Ragioni e Sentimenti
IL DIBATTITO SULLA RABBIA - La politica dovrebbe dare gli strumenti, ideali e pratici, ai cittadini per capire le proprie emozioni, riconoscendole e inserendole in lotte politiche
La rabbia spesso sottende alla richiesta di una partecipazione tra eguali che possa alleviare non solo una percepita invisibilità, ma anche l’incomprensione e l’impotenza che le democrazie e i propri abitanti si trovano a fronteggiare
Zelia Gallo
Buongiorno a tutte e tutti,
il dibattito che stiamo avendo qui su Appunti in questa estate, cioè come si debba rispondere alla politica della rabbia, potrebbe sembrarvi parallelo all’attualità. Ma la interseca pienamente.
Basta guardare la scelta che ha fatto Kamala Harris per il suo candidato vicepresidente: il governatore del Minnesota Tim Waltz.
Il Minnesota non è uno stato in bilico, ma è nel Midwest e Tim Waltz - una vita da educatore e nella Guardia nazionale - il tipo di bianco, baby boomer, di provincia, capace di parlare all’elettorato cruciale di Michigan e Wisconsin che è decisivo alle elezioni ma che potrebbe diffidare di Kamala Harris (troppo donna, troppo californiana, troppo nera).
Soprattutto, Tim Waltz è quello che ha indicato ai Democratici come rispondere alla politica della rabbia di Donald Trump e JD Vance con un approccio nuovo. Invece di denunciare il pericolo eversivo che Trump e il Partito Repubblicano trumpizzato rappresentano per la democrazia, Waltz ha iniziato a suggerire che siano “weird”. Strambi, bizzarri.
I Democratici si sono convinti che il modo più efficace per togliere pathos e forza a Trump sia prenderlo poco sul serio, sottolineare gli aspetti più bislacchi del suo messaggio, e lo stesso approccio viene applicato a Vance (in particolare al suo commento sulle “gattare senza figli”, categoria nella quale inserisce Kamala Harris).
Io non sono sicuro che funzioni, in Italia ci sono state generazioni di leader di centrosinistra che hanno pensato fosse una buona idea non parlare mai dei conflitti di interesse di Silvio Berlusconi, dei rapporti con la mafia, delle escort e dei ricatti… Non ha funzionato granché.
Però è indicativo che l’intero partito Democratico abbia ormai chiaro che la grande questione politica è come rispondere alla rabbia. Cioè quello di cui si discute qui su Appunti.
Dopo politologi e filosofi, oggi interviene una giurista, Zelia Gallo che è Senior Lecturer in Criminal Law and Criminology alla The Dickson Poon School of Law.
In coda c’è uno scambio molto, molto interessante tra Paola Giacomoni e Gianfranco Pellegrino, innescato proprio dall’intervento di Pellegrino. Il genere di vitale e fruttifero confronto di idee che Appunti spera di stimolare (e che sui giornali non si vede più).
Buona giornata,
Stefano
Il dibattito di Appunti - Come rispondere alla rabbia
I sostenitori della democrazia liberale sembrano destinati a diventare una frustrata minoranza, per effetto della rapida scomparsa dei partiti più moderati, per l’ascesa delle destre radicali e per l’affermarsi di figure e forze anti-sistema, non più soltanto populiste ma anti-democratiche.
Da Donald Trump negli Stati Uniti, ad Alternative für Deutschland in Germania, a Nigel Farage in Gran Bretagna, a Marine Le Pen e Jordan Bardella in Francia.
Questo rinnovato successo delle foze più antidemocratiche ha colto molti di sorpresa e suscita sconcerto.
Cosa si può fare? Ne discutiamo su Appunti per tutta l’estate a partire dal libro di Carlo Invernizzi-Accetti Vent’anni di rabbia (Mondadori)
Ragioni e Sentimenti
di Zelia Gallo
Alla rabbia diffusa si deve rispondere con una politica che includa: una politica capace di portare avanti un messaggio che veda lo Stato come casa comune e la convivenza civica come possibile ed essenziale pur nelle diversità.
Pertanto, ridiamo forza ai corpi intermedi, vivifichiamo le nostre narrazioni ideologiche, e rifuggiamo la facile tentazione della soluzione giudiziaria.
Riconoscimento ed inclusione
Carlo Invernizzi-Accetti ci parla di una rabbia diffusa che riflette la necessità di riconoscimento sociale, che non ha necessariamente a che vedere con le condizioni materiali dei ‘rabbiosi’ e delle ‘rabbiose’, ma con “il modo in cui ampi strati della popolazione si sentono percepiti, e […] valutati’ – male e poco – ‘dal resto della società”.
