In attesa del 2228
Ci vorranno ancora 204 anni per arrivare a una parità tra uomini e donne nell’uso del tempo, tra lavoro di cura e quello remunerato. Intanto c’è molto che si può fare
Circa il 40 per cento delle famiglie italiane ancora oggi segue il tradizionale modello in cui l’uomo è l’unico responsabile del reddito familiare e la donna si dedica alle attività domestiche e di cura, con una diffusione capillare specialmente al Sud del paese
Alessandra Minello e Tommaso Nannicini
Buongiorno a tutte e tutti,
oggi c’è un pezzo che per me è particolarmente interessante perché parla di genitori, di uso del tempo, di equilibri familiari. Una categoria e delle grandi questioni che da qualche mese mi sono ben familiari.
Alessandra Minello e Tommaso Nannicini hanno scritto per Feltrinelli il libro Genitori alla pari, di cui qui condensano l’analisi e le proposte.
La destra al potere è ossessionata dall’inizio della vita e dalla fine, si preoccupa molto di embrioni e di persone afflitte da sofferenze senza prospettiva. Ma ben poco di quello che c’è in mezzo.
La sinistra ha molti slogan e poche proposte: inutile parlare di parità di genere soltanto sul piano del linguaggio (desinenze, maschili sovraestesi) senza preoccuparsi delle politiche necessarie a realizzarla.
Diventare genitori significa tradurre molte discussioni teoriche in scelte concrete, di tempo, di carriera, di ambizioni o sacrifici, di priorità. E questo carico di scelte - talvolta obbligate - finisce per pesare soprattutto sulla mamma, per ragioni molto più culturali e sociali che biologiche, come spiegano bene Minello e Nannicini.
Se i problemi sono ben noti, per la prima volta da molto tempo si intravedono anche segnali di un cambiamento possibile: lo smart working ha introdotto una nuova possibilità di impostare i rapporti di lavoro, che offre molte opportunità, e che rende alcune tutele obsolete ma altre più necessarie; l’ingresso nel mondo del lavoro di una generazione che dà un valore più alto agli equilibri tra vita privata e carriera condiziona già la cultura e le scelte di molte aziende; la pandemia ha dimostrato quanta parte del tempo sprecato in trasferte e riunioni potesse essere risparmiata.
Sul Financial Times il sociologo Guy Standing ha introdotto una distinzione fondamentale, tra il tempo passato al lavoro e quello a lavorare: si perde moltissimo tempo in tante occupazioni, tempo sottratto ad altro.
Perde tempo il rider che aspetta la commessa, ma anche l’impiegato che deve fare corsi di aggiornamento obbligatori è al lavoro ma non sta lavorando; per non parlare di quelli che devono rimanere in ufficio un minuto più del capo, per non sembrare scansafatiche anche se non hanno molto da fare. Costringiamo perfino i disoccupati a impiegare il loro tempo come se lavorassero, a inviare curriculum, a mettersi in fila al centro per l’impiego ecc.
Recuperare tempo e dividerlo in modo equo tra uomini e donne, tra generazioni, tra persone che vivono in paesi diversi.
Questa è la grande sfida politica, e per affrontarla servono persone competenti e con un’idea chiara di quale idea di società vogliono costruire, proprio come Minello e Nannicini.
Se avete storie di equilibri familiari faticosamente costruiti o naufragati, sarei curioso di leggerle nei commenti.
Alessandra Minello è ricercatrice in Demografia al dipartimento di Scienze statistiche dell’Università di Padova. Studia le differenze di genere in Italia e in Europa negli ambiti della scuola, della famiglia e del lavoro. È autrice di Non è un Paese per madri (Laterza, 2022) e ha curato “Le equilibriste” (Save the Children 2023 e 2024).
Tommaso Nannicini è professore di Economia politica all’Istituto Universitario Europeo. Ha insegnato all’Università Bocconi, ad Harvard e alla Carlos III di Madrid. Ha pubblicato su numerose riviste internazionali, tra cui l’American Economic Review e l’American Political Science Review. È stato sottosegretario alla Presidenza del consiglio nella XVII legislatura e senatore nella XVIII.
Buona giornata,
Stefano
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Essere genitori alla pari
di Alessandra Minello e Tommaso Nannicini
Pensiamo a tutte le volte che abbiamo incontrato una disparità di genere nel mercato del lavoro: donne che lavorano meno degli uomini, fanno più part-time involontario, hanno più contratti precari, stipendi più bassi. Nell’80 per cento dei casi, questi divari hanno una sola causa: avere un figlio. Figlio che, però, di solito, si fa in due.
