La sorella maggiore
VITA-LAVORO La rubrica di Valeria Croce racconta le vostre storie e la ricerca di un equilibrio- forse impossibile - tra vita privata e professionale
Quando Mariapaola torna in ufficio dopo la gravidanza, realizza che quel lavoro non è più la sua priorità. E che la sua famiglia – i genitori anziani prima, il figlio piccolo poi – aveva bisogno di lei più di prima. Delle sue cure, delle sue attenzioni, del suo tempo
Valeria Croce
Buongiorno e buona domenica a tutte e tutti,
oggi torna finalmente la rubrica di Valeria Croce Vita-Lavoro, con storie di equilibri faticosi, talvolta riusciti, tra il tempo dedicato alla carriera, o comunque a guadagnarsi uno stipendio, e quello per la famiglia e il resto.
Se avete storie da condividere con Valeria, che oltre a essere un’ottima raccontatrice è una attenta ascoltatrice, trovate i suoi contatti in fondo al pezzo.
Prima di procedere, però, un aggionramento su una vicenda di cui si sono occupati tutti a febbraio, ne ho scritto anche io qui: il suicidio della ristoratrice di Lodi, Gioanna Pedretti.
In un pezzo su Appunti avevo spiegato le mie perplessità sul ruolo dei media in quella storia, prima di tutto dei media tradizionali, che avevano innescato un’attenzione inspiegabile su una vicenda che non aveva carattere di notizia (una risposta a una recensione, forse falsa, omofoba e volgare).
Il grosso dell’attenzione era stata sul ruolo di Lorenzo Biagiarelli e Selvaggia Lucarelli che si erano occupati della storia dopo che la bolla social e mediatica si era gonfiata. A loro veniva imputata la decisione della signora di suicidarsi all’apice di una polemica che nel giro di un paio di giorni le aveva dato una visibilità difficile da gestire.
Ora la procura di Lodi ha chiesto l’archiviazione dell’indagine per istigazione al suicidio: non ci sono responsabilità di terzi nella scelta di Giovanna Pedretti, ma stando a quanto riporta l’Ansa, la recensione era effettivamente falsa.
Io resto dell'opinione espressa a suo tempo: questa storia ci dice molto sul giornalismo.
I giornali che pretendono di dare lezioni di etica professionale hanno prima gonfiato una vicenda priva di ogni dignità di notizia - se anche fosse che una ristoratrice si vuole fare pubblicità segnalando che gli omofobi non sono benvenuti nel suo locale, che male ci sarebbe? - e poi hanno dato per scontato un nesso causa-effetto tra l’intervento di Biagiarelli e Lucarelli e la morte della signora. Un nesso che, dice la Procura, non c’è.
La storia non meritava tanta attenzione, neppure da parte di Biagiarelli e Lucarelli che hanno un notevole potere di agenda setting, cioè di stabilire le priorità della discussione, ma certo non hanno innescato loro la valanga, anche se il fatto che si siano occupati della bolla di attenzione intorno alla notizia ha generato altra attenzione e altro giornalismo irresponsabile.
A distanza di qualche mese, la tragedia della signora verrà finalmente circondata dal silenzio rispettoso che avrebbe meritato da subito. Un silenzio nel quale si noterà l’assenza di ogni autocritica.
Buona domenica,
Stefano Feltri
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Vita-Lavoro – Numero 3: Mariapaola
di Valeria Croce
“Avevo un fratello di quattordici anni più grande di me. È morto a quarantotto anni, colpito da un mieloma multiplo, dopo tre mesi di ospedale.
Il giorno in cui ho compiuto quarantotto anni e un giorno, ho realizzato che per la prima volta nella mia vita sarei stata più vecchia di mio fratello, che nel mio immaginario era sempre stato più grande. E ho capito che il tempo passa veloce ed è prezioso, e quindi se c’era qualcosa nella mia vita che non mi faceva stare bene, dovevo cambiarla”.
Mariapaola vive a Reggio Emilia, questo mese compirà cinquant’anni.
Dal 2001 lavora come impiegata nell’ufficio materie prime di Max Mara. Si occupa dell’acquisto dei fili con cui l’azienda realizza i capi in knitwear per i marchi Pennyblack e MAX&Co. Prende 1.850 euro netti al mese più i benefit, tra cui l’assicurazione sanitaria.