Io penso però che sia riduttivo interpretare il riconoscimento in termini di visibilità e percezione, parametri esteriori ed individuali.
Se la nozione di visibilità può aiutarci a spiegare la rabbia senza rivendicazione dei gilet-jaunes, non è però ugualmente utile nei confronti della rabbia di altri gruppi, espressa in altri contesti, la cui richiesta non è di una visibilità fine a sé stessa, ma di una visibilità fine a delle rivendicazioni – più o meno precise ma sicuramente esistenti.
Se dovessi semplificare direi che si rivendica, per esempio, una maggiore e costante attenzione alle questioni climatiche, invece che un semplice green washing per salvaguardare il business as usual. Si chiede che finisca il normalizzato abuso del potere (economico e sessuale) del patriarcato.
Si chiede che la vita – non solo in senso figurato ma in senso stretto – degli americani neri sia considerata “valuable” e non “disposable”: di valore almeno eguale a quello degli altri cittadini americani (bianchi) e non invece “usa e getta”.
A me sembra che il comune denominatore tra queste diverse rivendicazioni sia una richiesta di eguaglianza: più precisamente di eguaglianza tramite l’inclusione. Inclusione in che cosa? Non solo nel benessere materiale (che comunque rimane mal distribuito) ma nei processi decisionali; nella costituzione stessa delle comunità politiche. È una richiesta di cittadinanza in cui diritti sociali, economici, e politici siano integrati per costituire un tutt’uno indivisibile.
Quindi rabbia si, ma non necessariamente teleologica. Piuttosto rabbia che sottende alla richiesta di partecipazione tra eguali che possa alleviare non solo una percepita invisibilità, ma anche l’incomprensione e l’impotenza che le democrazie e i propri abitanti si trovano a fronteggiare; non ultima la complessità della vita comune nelle società pluraliste.
Abbiamo qui una richiesta di partecipazione che riporti i cittadini ad essere agenti della politica e non solo soggetti alla politica (o alle forze economiche e sociali).
Premetto che, se la mia diagnosi si discosta lievemente da quella di Invernizzi-Accetti, le mie soluzioni sono invece, nell’insieme, in linea con le sue.
Accogliere la complessità
Qui la risposta della politica deve essere quella di accogliere la richiesta di inclusione e di accogliere la complessità. Compito non facile, ma che può essere scomposto in diverse parti, ognuna delle quali diventa più gestibile.
A livello delle istituzioni politiche, per esempio, penso sia importante proteggere le strutture istituzionali basate sul negoziato e sulla ricerca del compromesso tra diverse istanze politiche, rifuggendo le tentazioni maggioritarie che abbiamo visto espandersi con insistenza, almeno dal 2010, a livello nazionale sia a sinistra che – recentemente e con gran foga – a destra.
Penso qui alle riforme costituzionali ed elettorali tentate e in atto; ma anche agli espedienti procedurali come i frequenti voti di fiducia. Nella loro enfasi decisionista questi strumenti parlano di una politica intenta a fabbricare un’omogeneità di vedute che semplicemente non esiste nelle società complesse (e nella frammentaria realtà italiana).
Quest’omogeneità imposta viene spesso accompagnata da una narrazione emergenziale, che impone soluzioni immediate ad un susseguirsi apparentemente infinito di crisi (la “permacrisi”) e che quindi ritrae il dissenso come inaccettabile. Siamo qui nel terreno della disintermediazione, nonché dell’ascesa del populismo e della tecnocrazia, entrambi incapaci di concepire il conflitto politico se non come patologia o aberrazione, e che sono quindi incapaci di vedere il dissenso se non come irrazionale follia (per la tecnocrazia) o immorale sopruso (per il populismo).
Una politica di parte – quello che in inglese si definisce partisanship – non è un’aberrazione: è invece la linfa stessa della politica
Tempo ed emotività della politica
Disintermediazione e visione manichea del mondo portano anche ad un’irritazione nei confronti dei tempi e delle possibili lungaggini della politica, in particolare quella parlamentare.
Ed è proprio qui che penso sia importante resistere, continuando a far passare il messaggio che una politica lunga non è sinonimo di una politica stagnante; che il compromesso ed il negoziato non sono ‘sporchi affari’ di politicanti intriganti ma processi inevitabili, da tener sotto controllo sì, ma non da ‘superare’ nell’interesse di una politica ‘streamlined’ dove la rapidità è fine a sé stessa.
