Vite che sono la mia: Cecilia
IL NUOVO RACCONTO INDEDITO - Lo scrittore Guido Giuliano rivela le ferite esposte eppure invisibili di una generazione giovane e tormentata
Quando ti disintossichi dagli obblighi, quando i ritmi si allentano e non ci sono più pressioni che ti spingano a procedere sulla corsia lungo la quale ormai stavi correndo senza più farti domande, si apre un tempo dilatato e strano in cui nulla ti distrae dal sognare
Guido Giuliano
Buongiorno a tutte e tutti,
Nei giorni scorsi abbiamo ripubblicato i primi pezzi e racconti dello scrittore Guido Giuliano, in particolare i suoi racconti della serie Vite che sono la mia già usciti su Appunti, quando però c’erano migliaia di lettori e lettrici in meno.
Adesso, come promesso, è il momento del nuovo racconto inedito della serie: Cecilia. Ve lo mando di venerdì, così avete tutto il weekend per leggervelo con calma e farci sapere cosa ne pensate.
Come alla prima apparizione, i testi di Guido Giuliano sollevano sempre molte reazioni, perché aprono squarci di visibilità e di empatia nella vita intima di una generazione molto lontana da quella cui appartengono tante delle persone iscritte a questa newsletter.
Questi “giovani” non sembrano ispirare invidia, ammirazione o paternalismo ma un distacco quasi ostile: possibile che le loro vite siano così incasinate e drammatiche come le presentano?
I racconti di Guido, che non sono fiction ma realtà mediata dalla letteratura, si chiamano Vite che sono la mia proprio a indicare che si tratta non di casi estremi, di storie incredibili, ma di vite come la sua. Come quelle di tanti.
Buona lettura, e fateci sapere che ne pensate
Stefano
Chi è Guido Giuliano
Sono nato a Torino nel 2000. Mi sono laureato in Lettere con una tesi sulle trasposizioni cinematografiche dei drammi shakespeariani e ho conseguito un master in tecniche della narrazione presso la Scuola Holden. Frequento il corso di laurea magistrale in Culture Moderne Comparate. Quando non basta scriverlo, lo disegno, lo fotografo o lo filmo.
Cecilia
In strada passa un’auto con i finestrini abbassati e la radio accesa. Si trascina dietro un tormentone estivo che stride nello smog di questa città padana: il solito rigurgito di reggaeton e trap con parole in spagnolo a caso, località turistiche che fanno da sfondo a un amore fugace tra due cretini e il product placement di bibite cariogene o di altre cazzate inutili e dannose.
Le mie dita sulla tastiera del computer seguitano a comporre con lentezza bovina le parole di un articolo accademico che mi sta richiedendo più sforzi di quanto fossi disposto a fare. Intanto il cervello non riesce a liberarsi dall’impressione che la vita sia altrove.
Si illumina lo schermo del cellulare sulla mia scrivania e mi distoglie da uno studio sulla ricezione critica del teatro di Ionesco da parte di un oscuro professore morto quarant’anni or sono.
Menomale!
No, non per il fatto che sia morto, pover’uomo…
Cecilia: “Posso chiamarti tra cinque minuti?”
“Certo,” digito.
E lei: “Chiamata normale o video call?”
“Come preferisci.”
“Allora facciamo senza faccia per ora. Poi, se serve, cambiamo.”
Fuori dalla finestra un cielo di ferro promette altri scrosci di pioggia o grandine.
Un uomo anziano, calvo e molto magro, fuma affacciato alla ringhiera del terrazzo al dodicesimo piano di uno stabile che svetta oltre gli altri tetti, due vie più in là. Si sporge come un gatto stordito, convinto possano essere facile preda quelle rondini che gridano e volano in cerchio davanti al suo balcone. Ha una camicia bianca molto ampia. C’è vento. Se adesso si buttasse, scenderebbe oscillando in qua e in là senza peso, come un foglio di giornale. Un refolo dal basso potrebbe riportarlo là dove è iniziato il suo volo o addirittura al piano di sopra, sul balcone della signora che ha appena apparecchiato per pranzare fuori.
“Buongiorno, cara. Mi scusi, non volevo…” E a un cenno di lei: “No, no, grazie. Non mi trattengo. Oggi ho già un impegno. Mi ributto subito. In ogni caso, mi saluti suo marito, neh!” poi, voltandosi quando ormai è in un turbinar di rondini nel vuoto: “Cara signora… che fatica anche morire in certe mattine estive!”
Vorrei conoscere l’espressione del suo viso in questo momento. Da quando vivo qui non l’ho mai visto sorridere. Mi è capitato sovente di incontrarlo a un semaforo, dal benzinaio o in panetteria. Sapevo solo che abita di fronte e che non sorride mai, finché un uomo davanti a me sul marciapiedi, indicandolo sul lato opposto della strada alla donna che gli camminava a fianco, ha detto: “Sai chi è quello? Da giovane correva i mille e cinque agli europei.”