Alle superiori ha studiato ragioneria, forzata dai genitori (“perché andare al liceo?”, le dicevano, “assicurati prima di saper fare un mestiere”), poi qualche esame a Scienze Statistiche, per approdare però poco dopo nel mondo del lavoro. “Lavoro che negli anni Novanta ti veniva a cercare”, ricorda Mariapaola, “che anzi ti potevi scegliere”.
Da allora ha sempre avuto contratti a tempo indeterminato come impiegata, fino a quello offertole nel 2001 da Max Mara, la grande azienda della sua città.
“Cosa avrei potuto desiderare di più?”
Nuove priorità
A quarantacinque anni, però, Mariapaola resta incinta del suo primo figlio. E quando, dopo la nascita di Diego, rientra in azienda, alcune cose sono cambiate: sia a lavoro, che nella sua vita.
Il suo capo, che era il suo principale riferimento, nel frattempo è andato in pensione e di conseguenza Mariapaola è stata cambiata di ruolo. I colleghi che stimava un po’ alla volta si sono recati altrove, e in generale le cose in azienda sono cambiate dal punto di vista organizzativo.
D’un tratto, per Mariapaola lo stipendio fisso e il luogo prestigioso non sono più abbastanza. Dopo molti anni, sente che quell’ambiente non le appartiene più.
“Lavoravo in un settore tutto sommato ancora molto protetto, che però per me non era più stimolante”, racconta. “Il mondo era cambiato, dentro e fuori di me, e quel lavoro non era più in armonia con quelle che per me erano le cose belle. Con quelle che avevo capito essere le mie esigenze e i miei valori”.
Quando Mariapaola torna in ufficio dopo la gravidanza, realizza che quel lavoro non è più la sua priorità. E che la sua famiglia – i genitori anziani prima, il figlio piccolo poi – aveva bisogno di lei più di prima. Delle sue cure, delle sue attenzioni, del suo tempo.
“Dalle quattro di pomeriggio, dal momento in cui sapevo che mio figlio usciva dall’asilo e lo andava a prendere la babysitter o andava al tempo lungo, io non riuscivo più a stare lì dentro. Per me era una tortura, una cosa non giusta. Io non dovevo star lì”.
Mariapaola compie quarantotto anni e una mattina, svegliandosi, realizza che sarebbe presto diventata più grande di suo fratello maggiore. È in quel momento che capisce di aver bisogno di un cambiamento che non può più essere rimandato.
La difficoltà nel conciliare i bisogni e gli impegni dettati dalla sua nuova vita, unita alla mancanza di stimoli spingono Mariapaola a prendere una decisione: rinunciare al tempo pieno e passare ad un impegno a tempo ridotto.
La sua azienda, per la quale lavora da ormai più di vent’anni, le dice di non concedere part-time, quindi Mariapaola, che è spinta anche da altre motivazioni oltre che dalla ricerca di un minor monte ore settimanale, cerca un impiego in un settore del tutto nuovo, in un settore che potesse anche farla tornare a percepire il senso, il valore e l’utilità del proprio lavoro.
Oggi Mariapaola collabora con una Onlus che si occupa di servizi di progettazione per persone con disabilità. L’associazione è composta prevalentemente da architetti e geometri, che ridisegnano e ristrutturano gli ambienti in funzione delle esigenze di tutti, rendendoli idonei e accessibili anche a persone con diversità fisiche o di apprendimento.
“Adesso lavoro in un ambito meraviglioso”, dice sorridendo, “che si occupa delle persone”.
Ma il settore non è stata l’unica cosa a cambiare nel suo nuovo lavoro (e nella sua nuova vita): adesso Mariapaola ha un contratto precario, guadagna 900 euro lordi al mese e non ha più nessun tipo di benefit.
“Però lavoro nel mio quartiere, dalle 9 alle 13, e ho molta elasticità: posso gestire il mio tempo e decidere di collegarmi anche da casa”.
“Un cambiamento drastico”, dico a Mariapaola e la sua voce mi sembra felice mentre mi risponde che sì, lo è stato. Ma che a un certo punto ha capito che la scelta era tra il rinunciare alla sicurezza economica o alle cose che la facevano stare bene.