Così come penso sia importante enfatizzare che una politica ‘di parte’ – quello che in inglese si definisce partisanship – non è un’aberrazione: è invece la linfa stessa della politica, che richiede un po’ di ‘fede’ da parte dei suoi partecipanti perché possa funzionare, e perché si possa tenere duro di fronte alle crescenti brutture del mondo.
Qui si viene anche creando lo spazio per la dimensione emotiva della politica – di cui tanto ci parla la rabbia di Invernizzi-Accetti – della quale non possiamo fare a meno.
Non solo perché è alla base della politica, ma più semplicemente perché la dimensione emotiva esiste.
Negli ultimi anni siamo stati abituati a vedere questa dimensione solo in termini negativi: la paura, il rancore, l’odio.
Tutti sentimenti molto visibili e facili da esprimere in quanto reattivi e distruttivi, e tutte emozioni sfruttate nell’ambito politico per catturare consensi elettorali tramite l’esclusione dell’altro, la semplificazione di questioni complesse, e la creazione di nemici, tanto meglio se stranieri.
Comprensibilmente la reazione di chi ha a cuore la democrazia – il pluralismo, la rappresentanza – è quella di tentare di recidere le emozioni dalla sfera politica. Ma questa è una strategia fallimentare.
Il compito della politica dovrebbe invece essere quello di dare gli strumenti, ideali e pratici, ai cittadini per capire le proprie emozioni, riconoscendole e contestualizzandole in lotte politiche a lungo termine, senza esserne semplicemente in balìa (l’incomprensione di cui parlavo sopra).
La negazione di queste emozioni – non necessariamente atavistiche, non sempre semplice pregiudizio – non le fa sparire, ma le dirotta presso quegli attori politici presti e lesti a sfruttare paura, incomprensione, pregiudizio, frustrazione. La conseguenza è che nella sfera politica vengono ingigantite tutte le emozioni più mortifere e lugubri, e viene privilegiata una politica decisionista sia per dare voce indisturbata (di fittizia omogeneità) a queste emozioni, che per silenziare (e quindi esasperare) le stesse.
Viene invece fagocitato ciò che c’è di propositivo e galvanizzante nell’emotività della politica – la speranza, il senso di essere agenti della propria vita, la partecipazione ad un comune progetto – tanto più necessari quanto più difficili e urgenti sono le questioni che siamo chiamati a risolvere.
Attivisti di partito, giornalisti, intellettuali, dovrebbero spesso e sistematicamente parlare a, e coinvolgere, cittadini e cittadine e - nel caso italiano - anche chi cittadino non è
Lo Stato come casa comune
Dobbiamo quindi adoperarci per salvaguardare le regole del gioco: quella cornice istituzionale, e la narrazione che l’accompagna, entro la quale si può essere inclusi e attivi anche se si perde, perché le decisioni sono prese di comune accordo e possono comunque, secondo le stesse ‘regole del gioco’, essere riviste alla prossima tornata elettorale.
Dobbiamo, cioè, adoperarci perché rimanga intatta l’idea dello Stato come casa comune: dove sia possibile convivere e dove la diversità di vedute non sia vista come un esistenziale attacco da parte di forze nemiche da annientare. Nessuno garantisce che questa convivenza sia facile, anzi. Ma non esiste altra scelta: l’esclusione della diversità non è un’opzione.
E fra tornate elettorali? “Organizzatevi!”, dice Invernizzi-Accetti: bene, che ci si torni ad organizzare, per esempio contro riforme istituzionali che modificano l’assetto costituzionale.
Ma qui suggerirei anche delle riforme materiali importanti che salvaguardino il tempo per la politica (necessario almeno quanto il tempo della politica) riformando il lavoro in modo tale che sia equamente diviso, e che non sia così precario da dominare e vita e pensiero di potenziali cittadini organizzati.
I corpi intermedi non bastano: servono anche le ideologie. Quindi, e qui il compito è più difficile perché meno tangibile, dobbiamo anche adoperarci per creare narrazioni ideologiche contemporanee che iniettino nuova trascendenza nella politica: per andare oltre a quell’ ‘uno vale uno’ (notare: ‘unO’– singolare maschile) che lascia tutti soli.