La mia mente ora segue in un long take un atleta calvo di cui ignoro il nome, che allarga le braccia e decolla dalla pista rossa in tartan nell’istante in cui tra le mani degli allenatori e dei giudici di gara si polverizzano tutti i cronometri. Lo squillo del mio cellulare lo blocca in un fermo immagine in cui finalmente sorride volando sopra lo stadio.
“Ma figurati! Me ne ha parlato papà ieri e sono davvero contenta che tu abbia pensato a me. Tra l’altro ho letto qualcosa di quello che hai scritto e mi è piaciuto molto.”
“Ah, grazie, mi fa piacere…” nella voce l’imbarazzo stolido di chi non sa come reagire ai complimenti.
Cecilia ha un paio d’anni più di me. È figlia del mio padrino e da bambini lei, suo fratello Pietro e io abbiamo giocato qualche volta insieme. Di quelle sere a casa nostra o a casa loro ho un ricordo confuso, un’immagine da caleidoscopio in cui tranci di pizza, calzette antiscivolo, schegge di un altro lessico familiare e qualche scena da Mucche alla riscossa su Italia 1 si compongono per un istante in geometrie chiassose, che non restituiscono l’intero. Poi, crescendo, i rapporti non si interrompono, ma si allentano e infine si perdono come rivoli d’acqua nei campi d’estate.
Che ne è del tempo che ciascuno ha vissuto? In quale piega della memoria sta nascosto?
Negli ultimi anni in casa si è tornato a parlare di lei, della sua nuova vita. Perché Cecilia ha cambiato vita. E non, come capita di solito a vent’anni, per un ideale, un progetto di studi o di carriera, per una sfida con se stessi o una scommessa col mondo, nemmeno per andare via con qualcuno o contro qualcuno, ma involontariamente. Il suo corpo ha deciso per lei senza consultarla.
“Se sei d’accordo, io farei così: lascio che tu racconti, mi appunto qualcosa ogni tanto e ti fermo se ho domande. Poi ti invierò una prima stesura su cui ragionare insieme. Ci vorrà un po’, perché sono in piena sessione e non riuscirò a combinare granché a breve. Inizierò a lavorarci partendo per il mare.”
“Sì, immagino. Non preoccuparti.”
“Potrai chiedermi di modificare e omettere tutto quello che ti mette a disagio o ti rende troppo riconoscibile. Non voglio vendere a pezzi il tuo privato, per cui, come ho già fatto per gli altri, cambierò il tuo nome e i dettagli riferiti alle persone coinvolte.”
“No, no. Tienilo pure il mio vero nome. Non ho motivo di vergognarmi per quello che mi è successo e non ho nulla da nascondere. Ti chiederei solo una cosa…”
“Sì, dimmi.”
“Non dipingermi come una che si piange addosso, schiacciata dalla vita. Non sono così e non ho bisogno di far pena a nessuno.”
Non avevo dubbi.
È cresciuta su una pedana di quattordici metri tirando di scherma. La maschera sul viso, il busto eretto, il gomito piegato a cento gradi e la spada nella mano guantata. Via al primo assalto. Passi e saltelli per attaccare o per retrocedere. I piedi perpendicolari tra loro, il destro avanti in linea con le spalle, il sinistro che segue e bilancia. Le lame si cercano e si fuggono. Due insetti che provano a pungersi. Dopo pochi secondi l’affondo. Quante stoccate per vincere? Coordinamento neuro-muscolare e schemi corporei complessi. Uno sport di concentrazione e destrezza. Sono i tempi di reazione a distinguere gli schermidori di livello dai principianti ed è la tempra a fare i campioni. Quella che ha portato Cecilia con la sua squadra fino agli europei e le ha fatto vincere un incontro con la numero uno al mondo. Un meccanismo anaerobico alattacido che macina ATP e fosfocreatina in modo infallibile. Ma poi il corpo la tradisce.
Fine gennaio del duemilaventidue. Dopo la pandemia riprendono anche gli allenamenti e le gare. Cecilia sta preparando gli ultimi esami per concludere la magistrale in Ingegneria Gestionale.
“Forse ti avranno già detto che l’origine di ‘sto schifo qua risale molto verosimilmente alla terza dose di vaccino anti-covid. Ma insomma, questo vedi poi tu se e come inserirlo. So che potrebbe crearti problemi, tirarti addosso polemiche… se lo scrivi, va ancora a finire che ti danno del No-Vax.”
