Il senso delle tasse
Il giornalista Roberto Seghetti prova a sfidare il pensiero magico che si è affermato in materia fiscale in questi anni, non solo per colpa di Berlusconi: le imposte sono sgradevoli, ma fondamentali
Negli ultimi quaranta anni ha prevalso l’idea che basti abbassare le tasse perché tutto funzioni al meglio, l’economia cresca, la ricchezza si espanda e tutti stiano meglio, compresi i meno abbienti. Non è così
Roberto Seghetti
Buongiorno,
vi scrivo mentre sono in viaggio per Torino, diretto al Salone del Libro, dove presenterò domani pomeriggio il mio libro Dieci rivoluzioni (Utet) con la scrittrice Letizia Pezzali. Stasera tappa al carcere di Asti, per discuterne con i detenuti, un’occasione preziosa di cui cercherò di dare conto anche qui su Appunti.
Qui il promemoria per domani, per chi sarà al Salone e vuole passare:
Ha suscitato grande interesse il mio pezzo su Giovanni Toti e lo scandalo corruzione in Liguria, sono temi che non tratto spesso qui su Appunti perché me ne sono occupato per troppi anni, ma vista la vostra reazione, se riesco tornerò a scriverne a breve.
Intanto oggi trovate un pezzo di Roberto Seghetti, giornalista di grande esperienza e competenza, che ha scritto un libro sull’argomento più impopolare del mondo: le tasse.
Roberto argomenta qui sotto perché la nostra conversazione pubblica sulle tasse è distorta, e ingiusta, senza accorgercene siamo diventati tutti berlusconiani, tutti convinti che le tasse siano il modo in cui “lo Stato mette le mani nelle tasche degli italiani”.
Anche Mario Monti si sofferma su questo nel suo libro Demagonia, appena uscito per Solferino, di cui darò conto a breve qui.
Il libro di Roberto ha avuto - da quello che vedo - una accoglienza calorosa e sta suscitando dibattito, dunque forse è arrivato il momento per la sinistra di liberarsi dall’ipnosi del Cavaliere e per sviluppare un discorso autonomo sul tema.
Le tasse non sono sempre da ridurre. Sono - forse - da tagliare per alcuni e da aumentare per altri, si possono spostare da un punto dell’economia (il lavoro) a un altro (le case).
Meglio ricominciare a parlarne, con un lessico diverso, per non lasciare la discussione in mano a Matteo Salvini e alle sue flat tax, o limitata agli interventi in deficit sul cuneo fiscale che sembrano piacere a tutti, dal Pd a Fratelli d’italia.
Un grande annuncio: visto il successo del podcast La Confessione - che torna nelle parti alte della classifica di Spotify grazie al sostegno prezioso di Camilla Boniardi (Camihawke), Appunti insisterà con il giornalismo di inchiesta sul tema degli abusi nella Chiesa.
Domani arriva una inchiesta in due puntate di Federica Tourn, sul caso del gesuita Marko Rupnik e dei suoi mosaici milionari. Quindi, iscrivetevi per non perderla, e - se potete - sostenete Appunti regalando un abbonamento in modo da aiutarci a finanziare il giornalismo di inchiesta che può cambiare davvero le cose.
Buona giornata,
Stefano
Perché le tasse sono utili
di Roberto Seghetti
Ho scritto il libro Le tasse sono utili con l’intento di portare il mio contributo a una battaglia culturale, prima ancora che politica, contro le ipocrisie e i giochi da illusionisti che vengono utilizzati nel dibattito pubblico sul tema delle tasse.
Beninteso, è fastidioso privarsi di una parte importante dei propri guadagni per darli allo Stato, è insopportabile che le somme raccolte vengano usate male o addirittura sprecate, chi paga le tasse ne paga troppe e da ultimo, ma non in ordine di importanza, c’è troppa indulgenza verso i moltissimi che evadono e fanno pagare agli altri più tasse del dovuto, oltre al peso dei servizi pubblici offerti dallo Stato.
Tuttavia è anche diventata fastidiosa la netta separazione che nel dibattito pubblico c’è tra il discorso sul fisco e quello relativo alla spesa pubblica, come se non ci fosse alcun legame tra la quantità delle tasse che lo Stato riesce a raccogliere e la capacità di spesa per la Sanità, per la scuola, per le infrastrutture, per l’ordine pubblico.