Potremmo iniziare poggiandoci proprio su quel che rimane dei corpi intermedi dell’età dei partiti di massa, minando le idee che hanno portato all’originaria creazione di sindacati, partiti, e di tutti i corpi capillari sparsi nella società, tramite i quali si creava una politica diffusa dove, presi assieme, i singoli elementi risultavano più della somma delle loro parti. Recuperando il lascito della politica del Dopoguerra, senza nostalgia oleografica ma anche senza voler ricominciare da zero.
E per vivificare queste nuove forme di organizzazione e narrazione, suggerirei di fare più ricerca sociologica (!): attivisti di partito, giornalisti, intellettuali, dovrebbero spesso e sistematicamente parlare a, e coinvolgere, cittadini e cittadine e - nel caso italiano - anche chi cittadino non è (riuscito ad essere).
Questa non è una mossa accademica, ma è una necessità: per capire le istanze diffuse nella società, per non silenziarle, per evitare che diventino rabbia e semplificazione, e anche per vedere quali siano le risorse a disposizione della politica.
Questa ingiunzione, e questo mio ‘noi’ sottinteso, mi porta anche a suggerire di prestare attenzione al contesto nel quale operiamo: va bene tracciare i fil rouge, ma non assumere che si tratti di un’unica matassa (anglo-centrica). Gli Stati Uniti non sono l’Italia: guardiamo quindi ai punti comuni ma anche alle differenze.
Forme politiche e non giudiziarie
Infine, visto che viene chiamata in causa e annoverata nella categoria del “rispondere al fuoco col fuoco”, vorrei suggerire di usare la risposta giudiziaria con grandissima cura e assoluta reticenza.
La forma giudiziaria non è amica di una politica inclusiva. Da un lato, come nota Invernizzi-Accetti, è una forma tecnocratica di risoluzione del conflitto.
Se il conflitto che abbiamo di fronte è visibilmente politico, la forma giudiziaria lo rimuove dal terreno dello scontro politico proiettandolo all’interno della cornice giuridica in una mossa top-down di ulteriore silenziamento, ma non superamento, della rabbia.
Dall’altro lato però lo strumento giudiziario penale può facilmente essere coniugato in maniera populista.
Da tempo si parla di ‘populismo penale’ nel mondo anglofono, e della politica statunitense come ‘malata di crimine’, in quanto la paura del crimine e la sua risoluzione (controllo Statale coercitivo) sono diventati chiave di lettura privilegiata per la gestione della vita collettiva Nord Americana. Gli effetti, politici e penali, sono stati a dir poco funesti.
Anche in Italia si fa più insistente l’utilizzo populista della penalità, nel nostro contesto tenuto sotto un certo controllo da resistenze istituzionali e costituzionali. Ma quest’ultime non possono sempre far argine né a livello pratico né a livello democratico.
E in pratica che cosa vorrebbe dire ‘rispondere al fuoco col fuoco’ per gestire – accogliere? Silenziare? Manipolare?– la rabbia tramite strumenti giudiziari? Estendere la maglia della criminalizzazione a comportamenti rabbiosi creando nuovi reati, o utilizzando vecchi strumenti (che nell’Italia del codice Rocco e della Legge Reale sono molteplici) per ‘nuovi’ nemici politici? O estendere la sorveglianza giuridica a gruppi di ‘rabbiosi’ pericolosi?
Ma la forma giuridica, una volta utilizzata, permane molto più che non le compagini politiche che la utilizzano: in Germania l’AfD oggi – ma oggi anche gli attivisti climatici – e in Italia i rabbiosi intellettuali su Substack domani?
Anche qui sarebbe bene, con le dovute cautele comparate, imparare dal contesto anglofono: più precisamente da quello britannico. In Inghilterra lo strumento penale è da anni lo strumento di default di una politica in crisi, che tenta di imporre la convivenza civile tramite criminalizzazione e pena.
A me sembra che questo approccio non abbia portato a maggior pace sociale o a meno rabbia, e abbia invece solo acuito la diffidenza: degli uni verso gli altri e di tutti verso lo Stato. Ha inoltre portato a livelli di incarcerazione tali da imporre (in una mossa fino a ieri quasi impensabile) la scarcerazione di 20.000 detenuti .
Ad aggiungere fuoco al fuoco, brucia tutto; e sono sempre gli ultimi (i “devianti”, i “criminali”, i detenuti) a patire delle tentazioni criminalizzatrici di una politica in crisi.
Lo strumento giudiziario, in particolare quello penale, rompe e non ristora i legami sociali, si sostituisce all’azione politica dei cittadini, e nulla fa per salvaguardare una politica di collaborazione nella complessità: dove l’avversario (politico), per quanto possa essere sgradevole, è pur sempre un potenziale co-autore della vita comune e non è invece un nemico da annientare.