È vero, suscitare una discussione di questo tipo non solo non mi interessa, ma è l’ultima cosa che io mi possa augurare. Ho sempre ritenuto iniquo strumentalizzare il caso particolare per trarre spericolate conclusioni generali, facendo leva sull’emotività anziché guardare alla statistica. Non lo farò certo adesso, tanto più in un ambito che non mi compete e a spese di Cecilia, ma non voglio nemmeno censurare la sua storia.
Il fatto che lei per prima si ponga la questione è già una spia di come questa possibile origine eziologica sia stata un peso ulteriore per lei, che ha dovuto convivere con la malattia e l’incertezza in un’atmosfera in cui il dibattito pubblico è tuttora inquinato e violento.
A sei giorni dal richiamo i primi segni: “Un’influenza pesantissima… tipo laringite, bronchite. Mai stata così male. Poi uno strascico spropositato di stanchezza e dolori osteo-muscolari che non passano.”
Qualche settimana dopo ci sono gli incontri per la qualificazione ai nazionali. Cecilia sta a malapena in piedi, ma il suo allenatore insiste.
“Così mi bombardo di integratori e mi presento comunque in pedana. Faccio una gara orrenda: sembro un cartonato. Ho le gambe rigide e le mani che tremano. Riesco lo stesso a vincere gli incontri del mio girone. A questo punto vorrei solo andare a casa, ma non posso ritirarmi, perché finirei fuori classifica. Così, appena ho la certezza di essere nella rosa dei qualificati, perdo intenzionalmente, buttandomi contro la spada di una ragazza che poco prima avevo battuto 5 a 1. Una farsa. Forse non lo avrei fatto se avessi saputo che quello sarebbe stato il mio ultimo assalto.”
I dolori e la stanchezza aumentano e ormai le impediscono di muoversi dal letto. Rimane un mese e mezzo ferma, come davanti alla sbarra di un passaggio a livello abbassata per un treno che non arriva.
I medici non hanno risposte da darle.
“Parlano di sovraccarico da stress, di burnout, addirittura di depressione. Mi offende che liquidino così la cosa, solo perché non sanno dare altre spiegazioni. Chiaramente non sono in condizione di allenarmi, studiare, vedere amici, uscire di casa. Il mio battito cardiaco è alterato e la stanchezza a tratti mi impedisce di parlare.”
Trascorrono i mesi. Cecilia ormai si muove solo in sedia a rotelle. Le prescrivono i primi esami per escludere malattie degenerative o patologie oncologiche. Non è sclerosi multipla, non è tumore al cervello. Si adagiano su una comoda ipotesi di long Covid e le assicurano che nel giro di qualche tempo starà meglio. Parlano di quattro mesi, poi quattro mesi passano e allora dicono sei, poi sette. Il traguardo si allontana sempre di più.
Peccato che Cecilia, secondo successive analisi di un’infettivologa, il Covid non lo abbia mai avuto. Lo ha preso dopo, invece, e più di una volta, quando le sue difese immunitarie erano ormai compromesse da una malattia che non aveva ancora un nome. La sbarra del passaggio a livello non si alza. Il segnale luminoso lampeggia a vuoto. Nessun treno è in arrivo.
Continuando a non esserci una diagnosi, si inizia a pensare possano aver ragione quei medici che riconducono i suoi disturbi a un’origine psicosomatica. Glielo dicono tutti. Anche la madre e il fratello in questa fase sono convinti si tratti di una condizione passeggera, che dipenda almeno in parte da un’incapacità di reagire allo stress, da una sua mancata volontà di recupero.
“In fondo io frequentavo ingegneria, seguivo progetti di gruppo, intanto lavoravo come hostess a eventi, facevo allenamenti e gare… certo che ero stressata, però non più degli anni passati e il desiderio di riprendermi non mi mancava. All’inizio il primo che capisce, il solo che mi crede, è papà.”
Tutto peggiora. È sempre più stanca. Ogni movimento è dolore. Ha percezioni alterate di caldo e freddo e una sudorazione anomala. Insorge una tachicardia posturale.
“In sostanza, se la testa è più in alto del cuore ho cali di pressione, si annebbia la vista e mi sento intontita. È come se non mi arrivasse il sangue al cervello. Allora, per compensare, il cuore corre e si affatica. Inizio a stare tutto il tempo sdraiata. Meglio prona… Ah, c’è una cosa dei primissimi mesi che non ti ho ancora raccontato: in alcuni momenti perdevo coscienza di me.”
“In che senso? Svenivi?”
“No, non sapevo collocarmi nel tempo. Per me non esisteva più. Avevo perso la percezione di cosa volesse dire ‘adesso’, ‘tra mezz’ora’ o ‘mezz’ora fa’.”