“Perché la rinuncia non è stata tanto il guadagno maggiore quanto la stabilità, la sicurezza. Io adesso ho un contratto che scade ad agosto e non so se mi verrà rinnovato o no. Non perché non abbia fiducia nelle persone che lavorano con me, ma perché è la realtà stessa che dipende dai finanziamenti, dai progetti che ottiene. È stata questa la vera rinuncia, quello che più mi manca del mio vecchio lavoro: il poter progettare a distanza di anni”.
Il privilegio della rinuncia
Mariapaola però sa di essere stata, nel compiere una rinuncia, una privilegiata: “Ho un compagno che lavora, quindi mio figlio di fame non muore. Pochi mesi prima che Diego nascesse, è venuto a mancare anche mio papà e quel poco che i miei genitori avevano – una casa e qualche investimento – mi permettono di vivere qualche anno tranquilla in questa condizione”.
“Certo”, ammette, “se ho voglia di andare a comprarmi un cappotto da mille euro non lo posso più fare. Ma non mi interessa più”.
Se non tutte le donne hanno lo stipendio di un partner su cui poter fare affidamento, o un piccolo – o grande – patrimonio da parte a cui attingere in caso di bisogno, molte si ritrovano comunque, alla nascita di un figlio, a dover compiere una scelta simile a quella di Mariapaola.
Come ricorda infatti Francesco Armillei, dottorando in economia presso l’Università Bocconi e ricercatore del think-tank Tortuga, in Italia nel 2023 il 19 per cento dei lavoratori dipendenti aveva un contratto di lavoro part-time, ma questa percentuale sale al 32 per cento tra le donne (mentre si ferma al 7 per cento tra gli uomini).
“Se andiamo a guardare poi i numeri a seconda del tipo di nucleo familiare, scopriamo una fotografia ancora più profonda: hanno un lavoro part-time il 23 per cento delle donne single, il 28 per cento delle donne non single ma senza figli, e ancora a salire il 35 per cento delle donne single e non single ma con figli”.
La maggiore incidenza del part-time che si registra tra le donne rispetto agli uomini e, in particolare, tra le donne con figli, è spiegata in circa la metà dei casi da una scelta volontaria da parte delle lavoratrici. La restante metà, invece, avrebbe voluto un contratto di lavoro full-time ma non è riuscita a trovarlo.
“Tra le lavoratrici che il part-time lo hanno scelto, una donna su tre dichiara di averlo fatto per prendersi cura dei figli o di altri familiari, mentre un altro terzo afferma di averlo fatto in generale per motivi familiari".
L’arrivo di un figlio è un evento con un forte impatto sulle scelte lavorative delle donne, in Italia e non solo. “Negli ultimi anni la ricerca economica ha fatto importanti passi avanti nell’indagare le conseguenze della nascita del primo figlio sulle carriere lavorative delle donne”, prosegue Armillei, “e si è arrivati a parlare di child penalty per riferirsi al gap tra il reddito delle lavoratrici che scelgono di diventare mamme e quelle che non compiono questa scelta”.
Per l’Italia, la child penalty è stata quantificata nel dettaglio in uno studio dei ricercatori Alessandra Casarico e Salvatore Lattanzio, pubblicato nel 2023. La Figura 1, tratta dallo studio, mostra l’andamento, rispetto all’anno precedente alla nascita, del reddito da lavoro dipendente delle neo-mamme e di lavoratrici a loro simili – in termini di età, competenze e salari – ma che non hanno avuto figli: si vede a occhio nudo il brusco calo del reddito nei due anni successivi alla nascita. Calo da cui poi, come è evidente dal grafico, non ci si riprende mai del tutto.
Nel complesso, a 15 anni dal parto i salari annuali delle mamme crescono del 52 per cento in meno rispetto a quelli delle loro simili ma senza figli: quasi un quarto di questa riduzione è spiegato dal maggiore utilizzo di contratti part-time.
La Figura 2 mostra infatti come il ricorso al part-time aumenta di quasi 20 punti percentuali nei primi 2-3 anni dal parto, e arriva a superare i 30 punti in più a 15 anni dalla nascita: un’espansione di quasi tre volte superiore rispetto a quella delle non-mamme.
Questione di scelte
Se stavolta – a differenza di quanto abbiamo visto nel caso di Daniele, raccontato nello scorso episodio di Vita-Lavoro – Mariapaola rientra perfettamente all’interno di queste statistiche, vale la pena ribadire che anche la sua storia conferma come ogni esperienza sia in realtà diversa, a sé stante e non solo un numero tra gli altri. Come ogni vicenda presenti sempre le sue peculiarità, che anche in questo caso vogliamo ricordare.