Eppure le stime di alcuni economisti, Henrik Kleven, Camille Landais e i loro coautori, sono chiare. Da anni calcolano la child penalty, il costo in termini lavorativi di avere un figlio, e i risultati sono netti: il prezzo che pagano le madri lavoratrici è alto non solo nell’immediato, ma anche dopo dieci anni.
Naturalmente, il divario cambia molto da Paese a Paese – per esempio, in Europa è più basso nei Paesi scandinavi che in quelli mediterranei – ma ovunque, a qualsiasi latitudine, mostra una caratteristica ferrea: la genitorialità ha un costo maggiore per le donne rispetto agli uomini. Anzi, in alcuni Paesi per gli uomini il costo diventa un beneficio: la child penalty diventa un child premium, un vantaggio in termini di carriera e stipendio. Perché?
La ragione è, purtroppo, banale. Dopo la nascita di un figlio, ci si aspetta che per la donna il tempo sottratto al lavoro per dedicarsi alla famiglia aumenti, mentre dagli uomini ci si aspetta che moltiplichino gli sforzi per soddisfare le accresciute esigenze economiche familiari.
I nostri modelli di stato sociale (per esempio, i congedi parentali) o di organizzazione del lavoro (orari e gerarchie) sono plasmati attorno a queste aspettative sociali. Aspettative che niente hanno a che fare con la biologia, ma molto con la cultura e, senza girarci troppo intorno, con l’organizzazione patriarcale che regge la nostra società.
È per questo che abbiamo scritto Genitori alla pari. Tempo, lavoro, libertà. Per mettere a fuoco queste dinamiche, le cause di queste disparità di genere e proporre possibili soluzioni.
Siamo ben consapevoli dell’importanza delle disparità non legate alla genitorialità, del fatto che ci sono famiglie che più di altre hanno fragilità da affrontare e che la genitorialità possa non essere parte del percorso di vita, anche per scelta.
Con questa consapevolezza proviamo però a concentrarci sulle scelte politiche necessarie per aggredire quell’80 per cento di divari di genere spiegati dal costo (lavorativo) di fare un figlio, perché, a fronte di un contesto politico in cui molto si parla di maternità e denatalità, ci pare la questione non venga mai affrontata complessivamente e con uno sguardo ampio.
Un affare da donne?
Per affrontare la questione è inevitabile decostruire il “mito della madre”. Donna uguale cura: è questa l’equazione – errata – su cui si basa la nostra cultura collettiva tradizionale.
Sono molte le ragioni per cui la cura viene percepita come un “affare da donne”, con tutte le conseguenze che questo comporta. Alcune di queste ragioni sono culturali, ma poi hanno effetti concreti, trasformandosi in conseguenti strutture di welfare e organizzazione del lavoro, arcaiche e patriarcali. Nel nostro libro, discutiamo di come innovarle per superarle.
Circa il 40 per cento delle famiglie italiane ancora oggi segue il tradizionale modello in cui l’uomo è l’unico responsabile del reddito familiare e la donna si dedica alle attività domestiche e di cura, con una diffusione capillare specialmente al Sud del paese. Questo concetto si è radicato nei ruoli di genere per generazioni, con le donne percepite come naturalmente predisposte alla cura e alla gestione delle relazioni interpersonali.
Eppure già nel 1978 la sociologa e psicanalista statunitense Nancy Chodorow dimostrava l’assenza di prove empiriche di una diversità biologica tra donne e uomini che potesse tradursi in una diversa attitudine alla cura.
Nemmeno l’impossibilità maschile di partorire e allattare giustifica la mancanza di condivisione di tutti gli altri comportamenti legati alla cura. Si pensi a come la cura è concepita e ripartita in maniera più equa nelle famiglie omoaffettive. E invece, fin dalla tenera età, bambine e bambini vengono socializzati in ruoli e attività di genere distinti, in cui alle ragazze vengono insegnate abilità legate alla cura e alla gestione delle relazioni, mentre i ragazzi vengono spinti verso attività più orientate all’azione e all’indipendenza. Qui si vede la cultura in azione, la spinta a mantenere la madre regina della casa, impedendo un riequilibrio dei ruoli.
Più equilibrio
La cultura, per fortuna, evolve, anche se lentamente. Le indagini sull’uso del tempo a livello mondiale mostrano che le nuove generazioni di padri spendono più tempo del passato nelle attività di cura familiare.