Ascolto la sua voce al telefono. Ora fuori sta piovendo. Sul balcone del dodicesimo piano non c’è più nessuno. Anche la signora che pranzava sola in terrazza è rientrata e ha abbassato le tapparelle. Da quant’è che parliamo? Mezz’ora? No, di più. E provo a figurarmi cosa voglia dire vivere senza il tempo.
Immagino sia come correre senza un’idea di spazio, muoversi in uno sterminato contenitore vuoto di un bianco abbacinante. Nessun riferimento per capire quanta strada hai fatto, quanta ne hai davanti, né in che direzione tu stia andando.
“In quei momenti non riuscivo quasi a formulare i pensieri e mi rendevo conto di non essere in grado di esprimerli se non al ralenti, come un bradipo in un cartone animato. Mi sono veramente cacata addosso, Guido.”
“Eh, beh. Lo credo.”
“Avevo talmente paura di perdere le facoltà mentali che mi sono sparata non so quanti sudoku e settimane enigmistiche di fila. Spero abbia funzionato.”
“Massì, dai. Non mi sembri così rincoglionita.”
Ride.
Nel maggio del duemilaventidue Cecilia entra in cura presso una neurologa, che mitiga i sintomi con una terapia a base di cortisone.
“Alti e bassi. Quando tutto va bene riesco a uscire di casa accompagnata e fare sì e no cento metri a piedi, ma, un paio d’ore dopo, la stanchezza e il dolore si acuiscono e rimangono con me per giorni, come per punirmi, al punto che inizio ad avere paura di muovermi.”
Le consigliano e si sforza di fare fisioterapia, ma ogni seduta ha un costo sproporzionato in contratture muscolari persistenti. Oltre la sofferenza che neanche i farmaci riescono a eliminare, andare a cercarsene dell’altra le pare quasi un atto di autolesionismo.
“L’agosto di quell’anno è pesantissimo. C’è una settimana in particolare in cui anche respirare diventa un problema. Sono terrorizzata. Penso di crepare. I tranquillanti mi provocano la reazione inversa. Sviluppo un’intolleranza al cortisone e a tutti i farmaci che provano a darmi. Gonfio, aumento di peso. Ci vogliono mesi per scalare il dosaggio e arrivare a zero.”
Cecilia è passata dall’essere una persona indipendente al dover essere accudita in tutto, ma il Sistema Sanitario non prevede alcun tipo di supporto per una “malata immaginaria.” Gradualmente cambia l’assetto della famiglia. In casa si modifica la disposizione delle stanze per agevolarla nelle sue esigenze. I genitori sono costretti a rivedere i loro ritmi di lavoro. Tutti riducono al minimo i contatti con gli estranei, per evitare di metterla in pericolo portandole a casa la vita, quella normale, con quei batteri e quei virus che il suo organismo combatterebbe a fatica. Adesso anche un raffreddore è un avversario senza bottone di protezione sulla punta della spada. A lei invece farebbe piacere avere compagnia, ma:
“Nel giro di poco l’ottanta per cento dei miei amici sparisce, anche certi parenti e così pure il mio maestro di scherma, che mi conosce da quando ero bambina e col quale ho girato l’Europa. Di quelli che restano, alcuni si fanno sentire per telefono dicendo che passeranno a salutarmi e poi non vengono, altri vengono una volta e poi non tornano. Eppure sono sempre io. Forse non valgo il loro tempo o hanno paura di trovarsi a disagio. Ormai non li aspetto più. All’inizio c’è chi almeno per messaggio mi chiede come sto. Poi neanche più quello. Ora lo domandano a mia mamma, se la incontrano. Tanti si sarebbero potuti comportare meglio, ma, guarda… non ho neanche voglia di parlarne. Rimangono tre o quattro persone che sento ogni giorno e, se pur raramente, vengono a trovarmi. Mi fanno coraggio e a volte si riesce anche a ridere.”
Però, tra tutti, è suo fratello quello che più si adopera per coinvolgerla in attività che non siano guardare fuori dal finestrino stando coricata sui sedili posteriori di un’auto, quello che sa dribblare il banale, sfidare la noia e anche la forza di gravità.
Le dice: “Basta. Ti porto un po’ in giro perché, se no, tutto il tempo su una sdraio, ti fai due balle così.”
“Pietro, ma come mi porti in giro?”
“Ci penso io.”
Così, un pomeriggio in campagna dai nonni la caccia in una vecchia carriola che ha foderato di coperte e cuscini e la spinge lungo viottoli sterrati in mezzo ai campi, mentre lei, come una dama in risciò, si protegge dalla luce con un ombrello.
“Sai, allora ero ancora sotto cortisone e non dovevo prendere il sole,” mi spiega.
Poi, al mare, dove per lei anche galleggiare è fatica, Pietro lega il capo di una corda al materassino, l’altro alla propria caviglia e la traina fino agli scogli a guardare i pesci o il fondale.
