Cent’anni di sacrificio
Per capire le logiche della Silicon Valley che sostiene Trump e quelle di JD Vance bisogna incrociare il capro espiatorio di René Girard con Il Grande Gatsby
Ciò che rende inquietante il progetto politico di J.D. Vance non è la sua inconsapevolezza, ma la lucidità con cui impiega il meccanismo sacrificale. Non lo subisce: lo maneggia. Invece di rifiutarne la logica, sembra farne un’arma.
James Simpson
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Il Grande Gatsby fu pubblicato per la prima volta il 10 aprile 1925, mentre Fitzgerald viveva in Francia. Pubblico questa riflessione da Parigi, cento anni dopo. L’ho scritta ispirato da un recente articolo di Sarah Churchwell sul Financial Times, in cui Gatsby viene interpretato come anticipazione dell’America di Trump.
Questo articolo è uscito sul sito del centro studi Spykman diretto da Manlio Graziano
di James Simpson
Un secolo dopo la pubblicazione del Grande Gatsby, il sogno americano resta un ideale centrale — sebbene sempre più frammentato — nell’immaginario.
Il romanzo di F. Scott Fitzgerald colse con inquietante lungimiranza il vuoto al cuore di quel sogno: un desiderio alimentato non da obiettivi realizzabili, ma da una nostalgia per un passato che non è mai esistito davvero.
Questo mito è riemerso in forma politica, in particolare attraverso lo slogan “Make America Great Again” — una fantasia nostalgica di rinnovamento che, come la luce verde di Gatsby, si allontana sempre un passo oltre la portata.
Entrambi i sogni — quello letterario e quello politico — si sorreggono non sulla verità o sul progresso, ma sull’esclusione simbolica e, in ultima analisi, sulla violenza sacrificale.
René Girard, storico e teorico letterario francese, ha elaborato un potente schema interpretativo per comprendere come le società risolvano i conflitti attraverso la violenza collettiva e l’esclusione ritualizzata.
Negli ultimi anni, il suo pensiero ha trovato eco in certi ambienti della Silicon Valley. Tra le figure politiche più in vista che si richiamano alle idee di Girard c’è il vicepresidente J.D. Vance.
Vance non si limita a ripetere i cliché del populismo: il suo progetto politico affonda le radici in una tradizione intellettuale più profonda. Ha parlato apertamente dell’influenza di Girard, citando Vedo Satana cadere come la folgore come opera centrale nella sua conversione al cattolicesimo.
Ma il legame di Vance con il pensiero girardiano è ancora più profondo. È strettamente legato a Peter Thiel, ex allievo di Girard a Stanford e forse il suo erede intellettuale più esplicito.
Thiel non solo ha introdotto Girard nella cultura della Silicon Valley, ma ha costruito attorno alle sue idee — sul desiderio mimetico, la psicologia collettiva, i pericoli del conformismo — l’intero suo impianto filosofico.
Lo ha definito il pensatore più importante incontrato a Stanford, applicando le sue teorie al comportamento dei mercati e alle dinamiche della sovversione politica.
Vance ha lavorato, all’inizio della sua carriera, presso Mithril Capital, un fondo di investimento co-fondato da Thiel, dove il loro legame intellettuale e professionale si è approfondito.
Thiel è poi diventato uno dei principali sostenitori politici di Vance. Questa genealogia comune suggerisce che il richiamo di Vance alla logica del sacrificio non sia affatto casuale.
La teoria di Girard costituisce una potente chiave interpretativa, applicabile non solo al mito antico ma anche ai comportamenti politici odierni. Al centro del suo pensiero vi è il concetto di desiderio mimetico: gli esseri umani non desiderano in modo autonomo, ma imitano i desideri altrui.
L’influenza di Girard
Questo porta a rivalità mimetiche, poiché individui e gruppi competono per gli stessi oggetti simbolici: status, appartenenza, amore, identità. Man mano che il conflitto mimetico cresce, la società precipita nel disordine, nell’ansia, nella frammentazione.
Questo meccanismo, sebbene antico, è riconoscibilissimo oggi: dal capro espiatorio dell’immigrazione alle crisi morali legate al cambiamento culturale. Il desiderio mimetico infiamma le tensioni sociali — ad esempio quando simboli culturali come l’identità nazionale, la famiglia tradizionale o la libertà di espressione diventano terreni di scontro tra gruppi antagonisti.
Le persone desiderano queste cose non per il loro valore intrinseco, ma perché gli altri sembrano desiderarle. Più questi simboli vengono contesi, più il desiderio mimetico si intensifica, e con esso la rivalità.
Per risolvere questa instabilità, Girard sostiene che le società fanno ricorso — inconsciamente — a ciò che chiama meccanismo del capro espiatorio.
