell’editoria di montagna che conosco avendovi lavorato per una decina d’anni. Il successo del libro di Cognetti Le otto montagne ha completamente modificato lo scenario. Se da un lato ha ampliato i lettori interessati dall’altro sono scesi in campo anche i grandi editori e i titoli pubblicati sono aumentati esponenzialmente. La conseguenza è che per i piccoli la sopravvivenza è diventata più ardua, in alcuni casi impossibile.

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È un ottimo articolo e centra il problema: troppi libri in circolazione rispetto ai lettori.

Non leggo tutti i libri. Mi interessano soprattutto libri che spiegano la storia dei popoli. Adesso sto leggendo un libro di Egidio Ivetic, sulla storia dell’Adriatico orientale. Una storia interessante che nessuno ci ha mai raccontato.

A volte i libri sono scritti anche in modo pesante, illeggibili o difficili da leggere.

A volte sono banali ed un libro non in ristampa, ha un costo

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ago 29Messo Mi piace da Stefano Feltri

Grazie mille a Lia Di Trapani per questo importante contributo. Mi piacerebbe capire un po’ di più di come gli scout vanno alla ricerca di nuovi autori da pubblicare. Perché mi sembra che al giorno d’oggi, per i motivi illustrati nel pezzo, sia diventato comune offrire la possibilità di pubblicazione a “creatori di contenuti” sui social che portano con sé un discreto pubblico, e quindi la garanzia di qualche vendita. Ma spesso si tratta di creatori che non hanno mai avuto aspirazioni editoriali; chi invece coltiva queste ultime, e ha studiato e passato tanto tempo a raffinare la propria scrittura, ma non ha la vocazione di creatore social, cosa deve fare? Come possiamo far sì che a guadagnarsi la fiducia di un editore e il poco spazio disponibile sugli scaffali di una libreria non siano solo scrittori improvvisati dal giorno alla notte — con tanti follower, però — ma anche chi scrittore ha sempre voluto diventarlo? Chiedo per un’amica, come si dice :)

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Credo che un maggiore filtro da parte degli editori sia necessario. Pubblicare meno libri, ma di maggiore qualità, aiuterebbe il lettore ad orientarsi nella selva di titoli in mostra sugli scaffali delle librerie.

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Il problema del valore è un po' difficile. Pensi a quali libri hanno un successo immeritato! Parlo in particolare di politici e qualche "giornalista" pronti a cavalcare il conflitto, la violenza come e più dei social. Vendono e portano soldi. Quindi che fare?

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