“L’inverno successivo, invece, andiamo qualche giorno in montagna insieme. Una mattina mi veste, mi porta in auto fino a una stradina piena di neve, rimasta chiusa al traffico e lì tira fuori dal bagagliaio il bob di quando eravamo piccoli. Sì e no ottanta centimetri. Come un cane da slitta, mi trascina su per i tornanti fino in cima, poi si siede dietro di me e insieme scendiamo veloci gridando.”
Non è una videochiamata, ma dalla sua voce sento che sorride.
“Di quei momenti ho anche delle foto. Se vuoi, te le mando.”
Tra le immagini che mi invia ce n’è una che la ritrae al tavolo di un ristorante lungo il mare.
“Questa è di quella volta in cui papà ha provato a portarmi a mangiare fuori. In quel periodo eravamo in vacanza, mi sentivo meglio e riuscivo di nuovo a camminare un pochino. In ogni caso, non è stato semplice, perché si trattava pur sempre di stare in mezzo alla gente. Dovevamo trovare un posto poco frequentato e pregare che il servizio fosse veloce: io con la mia tachicardia posturale non è che potessi rimanere seduta a lungo. Abbiamo scelto questa trattoria vicino al molo. Riuscire a pranzare lì ci è parso il segno che le cose sarebbero migliorate. Poi non è andata così, però quel giorno siamo stati felici. Quando ci siamo seduti in macchina per tornare a casa io e papà abbiamo pianto.”
Un’altra foto risale a una sera in cui lei e un’amica, entrambe in pigiama, cenano in auto, mangiando sushi d’asporto sui sedili reclinati, mentre guardano la città da un punto panoramico sulla collina.
“Quella era la prima volta che uscivo di nuovo la sera dopo due anni.”
Riguardo le immagini che mi ha inviato, foto conservate in una galleria che dall’inizio del duemilaventidue è cresciuta di poco e ha cambiato colori. Ciò che prima era ordinario ora va afferrato, fissato, capitalizzato nella memoria perché eccezionale. Rari squarci di leggerezza, una leggerezza nonostante, che affiora malgrado il dolore, la mancanza di risposte e le difficoltà che si aggiungono inattese e gratuite anche nel portare avanti il suo percorso di studi.
A gennaio del ‘ventitré, grazie alla disponibilità di un docente che comprende la sua situazione, riesce a dare a distanza il primo dei due esami universitari che le mancano. Per l’ultimo, invece, inciampa in un ostacolo, perché il professore, nonostante si sia appena usciti da un periodo in cui le prove online erano la norma, dice di non poter decidere in autonomia per un caso singolo. E così è costretta a intraprendere un iter burocratico tra moduli, segreterie e uno sportello preposto a risolvere situazioni particolari e controverse, non contemplate nel regolamento ufficiale. Ma questo, facendo riferimento proprio a quel regolamento ufficiale in deroga al quale avrebbe dovuto decidere, le risponde che l’ateneo non prevede esami a distanza, se non per una casistica ristretta a due voci, nella quale lei, non avendo né il Covid né un carcinoma, o meglio, non avendo alcuna diagnosi, non rientra.
“Ma allora a cosa serve quello sportello?”
“A prenderti per il culo,” dice. “Passo mesi a discutere con questi imbecilli e saltano non so quanti appelli.”
Mi racconta anche di aver fatto parte di un progetto per studenti atleti. Finché ha vinto gare, l’università l’ha tenuta in vetrina sulle pagine del proprio sito, presentandola come un’eccellenza e vantandosi dei suoi risultati. Ma quando chiede quello che più che un favore, le pare un diritto, dalla vetrina viene spostata nell’armadio delle scope.
Alla fine la risolve suo fratello, forzando gli ingranaggi. Pietro va in segreteria di persona e presenta in un unico plico tutta la documentazione medica di Cecilia con quel po’ di prepotenza che ti concedi quando ci va di mezzo tua sorella e sai di essere nel giusto. Così a settembre lei dà l’ultimo esame. Manca solo la tesi, ma, per una stortura burocratica inaggirabile, la discussione andrà comunque fatta in presenza. Piuttosto sdraiata, ma comunque in presenza.
“No, guarda… io non ci andrei mai né da sdraiata né da seduta. A costo di riempirmi di analgesici o di qualsiasi altra cosa, io quel giorno lì vorrei almeno poter stare in piedi. Già per la triennale, in pieno lockdown, si è svolto tutto da remoto e in sordina. Quando poi i miei compagni di corso hanno finito la magistrale, io stavo già male. Tra una cosa e l’altra non sono mai stata a una festa di laurea.”
A ottobre del duemilaventitré avverte qualche miglioramento, si sente meno stanca.
