La banalità del cachemire
I giornali celebrano i pensieri "umanisti" dell'imprenditore (e grande inserzionista) Brunello Cucinelli che prova a trasformare il suo personale successo in una improbabile filosofia per tutti
L’unica cosa a cui gli imprenditori di successo - soprattutto quelli italiani - sono disposti a rinunciare è il controllo sulla narrazione della propria storia, specie se per giustificare la ricchezza accumulata hanno dovuto costruire cattedrali di retorica sulla bellezza, il paese, la felicità, la famiglia e il capitalismo amabile
“Una tecnologia non può sostituire ciò che ci rende unici, da come ci vestiamo a come gesticoliamo, fino a come creiamo”, dice Brunello Cucinelli a Repubblica.
Non capirò mai l’ego di questi imprenditori che si fanno intervistare e raccontare da giornali che riempiono di pubblicità: che gusto c’è a comprarsi la reputazione? Che soddisfazione può mai dare avere un interlocutore che non può che ascoltare e assentire perché i suoi capi hanno chiaro quanto valgono le pagine pubblicitarie?
La risposta forse è che la pubblicità di solito celebra il prodotto, non sempre il produttore.
Quasi sempre l’imprenditore vuole essere celebrato non come produttore, come manager, ma come intellettuale, leader, padre, visionario, patriota, come grande uomo. E ha i soldi per comprarsi l’attenzione dei media, troppo a corto di ricavi per permettersi di non assecondare certe vanità tutto sommato innocue degli inserzionisti.
Brunello Cucinelli, 70 anni, è l'esemplare perfetto di quella mentalità italiana auto-celebrativa che diffonde l’illusione di un trionfo italico e maschera la progressiva irrilevanza del paese.
Il problema è l’approccio che scambia il successo di alcuni (di solito dell’autore delle dichiarazioni autocelebrative) per il successo dell’economia italiana, il proprio arricchimento per il bene pubblico, un piano industriale di successo con una possibile via di politica industriale o strategia generale, o addirittura con una intuizione sul senso dell’esistenza.
Cucinelli - apprendiamo da un articolo sul Corriere, adeguatamente preparato dalla pubblicità dell’azienda omonima - si trova molto bene con i suoi “amici della Silicon Valley”, anche se produce abbigliamento, mica software o smartphone.
Niente di male a essere lo Steve Jobs del cachemire, ma il mondo lo ha cambiato soltanto lo Steve Jobs dell’iPhone. Solomeo non è la Silicon Valley.
Eppure c’è un punto di contatto tra il signore dell’Umbria e quelli di San Francisco o Seattle: come tanti founder di aziende tecnologiche che hanno lasciato il college per fare impresa, Cucinelli è convinto che qualche lettura sparsa e una totale assenza di sindrome dell’impostore sia sufficiente per supplire all’assenza di istruzione formale: pensa che chi ha successo in una nicchia possa - anzi debba - discettare di destini dell’umanità, di etica, di filosofia, di storia romana, di tutto, insomma. E dare importanti lezioni agli altri su come vivere la propria vita.
A Repubblica Cucinelli dice che per lui “bisogna studiare il giusto, e anche un po’ meno: c’è un'intelligenza che viene dallo studio e una dall’anima”. E già risposte così dovrebbero far sollevare un sopracciglio al giornalista, o almeno al caporedattore che guarda la pagina. Ma l’inserzionista non si contraddice.
Il primo a soffrire per questa indulgenza verso la banalità (per non dire la pericolosa falsità) di certe affermazioni è il lettore, ma la seconda vittima è lo stesso Cucinelli, che non sembra una cattiva persona, soltanto è abbastanza ricco e generoso da non trovare più nessuno che gli spieghi che non c’è niente di più imbarazzante dell’ostentazione di una cultura che non si padroneggia.
Soltanto ai molto ricchi è concesso dire banalità presentate come verità oracolari.
Ma Cucinelli - come tanti imprenditori italiani dello stesso tipo, in una costante ricerca di legittimazione sociale e intellettuale - insegue gli applausi: porta nella sua tenuta un po’ di miliardari e imprenditori, sempre felici di scroccare un weekend in Umbria a inizio estate, e tanto gli basta per sentirsi un esponente della ruling class globale. O forse perfino un ideologo.
C’è da dire, a difesa di Cucinelli, che non si tratta di una posa per i giornali: questa retorica che vorrebbe essere colta e con sfumature medievali, in stile Roberto Benigni quando declama Dante, l’imprenditore del cachemire non la riserva soltanto ai giornalisti costretti dalle concessionarie di pubblicità a presenziare ai suoi ricorrenti simposi umbri.
Le sue disquisizioni sul “capitalismo umanistico” occupano intere pagine perfino del verbale dell'assemblea degli azionisti della sua società quotata in Borsa e con 1,1 miliardi di fatturato, il bilancio si apre con una citazione di Cucinelli che introduce una lettera di Cucinelli - scritta assieme all’intelligenza artificiale - che si chiude con una citazione non meglio specificata (si immagina di Cucinelli): “… Possa sempre il Creato illuminare il nostro cammino”.
Tutto il gergo aziendale dovrebbe trasmettere i valori che Cucinelli professa ogni volta che il suo budget pubblicitario glielo consente, di solito rivolto a persone che gli devono lo stipendio e non possono far altro che ascoltare.
Perfino le risorse umane in azienda vengono chiamate “umane risorse”, che non si sa se è una traduzione troppo letterale di “human resources” o vorrebbe evocare qualche concetto più profondo.
Nel suo verboso bilancio Cucinelli spiega che il gruppo aspira a una “comunicazione silenziosa e raffinata” che costruisce rapporti “speciali” e “unici” con gli “amici” del brand (c’è anche un’esuberanza di virgolette): con un budget per comunicazione e pubblicità da 43 milioni di euro nel 2023, in notevole aumento rispetto ai 28 del 2022, di amici “speciali” se ne possono conquistare parecchi.
La strategia indicata nel bilancio è questa: coltivare non soltanto la stampa specializzata, ma anche quella generalista, in modo da valorizzare “sia il prodotto, quale sintesi della nostra idea di modernità e contemporaneità, sia quel modo ‘amabile’ che vorremmo caratterizzasse sempre la nostra relazione”.
A vedere gli esiti di questa strategia di comunicazione sembra che il risultato più tangibile sia di valorizzare, oltre al brand, anche il fondatore, che appare ovunque, e celebra i premi ricevuti - come quello da GQ China - anche in tutti i documenti societari.
Ora, quella del gruppo Cucinelli è sicuramente una storia di successo: vi risparmio l’epica familiare sugli opifici di Solomeo - la trovate decantata sui siti corporate e in ogni testata nazionale - con 766 milioni di fatturato al 31 dicembre 2023 e 108 milioni di utile netto (non so perché online e nella versione in inglese del bilancio si trova invece 1,1 miliardi). Avercene di imprese così.
Quello che è difficile da digerire nella retorica di Cucinelli è la presentazione del successo in un settore antico - il tessile - come una storia contemporanea o un modello da seguire: nicchie per l’alta moda ci saranno sempre, soprattutto fuori dall’Italia (in patria il gruppo fattura solo 140 milioni).
Ma la vicenda del 70enne Cucinelli può essere un modello per qualcuno?
Narrazione ipnotica
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