Una separazione ancora più nefasta nel momento in cui i sistemi di Welfare sono giunti in Europa ad un punto di rottura ed è diventato chiaro che per affrontare le sfide che abbiamo di fronte saranno necessari molti altri investimenti pubblici.
Basti pensare all’invecchiamento della popolazione, alla transizione energetica, alla lotta al cambiamento climatico, agli effetti dell’evoluzione tecnologica sul mondo del lavoro: tutti temi sui quali, come dimostrano le resistenze alle relative politiche della Ue, è difficile che i cittadini possano essere obbligati a fare sforzi poco calati nella realtà.
Tornare indietro
Sembra banale ricordarlo, ma purtroppo va fatto, perché negli ultimi quaranta anni è diventato egemone nel discorso politico e di conseguenza anche nell’immaginario collettivo una sorta di pensiero miracoloso sul tema delle tasse.
Secondo questa narrazione, basta abbassare le tasse perché tutto funzioni al meglio, l’economia cresca, la ricchezza si espanda e tutti stiano meglio, compresi i meno abbienti.
L’apparato tecnico e scientifico dal quale è nata questa convinzione non è affatto banale. Tuttavia l’uso che ne è stato fatto e se ne fa ancora in politica è di tipo favolistico e nasconde ipocritamente, dentro una rappresentazione felice della società, un nucleo di acciaio di una ben precisa visione del mondo: per dirla con Margaret Thatcher, premier britannico dal 1979, la società non esiste, esistono gli individui e loro sono responsabili di se stessi. Ragione per la quale, come ha predicato Ronald Reagan, presidente Usa dal 1980, bisogna affamare la bestia, cioè lo Stato, riducendo le tasse in modo che si riduca al minimo la spesa pubblica per missioni sociali, come la sanità, la scuola, l’assistenza, la previdenza.
In sostanza, dietro la ricetta tecnica, che ha un apparto di ricerca e di approfondimento di rilievo, l’obiettivo principale era allora sociale e politico: volevano che il pendolo della storia tornasse alla situazione precedente al grande progresso civile e sociale del dopoguerra o comunque a una società dove contasse meno l’intervento pubblico.
È legittima questa visione del mondo? Certo, è assolutamente legittimo pensare che questo modello sia positivo. Quel che non è legittimo è continuare a predicare la stessa ricetta dei primi anni Ottanta del Novecento facendo finta che non si voglia arrivare a una organizzazione della società a Welfare ridotto.
Ma, soprattutto, pretendere di applicarla in un mondo completamente cambiato, dove i super ricchi e le grandi aziende hanno la possibilità di spostare con un clic sul computer la propria residenza fiscale nelle più disparate parti della terra in modo da versare molto meno del dovuto alla propria comunità; un mondo in cui la concorrenza fiscale tra Stati, resa possibile dall’apertura dei mercati e dalla tecnologia, ha già spinto la riduzione delle imposte fino all’inverosimile.
Un mondo dove fioriscono paradisi fiscali e zone franche anche all’interno degli Usa (Delaware) e dell’Ue (Lussemburgo, Irlanda, Olanda…).
Il trionfo della rendita
Come ha scritto il premio Nobel Joseph Stiglitz nell’introduzione al Global Tax Evasion Report del 2024, “Forse i miliardari non hanno ancora raggiunto l'immortalità, ma di certo sono diventati più agili nell'evitare il fisco (…). Ma non è inevitabile; è il risultato di scelte politiche o dell'incapacità di fare scelte politiche che agiscano per fermarla”.
Non solo. Oggi in molti paesi la rendita paga meno di chi produce. Tanto per fare un esempio, secondo i dati dell’Internal Revenue Sevices, l'agenzia governativa Usa per la riscossione dei tributi (dati riportati in un’inchiesta di ProPublica), alcune delle persone più ricche al mondo, come Jeff Bezos, l’uomo che possiede ed è a capo di Amazon, Elon Musk, proprietario e dirigente di Tesla, X (Twitter) e Starlink, e Warren Buffett, finanziere dal leggendario fiuto di investimento, versano al fisco somme irrisorie, a volte addirittura nulla.
Nel 2007, quando era solo un miliardario e non l’uomo più ricco del mondo, Bezos non pagò nulla, così come nel 2011. Lo stesso è accaduto a Musk, il secondo uomo più ricco del mondo, nel 2018. Tra gli altri, sono riusciti a non pagare neppure un dollaro al fisco anche Michael Bloomberg, miliardario magnate dei media ed ex sindaco di New York, e perfino George Soros, noto finanziere e filantropo, per tre anni di fila.