“Peccato che a novembre io riprenda il Covid. Torna la paura di dover ricominciare da capo.”
Appena ne esce interrompe i rapporti con la psicologa che la segue da alcuni mesi. In quest’ultimo periodo di difficoltà è stata molto sfuggente e subito dopo, come se per tutto il tempo non avesse capito nulla, arriva a proporle:
“Dai, vengo sotto casa tua. Scendi e andiamo a prenderci un gelato. Vedrai che ti viene voglia di uscire.”
La voce di Cecilia si fa pungente: “Mi dice: ’scendi’… ti rendi conto? ‘Scendi.’ E come scendo? Volando dal balcone? Un’altra convinta che le mie difficoltà motorie siano una scusa o una mancanza di volontà. Sì…” e ripete sarcastica “ ‘Vedrai che ti viene voglia’… poter uscire era l’unica cosa che io desiderassi. Mi sono girate e non l’ho più ricontattata. Ho preferito chiudere. Ero troppo stanca di sentirmi dire certe cose. Mi sono rivolta a una seconda psicologa, alla quale ho dovuto raccontarmi da capo, ma è stata fatica sprecata: dopo un mese ha detto di non avere tempo per me e mi ha rimbalzata a una terza collega.”
Verso la fine del duemilaventiré pare trarre qualche beneficio dall’agopuntura, ma il medico, non potendo accettare che la propria terapia non sia risolutiva, inizia a strillarle in faccia che il problema è lei, che non ci crede abbastanza, che è catatonica e non ha voglia di vivere.
“Alla fine mi ha chiesto di non tornare più. Si è espresso con parole molto pesanti e non ne avevo proprio bisogno. Però di una cosa devo ringraziarlo. Quando in città c’è stato il Gran Prix di Fioretto mi ha detto: ‘Caschi il mondo, tu devi andarci, così vedi tutto quello che ti stai perdendo e magari ti dai una sveglia.’ I modi erano quanto di più sbagliato, però mi ha convinta e sono andata nonostante tutto. Mi ha accompagnata un’amica. Pur senza essere autorizzate, abbiamo parcheggiato nelle aree riservate all’organizzazione: erano quelle più vicine all’ingresso e già così mi sono dovuta sdraiare per terra sugli spalti. Lì c’era metà della mia palestra. Io avevo un cappottone, la dolcevita alzata fin sul naso e gli occhiali scuri, perché nessuno mi vedesse in quello stato. È andata bene. Non pensavo di farcela, ma alla fine è stato molto bello.”
Mentre la ascolto, alzo la penna dal foglio e la rigiro tra le dita della mano destra. Caligola, che si è avvicinato senza far rumore, risponde al mio invito inconsapevole e d’improvviso balza sulla scrivania per catturare la preda. È un gatto, si comporta da gatto. Io, che invece sono un idiota, ritirando la mano di scatto rovescio sul notes la tazza di tè freddo.
“Ma porca…”
“Tutto bene?”
“Sì sì, vai pure avanti, ti ascolto” e la metto in vivavoce mentre mi guardo attorno, cercando qualcosa con cui asciugare.
“Ti stavo dicendo che dieci giorni fa ho iniziato ancora un altro tipo di pratica. Si chiama - non ridere, eh - ‘tocco armonico.’ È un massaggio leggerissimo che dovrebbe far rilasciare dopamine, endorfine… un trattamento che adottano negli ospedali su chi ha dolori cronici e sui malati terminali. Perlomeno è rilassante e non c’è nessuno che mi urla addosso.”
Tra tutti i professionisti ai quali si è rivolta, è stata la neurologa a darle un sostegno costante, malgrado anche lei avesse sbagliato diagnosi.
“Ci sentiamo tutte le settimane. È il mio punto di riferimento quando non so dove sbattere la testa… poi magari non lo sa neanche lei, però non lo ha mai dato a vedere. Tempo fa è stata ricoverata per una polmonite, ma ha continuato a rispondere al cellulare e a rassicurarmi, senza neanche dirmi che stava male.”
“E ultimamente come ti senti?”
“Eh, insomma… da febbraio ho preso qualcosa come otto influenze di fila. Non posso dire di star meglio. È sempre uguale. Anzi, adesso sono mesi che non cammino e quasi non mi muovo neanche in casa. Però ho trovato un equilibrio mentale da quando, a maggio di quest’anno, è arrivata una diagnosi certa.”
Encefalomielite mialgica. Una patologia neuroimmunitaria cronica, che non ha marcatori diagnostici, in quanto esami clinici e indagini di laboratorio danno risultati nella norma, e che non è di competenza di nessuno specialista, ma richiederebbe un approccio multidisciplinare. Questo comporta un ritardo nella diagnosi e una cascata di analisi e terapie inefficaci, se non deleterie.
