A cosa servono i padroni?
Luciano Benetton si lamenta del buco nella società di famiglia e così confessa la cinica inettitudine di una classe di imprenditori (e del giornalismo pronto a nascondere le loro responsabilità)
Nell'Italia di oggi resta ancora senza risposta la domanda che il grande storico dell'economia David Landes pose come titolo di un suo acuto saggio: A che servono i padroni?
Giorgio Meletti
Buongiorno a tutti,
ha avuto un notevole riscontro il mio pezzo su Brunello Cucinelli, a conferma che qui (su Appunti e in generale sulla piattaforma Substack) ci sono spazi di libertà impensabili nella stampa tradizionale, costretta a celebrare non tanto i conti quanto l’ego di certi imprenditori privi del senso del ridicolo.
Oggi Giorgio Meletti si occupa da par suo del secondo caso di questi giorni, cioè Luciano Benetton, che proprio come Cucinelli usa la sua influenza sui giornali senza rendersi conto di quale imbarazzo genera il risultato agli occhi degli osservatori consapevoli (pochi, ma ci sono, e se leggete Giorgio lo diventerete anche voi).
Prima di dedicarci a Benetton, però, due parole su papa Francesco e sulle sue parole rivelate da Dagospia e confermate poi da vari giornali: a un incontro a porte chiuse con i vescovi italiani della Cei, Francesco avrebbe espresso la sua contrarietà all’ingresso in seminario di omosessuali.
Questa una perifrasi che cerca di dare una parvenza di dignità a parole che dovrebbero portare alle dimissioni qualunque leader, a maggior ragione se in teoria legittimato da una autorità morale e spirituale più che temporale:
“Guardate: c'è già un'aria di frociaggine in giro che non fa bene. C'è una cultura odierna dell'omosessualità rispetto alla quale chi ha un orientamento omosessuale è meglio che non sia accolto”
A prescindere dalla intrinseca violenza di queste parole, rivolte peraltro verso omosessuali che nella Chiesa cercano rifugio da un mondo ostile - come ha notato lo scrittore Jonathan Bazzi - c’è un’altra cosa da notare.
Come abbiamo raccontato nel podcast La Confessione, nei seminari sembra esserci in effetti una cultura malata e un problema con la gestione della sessualità, soprattutto quando si tratta di omosessualità.
Nella puntata dedicata a don Giuseppe Rugolo, il prete condannato per abusi, raccontiamo le chat tra giovani religiosi che si mandano foto di ragazzini aspiranti seminaristi e fantasticano su cosa succederà loro nel seminario.
Come ha raccontato anche il sociologo Marco Marzano su Appunti e nei suoi libri, la Chiesa costruisce un intero apparato formativo sulla trinità peccato-senso di colpa-assoluzione condizionata alla fedeltà all’istituzione.
E gran parte del sistematico processo di copertura degli abusi sessuali verso ragazzini in età adolescenziale che ricostruiamo ne La Confessione sembra legata proprio a questo problematico rapporto con l’identità sessuale e la castità all’inizio del processo formativo.
Invece di fare autocritica, e provare a smantellare un sistema omertoso che fin qui ha coperto e legittimato, papa Francesco sceglie di parlare come un generale Vannacci qualsiasi e prendersela con questa “cultura odierna della omosessualità” che inquina una Chiesa altrimenti pura e - par di capire - virilmente eterosessuale.
Una volta il papa ha detto che non si sarebbe dimesso, nonostante gli acciacchi, perché “la Chiesa si governa con la testa e non con le ginocchia”. Forse è ora di prendere atto che le ginocchia non sono più l’unica parte del corpo del Santo pontefice a risultare cedevole e inadeguata al ruolo
Buona giornata e buona lettura del pezzo di Giorgio
Stefano
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Le confessioni di Luciano Benetton
di Giorgio Meletti
Il capitalismo italiano è stato ormai ampiamente sfasciato da una generazione di imprenditori del tutto inadeguati e chissà perché i grandi editori ritengono loro dovere, o loro convenienza, nascondere il fatto ai loro clienti paganti, i lettori dei giornali che peraltro, vivendo in Italia, sanno già.