Nei momenti di crisi, la comunità si unisce proiettando le proprie tensioni su un individuo o gruppo specifico.
Questo capro espiatorio viene accusato del disordine e allontanato, spesso con la violenza. Il sacrificio ristabilisce una pace temporanea, che viene ricordata non come crimine, ma come purificazione.
Nei miti antichi, il capro espiatorio è rappresentato come colpevole, e la sua punizione viene giustificata come necessaria per il ritorno all’ordine.
Nel mito di Edipo, il protagonista viene esiliato per purificare Tebe dalla peste — non perché abbia agito intenzionalmente, ma perché il destino lo ha condotto a infrangere tabù inconsapevolmente.
Il suo esilio ha una funzione rituale, non morale.
Edipo affronta un profondo esame di coscienza. Si acceca e si auto-esilia non perché il popolo lo esige, ma perché non riesce a sopportare il peso delle sue colpe involontarie. La tragedia sta proprio in questa dissonanza: la comunità cerca un capro espiatorio, Edipo cerca giustizia.
Nell’antica Grecia, il rituale del pharmakós prevedeva la scelta di un emarginato — mendicante, criminale, disabile — da espellere o uccidere nei momenti di crisi. Questo atto serviva a purificare la città trasferendo su di lui la propria sventura.
L’innocenza della vittima era irrilevante; la sua posizione marginale la rendeva un bersaglio conveniente. Questi riti offrivano catarsi, non giustizia, e presentavano la violenza come necessaria per ristabilire l’ordine.
La svolta di Girard consiste nell’aver riconosciuto nei Vangeli una contro-narrazione ai miti fondativi del sacrificio. Nei miti, il capro espiatorio è colpevole — Edipo viola tabù, il pharmakós è un reietto — e la violenza è giustificata. Nei Vangeli, invece, la vittima — Gesù — è esplicitamente innocente, e la violenza appare ingiustificata.
Gesù viene accusato di blasfemia dalle autorità religiose — il Sinedrio, il consiglio ebraico — e consegnato al governatore romano Ponzio Pilato, con l’accusa di sedizione.
Il timore non è legato alla violenza di Gesù, ma al suo potere simbolico: la sua popolarità, la sfida all’autorità costituita, la minaccia percepita all’ordine romano durante la Pasqua ebraica. Le istituzioni religiose e politiche partecipano entrambe alla sua condanna, e la folla ne chiede la crocifissione.
Gesù incarna perfettamente il capro espiatorio: percepito come minaccia, sacrificato per la pace pubblica, abbandonato da tutti. Ma, contrariamente al mito, i Vangeli non giustificano questa violenza: la smascherano.
Raccontano il tradimento, il delirio della folla, il silenzio degli astanti, mostrando come le comunità si uniscano nel biasimo collettivo. Pilato stesso dichiara più volte l’innocenza di Gesù: “Non trovo in lui alcuna colpa” (Luca 23,4), e poi: “Io sono innocente del sangue di questo giusto; vedetevela voi!” (Matteo 27,24). Lavandosi le mani, cerca simbolicamente di assolversi.
Come Edipo, Giuda è travolto dal rimorso. Entrambi rispondono non con ribellione pubblica, ma con un dolore intimo e devastante:
“Allora Giuda, colui che l’aveva tradito, vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì e riportò i trenta denari ai sommi sacerdoti e agli anziani, dicendo: ‘Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente’. Ma quelli dissero: ‘A noi che importa? Pensaci tu’. Ed egli, gettati i denari nel tempio, si allontanò e andò a impiccarsi.” (Matteo 27,3–5)
Entrambi si infliggono la punizione: uno con il suicidio, l’altro con l’accecamento e l’esilio. La colpa non è astratta: è totalizzante. Ciò che non sopportano non è il giudizio altrui, ma la consapevolezza di aver sacrificato un innocente.
La resurrezione rovescia la logica del sacrificio: rivendica l’innocenza della vittima ed espone la complicità di chi ne ha voluto la morte.
Da quel momento, secondo Girard, il meccanismo del capro espiatorio non può più operare inosservato.
La logica sacrificale di JD Vance
Ciò che rende inquietante il progetto politico di J.D. Vance non è la sua inconsapevolezza, ma la lucidità con cui impiega il meccanismo sacrificale. Non lo subisce: lo maneggia. Invece di rifiutarne la logica, sembra farne un’arma.
Il suo linguaggio costruisce costantemente una narrazione di decadenza culturale causata da elementi moralmente corrotti: “vecchie gattare senza figli”, “élite woke”, immigrati, persone trans. In un discorso del 2021, Vance dichiarò:
“Dobbiamo attaccare onestamente e aggressivamente le università di questo Paese. I professori sono il nemico.”
Non tutti gli elettori attratti dalla sua politica sono semplicemente sedotti dalla logica del capro espiatorio o accecati dalla nostalgia.