In primo luogo, il fatto che la scelta di dedicare più tempo alla cura della famiglia, a discapito delle ore destinate al lavoro sia stata, appunto, una scelta. E che se è vero che circa il 50 per cento delle donne con un contratto part-time ha deciso di averlo, non in tutti questi casi si può davvero parlare di “scelta”, se non definendola, quanto meno, una scelta obbligata. Mariapaola aveva a disposizione delle alternative (pagare una babysitter, mandare il figlio al tempo lungo a scuola), che non tutte le madri, e in generale tutte le donne che svolgono lavori di cura, hanno.
Poi, seppur in questo caso la nostra bilancia (vita-lavoro) pendesse nettamente dal lato della “vita”, è importante ricordare che alla base del cambiamento messo in atto da Mariapaola c’erano anche, come per Daniele, delle forti motivazioni legate alla professione, alla sua dignità e alla gratificazione che ne deriva. E che in entrambi i casi queste percezioni erano connesse al desiderio di agire a beneficio della società e delle altre persone.
Oggi Mariapaola sta per compiere cinquant’anni e ogni giorno, alle quattro del pomeriggio, è davanti al cancello dell’asilo ad aspettare suo figlio che esce da scuola. Quando ripensa a quel momento, al momento in cui ha capito che voleva cambiare, l’unica cosa che riesce a dirsi è che avrebbe dovuto farlo prima. “Ma ognuno è pronto nel momento in cui è pronto”, dice anche, “pazienza”.
Adesso Mariapaola è più serena, più felice e vorrebbe che suo figlio, un giorno, avesse il suo stesso coraggio (e la sua stessa fortuna). “Il coraggio e la fortuna di scegliere un qualcosa per cui secondo lui valga la pena di alzarsi al mattino”.
The power to begin again / from right now, cantano i Faithless in We come 1, la canzone che Mariapaola associa a quel momento.
“Quando è uscita quella canzone tu forse eri nata da poco”, mi dice, “io invece iniziavo allora ad affrontare la vita. Ho sentito il bisogno di riascoltarla dopo vent’anni, nel momento in cui ho avuto il coraggio di fare quello che non avevo fatto prima, quando era tutto molto più semplice e ci si interrogava meno sul dove si stesse andando e sul cosa si stesse facendo. Erano i primi anni 2000, io mi sentivo felice e con la vita tutta nelle mie mani”.
“Volevo risentirmi in quel modo”, ricorda, “e in effetti mi ci sono sentita. Forse anche più di allora”.
Prima di salutarla, le chiedo un’ultima volta di suo fratello. Le chiedo se adesso è finalmente diventata lei, la sorella maggiore.
“Sì”, risponde Mariapaola, “adesso sono cresciuta. Sono diventata più grande”.
Non “la più grande”. “Più grande”, dice. E io non le domando oltre.
Questa era la storia di Mariapaola, del cambiamento lavorativo che la vita, a un certo punto, le ha richiesto di fare. Se vuoi raccontare la tua di storia, di come il lavoro ha cambiato la tua vita o di come, viceversa, la vita – e più in generale tutto ciò che vi accade intorno – ti ha portato a cercare un cambiamento lavorativo, rispondi a questa newsletter o scrivimi a valeriacroce96@gmail.com.
Lo racconteremo ai lettori e alle lettrici di Appunti.
Bello questo articolo!
Detto banalmente: nella vita ci sono compromessi e la coperta e' corta per tutti. Decidere se coprirsi la testa o i piedi e' una scelta personale (anche se a volte nei fatti e' imposta). La paura del cambiamento e il quotidiano a volte ti bloccano a correre nella ruota dentro la gabbietta.
A volte serve un evento "critico" per rompere questo equilibrio e costringersi a vedersi da fuori della scatola per arrivare - non sempre - alla conclusione che e' tempo di cambiare.
Una storia molto interessante ma che temo riveli una sola grande verità da cui ci teniamo sempre lontani con orrore: non si può avere tutto. Uno stipendio alto e un lavoro di quattro (quattro!) ore giornaliere e la soddisfazione lavorativa eccetera. Temo che (eccessi e scorrettezze a parte, ovviamente) le aziende investano di più su chi si dedica di più al lavoro: la trovo ahimè una dinamica comprensibile.