Il corteo sintomatico di cui soffrono i pazienti è del tutto sovrapponibile a quello che emerge dal racconto di Cecilia: spossatezza, dolori muscolo-scheletrici, cefalea, ipotensione ortostatica, talvolta febbre, dolore ai linfonodi e una nebulosità mentale, con problemi di memoria, di concentrazione e difficoltà nel reperire le parole. Il corpo, seppur integro e all’apparenza sano, rimane inerte come in una teca di cristallo per effetto di una mela stregata. Però nessuno dei sette nani si è mai permesso di intimare a Biancaneve di non fare la vittima e darsi una mossa.
“Colpisce il cervello e tutto il sistema nervoso. Non è una bella notizia, perché non esiste una terapia, ma, dopo aver aspettato tanto, mi sembra meglio di niente. Mi hanno detto che nei pazienti giovani la situazione a volte può risolversi da sé in tre o quattro anni. Altre volte no.”
Trenta mesi in coda per ospedali e specialisti. Ma anche quando passa il treno, la sbarra del passaggio a livello non si alza.
L’eziologia è sconosciuta, multifattoriale e perciò, nel caso di Cecilia, i medici hanno ipotizzato che il vaccino anti-Covid possa aver avuto un ruolo, se non altro per una sovrapposizione temporale ad altre concause. L’Organizzazione Mondiale della Sanità e il Servizio Sanitario Nazionale riconoscono la patologia, ma, a differenza di altri Paesi europei, in Italia le istituzioni preposte, pur esprimendo una vicinanza formale, non mettono in atto azioni concrete.
Non esistono centri di riferimento specifici, non è prevista al momento la presa in carico del malato, né un’esenzione dal ticket. Ed è così che, nell’oblio istituzionale e sociale, Cecilia e la sua famiglia ora beneficiano dello stesso sostegno al quale avevano diritto prima della diagnosi, anzi meno. Perché, per un periodo, aveva almeno goduto di un’esenzione per “malattia rara in corso di diagnosi”. Come a dire: adesso che abbiamo capito cos’hai, te la puoi anche cavare da sola.
“Il tempo per pensare non mi è mancato. Se guarissi, forse non tornerei sulla pedana. È difficile che dopo essere rimasta ferma per così tanto tempo io raggiunga di nuovo il livello a cui ero arrivata. E andare a far gare per perderle non mi interessa. Ho capito anche che non mi andrebbe nemmeno di chiudermi in un ufficio a fare un lavoro coerente con i miei studi. Ci sono stata anche troppo tra quattro mura; l’idea di rimanerci altri quarant’anni mi dà un senso di oppressione.” E dopo una breve pausa: “Sai, alle elementari volevo disegnare gli interni delle navi.”
La coincidenza mi fa sorridere. Pensavo di essere l’unico. Anche io da piccolo avrei voluto diventare architetto d’interni per navi da crociera. Tutti i miei compagni invece volevano fare il calciatore, il rapper, il Papa o qualche altro lavoro modesto, tipo il presidente della Repubblica. “Ti sembrerà un’idea strana, ma adesso vorrei lavorare sugli yacht, come deckhand.”
“Cioè?”
“È una specie di mozzo, quello che pulisce i ponti, guida le operazioni di ormeggio e di ancoraggio… praticamente Spugna di Peter Pan. Pensa che mi sono già informata sulle certificazioni da prendere e anche sugli stipendi. Nel momento in cui ho maturato quest’idea il mio umore è migliorato di molto.”
Quando ti disintossichi dagli obblighi, quando i ritmi si allentano e non ci sono più pressioni che ti spingano a procedere sulla corsia lungo la quale ormai stavi correndo senza più farti domande, si apre un tempo dilatato e strano in cui nulla ti distrae dal sognare. Si apre uno spazio fatto di ipotesi, in cui la psiche, nel proiettarsi in un’eventuale felicità, tra tutte le cose a cui potrebbe puntare, a volte sceglie quella che sembrerebbe la più lontana dalla tua portata. Il sole, il mare, il ponte di una nave: immagini simboliche di una libertà non confezionata e precotta, di un futuro che non sia generato in modo automatico dal tuo passato.
“L’anno scorso la mia prima psicologa mi aveva invitata a scrivere in forma di fiaba quello che mi stava succedendo. Era un modo per fare ordine e raccontare le cose in una maniera più leggera, meno aderente al reale quotidiano. È una paginetta. Se vuoi te la giro, magari ti aiuta.”
“Mandamela. La leggo volentieri.”
“Ce l’ho nelle note del telefono. Te la invio su Whatsapp o via mail?”
“Come credi. Anche su whatsapp va bene… Beh, io direi che ci siamo. Che ne dici?”
“Penso di sì.”