Molti rispondono a ferite reali: la crisi delle città industriali, l’epidemia di oppiacei, la perdita delle istituzioni comunitarie, un senso di smarrimento culturale in un’epoca di cambiamento rapido.
Non sono lamenti immaginari, e una politica onesta deve tenerne conto. Il pericolo non risiede nel riconoscere il dolore, ma nel modo in cui quel dolore viene orientato: verso soluzioni o verso colpevoli.
Nelle interviste e negli interventi pubblici, Vance ha sviluppato questi temi: rappresentando le élite urbane come ostili alla famiglia tradizionale, descrivendo gli immigrati senza documenti come portatori di criminalità, accusando gli insegnanti progressisti di indottrinare i bambini.
Non si tratta di affermazioni isolate, ma di elementi coerenti di una narrazione sacrificale. Individuano un gruppo da accusare, rifiutare, espellere simbolicamente, offrendo così ai propri seguaci senso di chiarezza, coesione, catarsi.
Per comprendere la forza culturale ed emotiva di questa politica, possiamo inserirla in una mitologia più ampia: quella del sogno americano, reso celebre da Fitzgerald in Il Grande Gatsby.
Jay Gatsby è la figura paradigmatica del desiderio mimetico. Non ama semplicemente Daisy; ama ciò che lei rappresenta: accettazione sociale, legittimazione, un passato idealizzato. La luce verde alla fine del suo pontile — tremula, irraggiungibile — diventa simbolo di quel desiderio e del sogno stesso.
“Gatsby credeva nella luce verde, nel futuro orgiastico che anno dopo anno arretra davanti a noi.”
Il sogno non è un obiettivo materiale, ma un’illusione nostalgica — un ritorno a una grandezza perduta. Nick gli dice: “Non si può ripetere il passato.” Gatsby risponde: “Certo che si può!”
La luce verde simboleggia una versione idealizzata di qualcosa che forse ha avuto — o crede di aver avuto — ma che è sempre stato più un desiderio che una realtà. Come lo slogan “Make America Great Again”, è una fantasia di restaurazione: vaga, idealizzata, in definitiva escludente.
Gatsby, nonostante la sua ricchezza, non viene mai accettato dall’élite dei “vecchi soldi”. I suoi sforzi di ascesa sociale — feste, ostentazione, performance — lo marcano come estraneo.
Quando Daisy uccide Myrtle Wilson, Gatsby si assume la colpa. La sua morte preserva l’illusione dell’ordine sociale. Tom e Daisy, i veri responsabili, si ritirano nei loro privilegi:
“Erano persone superficiali, Tom e Daisy — spaccavano cose e creature e poi si rifugiavano nei loro soldi o nella loro immensa superficialità... e lasciavano che fossero altri a ripulire il disastro che avevano creato.”
Gatsby non viene punito per aver sbagliato, ma per aver creduto in un sogno che non era mai stato pensato per lui. In una sorta di parodia silenziosa dei Vangeli, Gatsby muore per i peccati degli altri.
Come Il Grande Gatsby, anche Il crogiuolo di Arthur Miller mostra come le comunità reclamino vittime per proteggere le proprie illusioni.
Scritto in risposta al maccartismo, il dramma usa i processi alle streghe di Salem per rivelare come le società canalizzino le proprie ansie in accuse rituali.
Come Gatsby, anche John Proctor è innocente — ma a differenza di Gatsby, sceglie di resistere. In una delle battute più toccanti, proclama:
“Vi ho dato la mia anima; lasciatemi almeno il mio nome!”
Il rifiuto di Proctor è un rifiuto del meccanismo stesso. Il suo nome rappresenta più di un’identità: è la verità in una società drogata di catarsi fasulla. La sua morte è un atto di lucidità morale — sceglie di morire piuttosto che prestarsi a una menzogna collettiva. Gatsby, al contrario, non rifiuta il mito comune; vi muore dentro, ancora credendo in Daisy, nel sogno, nella promessa di appartenenza.
Eppure la sua morte svolge una funzione analoga: restando aggrappato all’illusione del sogno americano, Gatsby ne rivela la crudeltà. Diventa il sacrificio necessario che permette ai potenti di mantenere la finzione dell’ordine. In entrambi i casi, la morte dell’innocente sostiene una menzogna collettiva.
Il cimitero del sogno
La Valle delle Ceneri — quella desolata zona industriale tra West Egg e New York, descritta nel Grande Gatsby — non è solo uno spazio di transito.
È il cimitero del sogno: il luogo in cui le sue promesse si dissolvono in polvere. Fitzgerald la descrive come “una fattoria fantastica dove le ceneri crescono come grano in creste e colline e giardini grotteschi”.