Quindi, di fronte alla rabbia diffusa spingiamo per una politica dell’inclusione tra eguali. Passando da alcune lotte forse più fattibili perché più contenute: la difesa delle istituzioni politiche, riforme del lavoro che offrano la sicurezza necessaria per essere organizzati ed attivi.
E poi passando per lotte più difficili ma essenziali: narrazioni ideologiche che facciano propria una visione della politica come tempo e luogo di riflessione collettiva, anche nello scontro e nella diversità, e che rifuggano la facile tentazione della forma giuridica.
Questa è una forma che sembra contenere i conflitti nominandoli (soprattutto se li nomina ‘reati’), e sembra offrire immediate soluzioni (soprattutto se sono penali). Ma, in verità, è una forma che reifica una politica dell’inimicizia, trasformando la rabbia in rancore distruttivo e non in rivendicazione propositiva.
La discussiobe - Paola Giacomoni e Gianfranco Pellegrino
Paola Giacomoni, è professoressa di Storia della filosofia presso l'Università degli Studi di Trento. E’ già intervenuta nel dibattito sulla rabbia con un suo pezzo che potete leggere a questo link. Dopo il pezzo di Gianfranco Pellegrino ha mandato un breve commento, che pubblico qui sotto:
Trovo sorprendente la conclusione di questo articolo peraltro molto interessante. In ogni rabbia si esprime un’aspirazione sentita come vitale, qualcosa di prezioso e che ci sta a cuore, e a cui non viene riconosciuto valore o che viene ostacolato. Anche nella rabbia di status, il terzo tipo descritto in questo articolo, questo nucleo centrale è presente. Basta leggere il libro di J.D. Vance, Elegia americana, che è molto istruttivo sulla condizione dei left behind in America e non solo.
Questa non è una rabbia intrinsecamente conservatrice: anch’essa è una reazione a qualcosa che è sentito come un oltraggio alla propria dignità. Per molti motivi questa rabbia va a destra, non solo a causa della perdita di status, che si vorrebbe ripristinare, ma anche per un’assenza da parte dei liberal o della sinistra di una politica che fornisca un futuro a chi è stato messo ai margini dalla globalizzazione.
È una condizione che per alcuni aspetti riguarda anche le giovani generazioni, anche qui da noi, che sentono di “non essere attesi” dalla società in cui crescono, come se non fosse per loro previsto un posto dignitoso.
Non credo che questa sia una rabbia da non ascoltare, una rabbia che regaliamo alla destra. In una società in cui ad alcuni non viene dato ascolto perché considerati socialmente “incompetenti”, non portatori di valori, si creano vere e proprie lesioni, delle patologie, come osserva Axel Honneth: la rabbia inespressa diventa risentimento che porta a ribellismi distruttivi, come abbiamo già visto con l’assalto a Capitol Hill.
Compito di una società democratica è quello di comprendere anche queste ragioni fornendo soluzioni diverse da quelle conservatrici ma capaci di rispondere a chi si sente ai margini della storia.
Qui la risposta di Gianfranco Pellegrino:
Nel mio pezzo su Appunti, ho distinto tre forme di misconoscimento, che danno luogo a rabbia. Il misconoscimento dell’eguale status, il misconoscimento delle differenze (culturali, di genere, di identità, individuale e collettiva), il misconoscimento del privilegio perduto.
Ho sostenuto due tesi. In primo luogo, queste tre forme di misconoscimento non si possono riparare nella stessa maniera.
Il misconoscimento dell’eguale status richiede politiche di inclusione, che garantiscano partecipazione e rappresentanza. Il misconoscimento delle differenze vuole politiche di azione affermativa o di auto-determinazione o rappresentanza multiculturale.
Che cosa serve per evitare il misconoscimento del privilegio perduto? La soluzione più ovvia è la restaurazione dei privilegi. La mia seconda tesi è che non dovremmo concedere questa restaurazione, perché si tratta di una reazione conservatrice. E quindi non dovremmo riconoscere, o prendere sul serio, questa rabbia.
Paola Giacomoni, che ringrazio per l’attenzione, ha obiettato alla mia seconda tesi, sostenendo che tutte le rabbie vadano ascoltate, senza regalarne nessuna alla destra. Dobbiamo comprendere le ragioni di chi rimpiange il privilegio perduto e si sente relegato ai margini, ma fornire soluzioni diverse da quelle conservatrici.