Anche perché per fortuna sempre più spesso i nostri "capitani di sventura" (per citare il grande e profetico libro di Marco Borsa e Luca De Biase) decidono di informare direttamente la classi inferiori.
Mai pienamente soddisfatti dal servilismo dei media italiani, occupano manu militari i giornali che non possono dire di no, essendo concimati dai loro investimenti pubblicitari.
Il giornalista è talmente servo da non avere il coraggio, qualora se ne accorga (e non è detto), di dire al padrone che quell'intervista, di cui il padrone medesimo talvolta detta anche le domande, sarà un autogol. E così il miracolo si compie attraverso quella che i dotti chiamerebbero eterogenesi dei fini: un giornalismo talmente stupido da raccontare per sbaglio la verità.
Stefano Feltri ha illustrato compiutamente due giorni fa il disastro comunicativo di Brunello Cucinelli che, credendo di mostrare la sua superiore intelligenza, ha illuminato con un'intervista a Repubblica le sue reali (deludenti) caratteristiche.
Il 25 maggio dev'essere stato un giorno speciale se un altro industriale tessile, Luciano Benetton, ha ritenuto di dover scendere in campo per darci attraverso le colonne del Corriere della Sera la notizia di avere scoperto di essere un pirla.
Se continuate a leggere scoprirete che la sintesi è brutale quanto doverosa se si ha rispetto per chi legge e per lo stesso 89enne tycoon dei maglioncini. L'unica avvertenza per chi vuole andare avanti nella lettura è di fidarsi: tutto ciò che leggerete è accaduto davvero anche se appare inverosimile.
Partiamo dal titolo: L’addio di Luciano Benetton: «Io tradito dai manager. Mi sono accorto che i conti non quadravano, poi lo choc: buco da 100 milioni».
La sintesi, che ai lettori non è stata concessa, perché quando parla il padrone non è educato tradurre i suoi discorsi sibillini, sarebbe la seguente.
Nel 2012 la Benetton dei maglioncini fu tolta dalla Borsa, per ragioni mai spiegate, e Luciano Benetton, il fondatore, la affidò ai manager preferendo dedicarsi alla sua passione per la pittura contemporanea.
Nel 2018, proprio il 25 maggio, data che evidentemente gli è cara, il signor Luciano "concede" un'intervista al Corriere della Sera. Titolo: Sono tornato in azienda. I manager non l'amavano. In sostanza dice che fu sbagliata la scelta dei manager a cui aveva affidato la Benetton e di dover essere tornato a gestirla direttamente.
Nel 2020 decide di scegliere un nuovo manager a cui affidare nuovamente l'azienda, anche perché lui ormai di anni ne ha 85.
Un cacciatore di teste gli propone un nome. Lui incontra il manager e lo trova bravo, gli fa anche simpatia perché viene dalla montagna (lo ripeto per l'ultima volta, è tutto vero).
Ma ecco che, racconta, “vengo avvertito da una telefonata accorata di un conoscente di non proseguire con questa persona perché la definisce assolutamente non idonea a un incarico così complesso”.
Il prudente uomo ha già avuto molte delusioni dai suoi manager, per esempio gli hanno fatto crollare il ponte Morandi e lui ne ha fatto una malattia, protestando che la parte lesa era lui e non i 43 morti, e lo stesso Corriere della Sera glielo riconosce con una delle frasi più incomprensibili formulate nei mille anni scarsi di storia della lingua italiana: “Persino il sopportare la tragedia del Ponte Morandi l’aveva vissuta con la "responsabilità" di chi sa di esserlo sia per quello che fai, sia per quello che non fai”. (Così nel testo, annoteremmo se fossimo in sede accademica).
Egli, messo sull'avviso da un conoscente, applica la strategia di contenimento del danno: “Condivido la mia forte preoccupazione con il consulente che lo aveva proposto il quale invece mi tranquillizza insistendo che la persona è ambiziosa e molto adatta a crescere professionalmente”. La forte preoccupazione si dissolve all'istante.
Il manager che vien dalla montagna, e di cui i lettori del Corriere non sapranno mai il nome ma voi sì, Massimo Renon, viene assunto come amministratore delegato.