Le indagini sui valori evidenziano che le nuove generazioni di uomini (Millennials, Generazione Z) sono più proiettate verso l’equilibrio tra i generi nella distribuzione tra lavoro di cura e lavoro retribuito, tengono alla famiglia (anche se non danno un gran peso al matrimonio), valorizzano di più la paternità rispetto al passato, attribuiscono minor valore alla professione come ambito di realizzazione di sé e danno più peso ai valori comunitari.
Mentre la politica rafforza il concetto di madre come centro della famiglia, nei media si fanno notare esempi di coppie paritarie, di padri presenti, di uomini capaci di mettere in discussione l’idea dominante di mascolinità. Il fatto che questi esempi si notino è una buona notizia, ma non buonissima: sono ancora eccezioni, sono ancora la deviazione dalla norma.
Come fare per spingere questo cambiamento? Come portare la parità nel mercato del lavoro, ma anche nelle case?
L’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha stimato che ci vorranno 204 anni prima di arrivare a registrare statisticamente le stesse ore impiegate da donne e uomini nel lavoro retribuito e in quello non retribuito. Solo nell’anno 2228, infatti, si realizzerà la parità nell’uso del tempo.
Questo non significa che in tutte le case sarà così, anzi, le disparità saranno sempre molte, e tutto lascia pensare che nel nostro Paese saranno più vivide che altrove anche tra 200 anni.
Ma il cambiamento può essere accelerato, e il nostro libro spiega come, rimuovendo i fattori politici e sociali che lo rallentano. Lo fa proponendo una rivoluzione nelle politiche pubbliche, partendo da congedi di maternità e paternità perfettamente paritari, più generosi e inseriti in un sistema di politiche fiscali e servizi territoriali integrati per il sostegno alla genitorialità, che facciano sì che l’uso dei nuovi congedi sia effettivamente paritario.
Impossibile? Non lo è se si guarda all’estero. E non c’è bisogno di guardare alla fredda Finlandia. Anche nella più calda e mediterranea Spagna, spesso accomunata al nostro Paese per i tratti patriarcali della propria cultura collettiva, la rivoluzione è in atto, grazie alla coraggiosa riforma del governo Sanchez che ha introdotto 16 settimane di congedi non trasferibili per le madri e per i padri.
Congedi paritari
Sull’onda del modello della Spagna, il cui caso di studio analizziamo in dettaglio nel libro, ma adattandolo al sistema culturale italiano, proponiamo una riforma dei congedi che fa leva su alcuni elementi imprescindibili e che si estende a tutte le famiglie, auspicando una genitorialità estesa al di là delle sole coppie eterosessuali.
Perfetta parità. La riforma deve stabilire congedi di genitorialità assolutamente paritari tra tutti i genitori, indipendentemente dal genere. Questo significa che i genitori hanno diritto allo stesso periodo di congedo, con le stesse condizioni e benefici.
Estensione a tutti gli adulti di riferimento. La riforma riconosce la diversità delle strutture familiari e si estende a tutti gli adulti di riferimento (non necessariamente i genitori, se questi non possano o non vogliono usufruirne).
Indennità di genitorialità generose. I congedi devono essere agganciati a un’indennità economica generosa, con la componente obbligatoria coperta al 100 per cento del reddito da lavoro e quella facoltativa almeno all’80 per cento (attualmente la prima per le madri ha una copertura dell’80 per cento, mentre la seconda è del 30 per cento).
Questo sia per ragioni di giustizia sociale (nessuna persona deve essere costretta a scegliere tra avere un reddito e prendersi cura dei figli), sia per ragioni di genitorialità condivisa (dato che è dimostrato che la condivisione avviene di più quando non implica rinunce allo stipendio).
Non trasferibilità dei congedi di maternità e paternità. I congedi devono essere non trasferibili tra i genitori, per incentivarne un uso equo e promuovere una vera condivisione delle responsabilità familiari.
Flessibilità nell’utilizzo. I congedi devono essere flessibili nelle modalità di utilizzo, per permettere ai genitori di adattarli alle loro esigenze. Tuttavia, anche alla luce delle esperienze internazionali, devono essere salvaguardati periodi minimi nei quali entrambi i genitori agiscono come caregivers principali, evitando sovrapposizioni e promuovendo una cura condivisa e attiva. I padri non devono essere turisti della cura, ma parteciparvi attivamente.
Attenzione verso le famiglie monogenitoriali e quelle in cui sono presenti figli con disabilità. Riconoscendo le difficoltà aggiuntive che possono trovarsi ad affrontare, per queste famiglie devono essere previste misure più generose.