Da un lato, non posso che essere d’accordo. Se si accetta che ci debbono essere soluzioni diverse per rabbie e misconoscimenti differenti (che era il mio punto principale), non dobbiamo porre limiti alla fantasia istituzionale e normativa.
Dall’altro, però, mi rimane un dubbio. Se quello che certuni chiedono è la restaurazione di certi privilegi, che si può fare? Prendere sul serio certe rabbie non può significare altro che considerarne il contenuto preciso.
Non possiamo certo dire: “Invocate privilegi perduti, ma in realtà volete qualcos’altro, e adesso noi, che abbiamo capito meglio che cosa pensate, ve lo diamo”. Questo non sarebbe prendere sul serio la rabbia, ma sarebbe un indebito e insopportabile atto di boria paternalistica. Dobbiamo riconoscere che questi gruppi contestano la loro perdita di status e vogliono ritornare a una società più diseguale.
Sia nella reazione al mio pezzo, sia nel suo contributo al dibattito su Appunti, Giacomoni richiama la descrizione che delle rivendicazioni di certi gruppi di bianchi poveri americani, gli hillbilly, fa J.D. Vance in Elegia americana (Garzanti, 2016). È un richiamo che mi pare confermare la mia preoccupazione.
Il libro si fonda su un evidente profiling razzista. Il fatto che quelli di cui si parla siano ‘bianchi’ è ripetuto ossessivamente nel libro.
Vance suggerisce a più riprese che il fatto che gruppi di bianchi siano in posizione emarginata, culturalmente e socialmente, è uno scandalo. Questo è evidente, per esempio, nel seguente passo:
per la classe media tradizionale dei bianchi dell’Ohio, quegli hillbilly erano come alieni. Avevano troppi figli e ospitavano i familiari per troppo tempo. […] Come si legge in un libro, Appalachian Odyssey, sulla migrazione di massa dei montanari nella città di Detroit, «il problema non era solo che gli immigrati in arrivo dagli Appalachi, ex contadini “fuori posto” in quella grande città, davano fastidio ai bianchi metropolitani del Midwest. Il problema era che quegli immigrati venivano a confutare tutta una serie di assunti su come si presentavano, su come parlavano e su come si comportavano i bianchi […]. La cosa inquietante degli hillbilly era la loro appartenenza etnica. Evidentemente appartenevano alla stessa razza di coloro che detenevano il potere economico, politico e sociale a livello locale e nazionale. Ma gli hillbilly avevano anche molti tratti in comune con i neri del Sud che affluivano a Detroit»” (p. 36, corsivi miei; la citazione dal libro Appalachian Odissey viene da p. 145).
E, all’inizio del libro, Vance avverte che la società di cui parla, e in cui vive, è ancora “fondamentalmente razzista”, e che lui è bianco, ma non si identifica nei WASP, bensì con “i milioni di proletari bianchi di origine irlandese e scozzese che non sono andati all’università” (p. 9).
A me sembra evidente che Vance dà voce al sentimento di persone che si sentono, per appartenenza razziale, nel gruppo dei dominanti, ma non vengono trattati come tali. E mi sembra evidente, pure, che a questo pregiudizio razzista, a questo rimpianto conservatore, non ci sia soluzione di sinistra. Ma forse mi difetta la fantasia.
Mi basta, però, aver attirato l’attenzione su questo tipo di rabbia da misconoscimento, che mi sembra distintivo e un po’ pericoloso, e non era sufficientemente precisato nel libro di Invernizzi-Accetti.
Se la sinistra troverà una soluzione di sinistra, non compromissoria, a queste istanze, ne sarò felice. Nel frattempo, vorrei che si stesse attenti a non cedere a derive reazionarie travestite da e confuse con rivendicazioni progressiste.
Chissà se riesco a non andare fuori tema . Dato che il dibattito non è monocorde , mi piacerebbe che si aprisse anche ai punti di vista di teologi o studiosi di diverse religioni. Il loro contributo potrebbe andare alle radici dei fondamentalismi che affondano anche nella rabbia. Grazie comunque, Viviana Valente.
Ricordo un pilastro spesso dimenticato dell'analisi politica del populismo di destra. Gli elettori del suo maggior inventore, Berlusconi, provenivano da tutte le classi sociali, tutte le regioni, tutte le professioni, donne e uomini. L'unica caratteristica che li univa era la scarsa cultura. L'analisi, statisticamente rigorosa, era in un libro del Mulino che adesso non ricordo.
Marco Ponti