Quel che Luciano non dice
Dice oggi Benetton che dal 2012 al 2020 i manager della holding di famiglia Edizione, cioè Gianni Mion, di cui parleremo tra poco, non sono stati in grado di trovare una compagine manageriale di qualità.
Otto anni non sono bastati ai manager scelti da lui per trovare manager in grazia di Dio per i maglioncini e lui, il grande imprenditore, impiega otto anni ad accorgersene. Dice che quando ha lasciato la guida della Benetton il fatturato era di due miliardi, non dice che quando la affida a Renon dopo otto anni, cioè quando la scelta la fa lui, mica quel pirla di Mion, il fatturato si è dimezzato a un miliardo.
Qui il racconto si fa drammatico ma anche confuso. Per quattro anni il signor Luciano - azionista unico e presidente del consiglio d'amministrazione che si riunisce per verificare il lavoro di Renon e i suoi conti, nonché approvargli i bilanci - non si accorge di niente.
È lui a spiegarlo: “In sintesi, mi sono fidato e ho sbagliato. Sono stato tradito nel vero senso della parola. Qualche mese fa ho capito che c’era qualche cosa che non andava. Che la fotografia del gruppo che ci ripetevano nei consigli di amministrazione i vertici manageriali non era reale”
Fino alla botta finale: “In uno dei consigli dei mesi successivi scoppia la bomba, di questo si tratta. Presentano d’improvviso un buco di bilancio drammatico, uno shock che ci lascia senza fiato”. Con un corollario presentato come ineluttabile: “Purtroppo ci saranno sacrifici da fare”. Indovinate per chi.
La scienza economica, da Adam Smith a Giancarlo Giorgetti, non ha mai chiarito che cosa sia esattamente un buco di bilancio. E infatti appena uscita l'intervista, alle 13,39 del 25 maggio, “fonti del gruppo Benetton” si precipitano a far diffondere dall'agenzia Ansa una precisazione: “Va chiarito che la situazione contabile di Benetton Group non presenta un buco di bilancio”, bensì “nei conti dell'anno è emersa una perdita significativa rispetto alle previsioni”.
Alle previsioni di chi? Del signor Luciano presidente, del consiglio d'amministrazione e del collegio sindacale ai quali, si evince, il Renon avrebbe tenuto nascosta, con successo, la realtà dei conti del gruppo.
Renon ha fatto sapere che sta preparando la sua risposta con gli avvocati.
In ogni caso nella prosa benettoniana è difficile non tradurre istintivamente i “sono stato tradito” e i “mi sono fidato e ho sbagliato” in un più piatto “sono stato un pirla”. La qual cosa preoccupa per il futuro del capitalismo italiano di cui egli è ancora considerato un alfiere. Anche perché, a sentir loro, la dinastia degli United colors sbaglia la scelta dei manager quasi sempre. O dice di averla sbagliata.
Come non ricordare il caso principe, Giovanni Castellucci, amministratore delegato di Atlantia e Autostrade per l'Italia?
Per anni ha riempito le casse della famiglia con i dividendi spremuti dalle autostrade (che per un miliardo sono finiti a tappare i buchi della Benetton dei maglioncini) risparmiando sulle manutenzioni. E loro, che risparmiava sulle manutenzioni, se ne sono accorti solo dopo il crollo del ponte Morandi, sentendosi a quel punto, ovviamente, traditi e lo hanno cacciato.
A dirigere il traffico c’era proprio il suddetto Mion, a capo della holding di famiglia Edizione, e lui si accorgeva di tutto, non solo delle malefatte di Castellucci ma anche delle caratteristiche manageriali dei Benetton, nessuno escluso, che riassunse in una sola icastica parola: “Inettitudine”.
L'Italia lo seppe dalle intercettazioni disposte dalla procura di Genova nell'inchiesta sul Morandi, e con l'Italia lo seppe anche Luciano Benetton, che in tanti anni non si era accorto nemmeno di stare sulle palle al manager che aveva in mano tutti i business della famiglia.
Quando lo apprese cacciò Mion per prendere al suo posto il noto avvocato Enrico Laghi che pochi mesi dopo venne arrestato.
L'unico che sembra stimare, ricambiato, il signor Luciano è il grande fotografo Oliviero Toscani che, letta l'intervista, si è precipitato a telefonargli la sua solidarietà e ha poi esternato il suo pensiero specifico.