È lì che muore Myrtle, ma anche il teatro della relazione segreta di Tom — un luogo di sfruttamento, segretezza, e decomposizione, lontano dalle facciate lucide degli Egg.
Le persone che vi abitano, come George Wilson, servono i sogni altrui senza mai parteciparvi.
È il paesaggio del sacrificio, una discarica simbolica. Il progetto MAGA promette di resuscitare una grandezza perduta, ma e se quella grandezza avesse sempre richiesto una valle dove seppellirne il costo umano?
Il sacrificio di Gatsby ha una tonalità morale diversa da quello evangelico. L’innocenza di Cristo viene proclamata: la sua morte smaschera la violenza della folla e ne chiede conto. Gatsby, invece, muore senza rivelazione.
Accetta il suo ruolo nell’illusione, anzi lo abbraccia, senza comprendere fino in fondo i meccanismi che lo hanno reso sacrificabile. La sua passività lo rende più tragico, non meno vittima.
La “luce verde”, appena fuori portata, prende forma politica nel MAGA. Anche qui opera mimeticamente: non perché offra una visione concreta da restaurare, ma perché riflette e amplifica i desideri altrui.
La sua forza risiede nell’ambiguità. Ogni seguace vi proietta una personale idea di grandezza perduta: l’innocenza dell’America rurale, la promessa dell’ascesa economica. La sua elasticità simbolica è la sua potenza. MAGA unisce non con un programma, ma con un rituale di memoria. Invita non all’azione, ma alla nostalgia.
Ma il desiderio mimetico, una volta risvegliato, è insaziabile. E, come tutti i desideri mimetici, genera rivali.
L’ideale irraggiungibile di restaurazione nazionale comincia a sembrare ostacolato: qualcuno deve impedirlo! Il capro espiatorio contemporaneo non ha bisogno di essere giustiziato fisicamente; la morte simbolica basta.
L’attivista, il tecnocrate, l’investitore straniero, il rettore universitario, il funzionario pubblico — ognuno diventa una figura comoda a cui attribuire la colpa per il mancato compimento del sogno.
Il continuo fallimento del sogno non fa che rafforzarne il desiderio e affinare la ricerca di un bersaglio. E così il ciclo si ripete: un capro viene offerto, il sacrificio viene razionalizzato, e la vecchia promessa — unità tramite esclusione, rinnovamento tramite colpa — viene inscenata di nuovo, sotto il familiare bagliore della luce verde.
“Make America Great Again” non è uno slogan, ma una formula sacrificale: la grandezza si recupera solo tramite l’espulsione simbolica di chi ne avrebbe causato la caduta.
Quando il rimorso compare nel mito e nella Scrittura, segna un punto di svolta: una presa di coscienza della colpa, una volta riconosciuta l’innocenza della vittima. Edipo si acceca; Giuda si toglie la vita. Oggi non vi è alcuna simile resa dei conti.
La possibilità più inquietante non è che Vance usi il meccanismo del capro espiatorio: è che lo faccia con piena consapevolezza delle sue origini e delle sue conseguenze, anche se i suoi seguaci no.
Questa asimmetria — tra un leader che capisce e un popolo che ne prova solo l’ebbrezza emotiva — rende la politica della colpa più manipolatoria. È ciò che Girard temeva di più: un mondo in cui il sacrificio persiste non nell’ignoranza, ma nella lucidità morale.
A sorvegliare tutto questo rimane il cartellone sbiadito del dottor T. J. Eckleburg — “azzurri e giganteschi… i suoi occhi, un po’ offuscati da tanti giorni senza vernice, incombono sul solenne campo di scarico”.
Per George Wilson, quegli occhi sono Dio — l’ultimo barlume di autorità morale in un paesaggio privo di Dio. Ma quegli occhi non parlano; non intervengono. Sono testimoni senza giudizio: passivi, inamovibili, eterni. La violenza si consuma sotto il loro sguardo, non alla cieca, ma con il tacito consenso dell’indifferenza.
Cent’anni dopo il primo bagliore della luce verde, l’America continua a inseguire sogni di redenzione tramite l’esclusione. Non stiamo più remando nell’ignoranza. La corrente ci è familiare, il rituale noto. Eppure continuiamo a remare — verso una grandezza che non è mai esistita, e una vittima già scelta.
“Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato.”
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Lungi dall’essere un attore libero e agile in grado di concludere accordi opportunistici, come avevano predetto dai sostenitori della Brexit – un miraggio facilmente smontato nei mesi successivi l’us…
Seducente ma non del tutto convincente.
Ma sono consapevole che un articolo come questo richiede, per essere valutato, un profilo culturale ben superiore al mio.
Certo è che è difficile immaginare qualcuno che rappresenti meglio di Trump le peggiori “élite urbane”. Il che mi fa pensare che Vance lo stia utilizzando come testa di legno.
una noia