Se proprio si deve parlare di un mondo all’incontrario è questo; e l’Europa e l’Italia non fanno eccezione.
Ecco: continuare a propugnare il vecchio modello, nascondendo che nella situazione odierna l’effetto sarà non solo distorsivo, ma anche potenzialmente devastante per la spesa sociale e quindi per la qualità della vita delle persone, significa imbrogliare. Basti vedere quanti italiani già non si curano più perché non hanno le risorse per usufruire della sanità privata.
Da qui la necessità di una battaglia culturale per svelare ciò che viene taciuto. Tanto più che la realtà ha già dimostrato quali siano gli effetti a lungo termine di quel modello e, oltretutto, ha anche smentito che quella ricetta sia valida sempre.
Si continua a ripetere lo slogan secondo il quale solo la riduzione delle imposte, ancora oggi, è la chiave per la crescita economica e per il benessere collettivo. Ma non sempre e non necessariamente è così. Nel libro, sia pure per grandi linee e in modo volutamente schematico e a-tecnico, si ricordano alcuni dati incontrovertibili.
Il primo: nel secondo dopoguerra, c’è stata una delle fasi di crescita economica, civile e sociale più importanti della storia. In quel periodo la maggior parte delle persone nel mondo cosiddetto Occidentale ha migliorato notevolmente la propria posizione; non pochi sono anche diventati ricchissimi.
Eppure la tassazione dei redditi prevedeva allora aliquote marginali (quella che per il nostro Irpef oggi è al 43 per cento e ci sembra un’enormità) intorno al 90 per cento, per esempio in Usa e in Uk, o intorno al 70 per cento (in Francia e poi, con la riforma degli anni Settanta, in Italia).
Certo, la crescita era favorita dalla necessità di ricostruire dopo la distruzione della guerra e dai prezzi bassissimi del petrolio.
Ma il fatto che in quegli anni l’economia sia cresciuta con il turbo e che non pochi siano diventati milionari pur a fronte di un’imposizione sul reddito così alta dimostra in modo chiaro che abbassare le tasse non è l’unica ricetta per ottenere la crescita economica e, soprattutto, per il miglioramento della vita per le persone.
Naturalmente, nessuno pensa di voler tornare agli eccessi di prelievo di quel periodo: questo ragionamento significa soltanto che quando si presenta un politico a dirci che per ottenere la crescita è indispensabile prima di tutto ridurre le tasse, ebbene ci troviamo di fronte a una mezza verità.
Perché certo, in teoria, quella decisione può aiutare, ma nella pratica dipende dalle condizioni e anche dagli effetti di una scelta del genere sulla spesa pubblica.
Pasti gratis
Quanto alle promesse strabilianti di quel modello, oggi ne vediamo gli effetti, e non sono piacevoli. La crescita delle disuguaglianze ha toccato punte da record. Secondo Il World Inequality Report redatto da quattro economisti molto conosciuti, come Lucas Chancel, Thomas Piketty, Emmanuel Saez e Gabriel Zucman, il livello di disuguaglianza riscontrabile oggi è di fatto quasi pari a quello del 1910.
Siamo tornati alla gerarchia sociale che precedette le due grandi guerre del Novecento.
Non è un caso, dunque, se a fronte del decadimento drammatico del Welfare e della crescente disuguaglianza, masse crescenti di diseredati, come testimoniano tutte le rilevazioni, stiano perdendo fiducia nella possibilità di riscatto offerte dalla democrazia. Né che la democrazia spesso latiti proprio nei paesi nei paesi con zero o pochissime tasse (nel libro presento alcuni casi di scuola, a cominciare da quello russo).
Sono temi globali, in ogni caso almeno europei. L’Ue, come si è accennato, avrebbe bisogno di investire somme crescenti di spesa pubblica per la transizione energetica, per combattere il cambiamento climatico, per l’innovazione tecnologica, per la difesa comune, ma è assai probabile che non possa andare da alcuna parte se, oltre alla decisione di fare debito comune, non metta anche un limite alla concorrenza fiscale interna, che consente di eludere il fisco proprio a chi dovrebbe contribuire di più a uno sforzo del genere.
Certo, sono problemi difficili da affrontare, basti vedere le resistenze incontrate dalla global minimum tax per le multinazionali, voluta dal presidente Biden, pur essendo una misura blanda e certo non risolutiva.