A chi interessa il ponte..
Toscani, noto esperto di management, dice che il suo amico Benetton è l'unico che sa mandare avanti un'azienda, purtroppo è circondato da manager idioti, che è poi la stessa cosa che si diceva di Mussolini, la colpa era sempre dei gerarchi ladri e/o imbecilli, ma se ci pensate bene anche con Giorgia non scherzano...
Forse però Toscani pensa anche a se stesso che fu cacciato dalla Benetton nel maggio 2020, proprio mentre assumevano Renon, per aver detto alla trasmissione radiofonica Un giorno da pecora questa bella frase sui 43 morti del Morandi:
“Ma a chi interessa che caschi un ponte, smettiamola”. La disse per difendere il suo amico Luciano che infatti gli ha tolto i contratti ma non l'amicizia. E lui ricambia spiegandogli, lucido come sempre a dispetto degli 82 anni, che “sono i manager la rovina dell'economia”.
Così ha dichiarato all'Ansa il Toscani:
“Ho appena parlato con lui, è un uomo che dà fiducia alla gente ma deve capire che la gente non è come lui. I manager della Benetton sono una banda di cretini che hanno studiato alla Bocconi.
Luciano è un buono, un ottimista, forse ingenuo anche. I manager invece sono persone che non hanno nessuna morale. Renon avrebbe dovuto risolvere questi problemi e invece non lo ha fatto. È sempre facile dare la colpa a qualcuno [così nel testo]. Luciano è uno che da fiducia ma non tutti usano la sua fiducia in modo positivo.
La mala gestione della società è perché se ne sono approfittati senza cuore e senza passione, pensano solo al loro futuro e alle loro scalate. Vogliono solamente il successo della loro carriera. "Avevi ragione ad essere incazzato con i manager", mi ha detto Luciano, "dovevo ascoltarti" ”.
Poi la perla: “Si ricordi che Mion, all'epoca amministratore delegato di Edizione, ha detto che allora lui era a conoscenza del fatto che il ponte Morandi fosse a rischio ma non ha avvisato Benetton perché aveva paura di perdere il posto”.
Sul punto specifico Toscani non ha tutti i torti, anche se non si rende conto che l'edificante confessione resa da Mion al tribunale di Genova di fronte alle esterrefatte famiglie delle vittime distrugge anche la reputazione dei Benetton padroni buoni.
Questo è l'autoritratto della nostra borghesia industriale. Nell'Italia di oggi resta ancora senza risposta la domanda che il grande storico dell'economia David Landes pose come titolo di un suo acuto saggio: A che servono i padroni?.
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Appunti e Dieci Rivoluzioni: il libro e l’abbonamento omaggio
Visto che in questa fase non riesco a fare molta della tradizionale promozione del libro - tra festival, tv, radio ecc - per gli impegni di lavoro e familiari, vorrei tentare un esperimento, legato alla comunità di Appunti.
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Il Podcast: La Confessione
Ascolta La Confessione, il podcast di inchiesta che rivela per la prima volta da dentro come funziona il sistema di copertura e insabbiamento degli abusi sessuali nella Chiesa cattolica italiana.
Un podcast realizzato da Stefano Feltri, Giorgio Meletti e Federica Tourn, realizzato grazie al sostegno della comunità di Appunti. Con la collaborazione di Carmelo Rosa e la consulenza per musiche ed effetti di Stefano Tumiati.
Luciano è stato un imprenditore illuminato, venuto su dal niente.
L'uomo medio oggi dice: capaci tutti a fare denaro così!
Non è vero affatto.
Se l'uomo medio fosse stato capace lo avrebbe fatto ed invece la massa si è inchinata ed ha obbedito salvo, oggi, sputare sul piatto in cui ha mangiato.
Trovo tutto questo terribile!
Perché Luciano è davvero una bella anima la cui unica "colpa" è quella di amare molto la sua famiglia e di lasciare che sia.
Certo che viene anche la curiosità di sapere chi fosse l'head hunter che spingeva per Renon, ma forse tutti quelli che hanno lavorato per l'azionista in questi giorni hanno rapidamente tolto il logo Benetton dall'elenco delle referenze.