Le politiche pubbliche possono essere il volano della trasformazione che auspichiamo. Ma da sole non bastano. Siamo partiti dal tempo e col tempo finiamo. La rivoluzione che auspichiamo nella genitorialità necessita di politiche pubbliche che accompagnino i cambiamenti culturali in atto. Ma ha bisogno anche di una diversa organizzazione del lavoro che liberi il tempo delle persone.
Per dirla con Claudia Goldin, premio Nobel per l’economia nel 2023, la grande convergenza tra uomini e donne vivrà il suo “capitolo finale” quando i datori di lavoro la smetteranno di remunerare eccessivamente gli individui che lavorano tante ore, in certe particolari fasce orarie e con disponibilità senza limiti.
Il tempo deve essere remunerato (e bilanciato) diversamente, per tutte e per tutti. A questo dobbiamo puntare per avere Genitori alla pari.
Appunti e Dieci Rivoluzioni: il libro e l’abbonamento omaggio
Visto che in questa fase non riesco a fare molta della tradizionale promozione del libro - tra festival, tv, radio ecc - per gli impegni di lavoro e familiari, vorrei tentare un esperimento, legato alla comunità di Appunti.
Se gli influencer si appellano alla loro comunità per vendere i loro libri, o altra oggettistica, non posso farlo anche io?
Ho pensato questa formula, che - come direbbero gli aridi economisti - allinea tutti i nostri incentivi:
Se comprate il mio libro Dieci rivoluzioni, poi fate(vi) una foto mentre lo leggete, mentre lo sfogliate, mentre lo regalate a qualcuno: me la mandate qua su Appunti o su Instagram e io attiverò un abbonamento omaggio ad Appunti di sei mesi all’indirizzo mail che mi indicherete. E poi condividerò le vostre foto qui e dai miei social.
Così anche chi ha già l’abbonamento può approfittarne e regalare un ingresso tra gli abbonati di Appunti a qualcuno a cui tiene.
Qui c’è Roberto Seghetti, che su Appunti ha scritto un bel pezzo sul “senso delle tasse” basato sul suo libro appena uscito
Il Podcast: La Confessione
Ascolta La Confessione, il podcast di inchiesta che rivela per la prima volta da dentro come funziona il sistema di copertura e insabbiamento degli abusi sessuali nella Chiesa cattolica italiana.
Un podcast realizzato da Stefano Feltri, Giorgio Meletti e Federica Tourn, realizzato grazie al sostegno della comunità di Appunti. Con la collaborazione di Carmelo Rosa e la consulenza per musiche ed effetti di Stefano Tumiati.
Sono una ragazza incinta e lavoro a Modena in un'azienda svedese. La maternità (e la paternità) è vista come una naturale fase della vita. Il mio manager svedese si è fatto 6 mesi di paternità per ognuno dei suoi 3 figli. Le mie amiche e conoscenti che lavorano in azione con mentalità italiana? Ho sentito diverse casi. Ti fanno firmare un contratto a tempo determinato se vuoi il part-time, ti invitano a dimezzare le ore lavorative (part time forzato), ti lasciano a casa se sei incinta e hai il contratto in scadenza. Per non parlare del fatto che in poche aziende ancora hai flessibilità oraria e possibili di home working. Come diceva Michela Murgia "l'Italia è un paese in cui devi fare figli come se non lavorassi e devi lavorare come se non avessi figli".
Sono una donna che lavora da 36 anni ho due figlie e mi indegno quando penso che la generazione delle ragazze che ora hanno 29 e 23 anni come le mie figlie stiano ancora combattendo per questa parità e per vedersi riconoscere diritti e sostegno dalla politica che parla e non fa. Per questi problemi si andava in piazza nel 68. Adesso ci si indegna se uno protesta. Ma signori seduti al governo e alla opposizione forse non avete presente che le vostre scelte o il nostro non mettere in atto politiche a sostegno delle famiglie condiziona la nostra vita e tristemente anche quella dei nostri figli. È troppo lento il mutare delle cose é troppo lento. Dobbiamo far capire che abbiamo urgenza di leggi che ci sostengano, di datori di lavoro illuminati. Basta slogan. Grazie Stefano per tenere alta l attenzione sull argomento. Nel leggerla ti pensavo indaffarato tra articoli illuminanti e cambi di pannolini. Tua figlia avrà un ottimo esempio. Agli autori dell articolo che dire..... Perché nessuno vi ascolta seriamente. Grazie