Ma si rischia moltissimo, se non si cambia. E per cambiare bisogna avere il coraggio di dare battaglia prima di tutto sul piano culturale: le tasse non sono il diavolo, le tasse sono sicuramente uno strumento fastidioso per il singolo, ma sono utili per l’organizzazione della società e per mantenere il livello di civiltà collettiva che abbiamo raggiunto, che poi è anche qualità della vita individuale.
Bisogna dirlo, senza timidezze, risvegliando l’attenzione dell’opinione pubblica: di tasse bisogna parlare, anche se sono fastidiose.
Infine, nel libro parlo in modo dettagliato anche dell’Italia, perché va detto che soprattutto noi non possiamo andare avanti così: abbiamo un sistema fiscale che non risponde più ad alcun obiettivo generale, penalizza la produzione e il lavoro, favorisce l’opacità, la rendita e l’evasione di massa ed è organizzato per corporazioni: dipendenti e pensionati, imprenditori, lavoratori autonomi, agricoltori, investitori in immobili, finanzieri, ereditieri, autotrasportatori, tassisti, ristoratori…
Ciascuno ha la sua gabella, con sconti e tutele conquistate con la vicinanza al signore di turno. Un guazzabuglio da tardo Medioevo cresciuto casualmente e in cui il mondo politico interviene per aggiustamenti, rattoppi, regalie che finiscono, quando va bene, per rendere ancor più squilibrato il sistema.
Quando va male, per dissestarlo ulteriormente, con l’unico effetto di favorire gli evasori e tartassare gli altri.
In una situazione così ingarbugliata è difficile intervenire. Bisogna riconoscere che ci vuole un coraggio politico notevole.
Basti pensare alle centinaia e centinaia delle cosiddette tax expenditures, che tutti i governi promettono di tagliare ma il cui numero continua a crescere in modo smisurato.
Anche in questo caso però c’è bisogno, prima di tutto, di una battaglia culturale, perché l’opinione pubblica, soprattutto di coloro le tasse le pagano, sia più reattiva e attenta.
Bisogna avere il coraggio di gridare che il re è nudo, perché non esiste un modo dove i pasti sono gratis, lo Stato pensa a tutto, ma solo in pochi pagano le tasse. Questa, purtroppo, è solo una favola.
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Appunti e Dieci Rivoluzioni: il libro e l’abbonamento omaggio
Visto che in questa fase non riesco a fare molta della tradizionale promozione del libro - tra festival, tv, radio ecc - per gli impegni di lavoro e familiari, vorrei tentare un esperimento, legato alla comunità di Appunti.
Se gli influencer si appellano alla loro comunità per vendere i loro libri, o altra oggettistica, non posso farlo anche io?
Ho pensato questa formula, che - come direbbero gli aridi economisti - allinea tutti i nostri incentivi:
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Mi piacerebbe fare questo esperimento “economico” questa settimana per raccontare poi i risultati già al Salone, ma la cosa resta attiva per tutto il mese di maggio.
Luisa Cavallini, che vedete nella foto qui sopra, mi ha mandato questa foto quando è arrivata a pagna 63 del libro… fin qui tutto bene!
Il Podcast: La Confessione
Ascolta La Confessione, il podcast di inchiesta che rivela per la prima volta da dentro come funziona il sistema di copertura e insabbiamento degli abusi sessuali nella Chiesa cattolica italiana.
Un podcast realizzato da Stefano Feltri, Giorgio Meletti e Federica Tourn, realizzato grazie al sostegno della comunità di Appunti. Con la collaborazione di Carmelo Rosa e la consulenza per musiche ed effetti di Stefano Tumiati.
Sono d'accordo. Va valorizzato anche l'aspetto della coesione sociale. Le società coese hanno bisogno della consapevolezza solidaristica che le sostiene, dell'interdipendenza dei soggetti che la compongono. Non c'è imprenditoria senza lavoratori, non c'è offerta senza domanda. Il ruolo di produttore è strettamente legato a quello di consumatore ed è questo intreccio di interessi che produce i sistemi democratici. Interdipendenza cooperazione deliberazione partecipata.
Invece della "fantomatica" tassazione degli extra profitti sarebbe stato utile chiedere all'ABI una moratoria di 18 mesi sui costi dei POS/Bancomat e poi imporre con decreto l'utilizzo degli stessi a tutte le attività commerciali/liberi professionisti. Risultato:
emersione del nero con aumento della base imponibile. Ma "Giorgia" non governa la "nazione", governa il suo elettorato (tassisti, partite IVA, balneari).