“Se poi dovesse venirti in mente qualcosa che vuoi aggiungere, scrivimi. D’accordo?”
Ci salutiamo.
Caligola passa sotto la sedia e chiede di uscire sul balcone. Non piove più. Dalla ringhiera l’acqua cola lenta raccogliendosi in gocce nelle quali, prima che cadano, si capovolge per un istante una frazione di cielo e la cima di quel palazzo più alto due vie più in là. Con un dito ne raccolgo una e me la infilo in tasca prima di rientrare.
Nella fiaba che ha scritto, Cecilia si racconta principessa in un castello enorme, nel quale all’improvviso qualcosa le impedisce di uscire dalla sua stanza. Sola, isolata senza comprenderne la ragione, si domanda se ne abbia colpa e non riesce a convincere chi le parla da dietro la porta del fatto che non sia una sua scelta rimanere lì dentro. In realtà nulla impedirebbe ad altri di varcare la soglia, ma solo suo padre entra a tenerle compagnia.
Le parla, inventa giochi, le rimane vicino senza pretendere di capire e senza ricordarle quello che le è diventato inaccessibile. Più tempo trascorrono insieme, più la stanza pare allargarsi, come se le pareti e il soffitto si allontanassero lentamente e i confini della sua prigione iniziassero a svanire.
Finché, un giorno, un vento nuovo spalanca la finestra e la principessa, uscita in giardino, per la prima volta guarda da fuori quel castello enorme, che ora, rispetto al resto del mondo appare poco più grande della stanza in cui era confinata.
Rileggo quanto stavo scrivendo in merito a un autore di teatro dell’assurdo poco prima della telefonata di Cecilia e mi meraviglia come lei sia riuscita a rendere in forma di fiaba un vissuto che invece rasenta i testi di Beckett.
Aspettare una soluzione come Vladimiro ed Estragone aspettano Godot in un non-tempo, in un non-senso, vivere come Winnie di Giorni felici sepolta fino alla vita e poi fino al collo in un mucchio di sabbia, cercando e trovando ogni volta nella sua borsa un oggetto che dia uno scopo ai giorni.
“Dopo la diagnosi, ho detto a papà che mi piacerebbe trovare un modo per essere soddisfatta delle mie giornate, anche se tutto questo dovesse protrarsi all’infinito. Perché si può convivere persino con una situazione del genere, ci si può riadattare, è possibile trovare cose di cui accontentarsi o addirittura essere felici.”
Mi ha detto così un attimo prima di chiudere la telefonata. Parrebbero parole di una ragazza pacificata, quasi serena, ma qualche giorno fa, mentre ormai a Parigi si svolgono i giochi olimpici, ricevo un audio in cui mi dice che sta “friggendo” nel veder gareggiare lì le persone con le quali si allenava, ora che da sola non riesce neanche farsi una doccia, vedere gli azzurri che contano le medaglie, mentre lei conta i passi che riesce ancora a fare. Prima di salutarmi però aggiunge:
“Nonostante tutto è venuta fuori una cosa buona. Ho appena sentito uno degli atleti da Parigi. Uno che lo scorso anno ha avuto un aneurisma cerebrale e adesso è lì, convocato per le gare. Sai, nell’ambiente le voci girano e sapeva qualcosa di quello che mi è successo. Così mi ha dato il contatto della neurofisioterapista della federazione di scherma che lo ha aiutato con la riabilitazione motoria. Le ho già scritto e mi ha detto che ci sentiamo nei prossimi giorni. Magari non ti servirà per quello che stai scrivendo, ma te lo dico perché sono contenta… Ah, se sei già in Corsica, buon mare!”
C’è’ un muscolo che l’encefalomielite mialgica non ha colpito, quello della speranza.
Li vedo su una pedana. Cecilia: 1 - Beckett: 0. Quante stoccate ancora per vincere?
Al ponte otto, sulla terrazza del bar di poppa, una coppia di anziani appoggiata alla balaustra si divide un gelato, attardandosi a guardare la scia di spuma che la nave semina in mare.
Tra me e loro una parata di tavolini quadrati e intorno a ciascuno una prole di tre o quattro sgabelli vuoti identici al genitore, in scala. Bah… io li avrei fatti tondi.
Gli altoparlanti impongono ai pochi avventori il ritmo da spiaggia di una brutta canzone francese, coprendo il rumore dei motori e del frangersi delle onde. Di nuovo il solito cocktail di località esotiche e amori estivi. Metto gli auricolari e faccio partire una playlist per isolarmi, mentre finisco di scrivere queste pagine. Dal trasportino Caligola mi guarda disgustato.
“Mi spiace, non ho un paio di auricolari anche per te.” Lui socchiude gli occhi, si volta dall’altra parte e si lava le orecchie con rassegnazione. Scorrono i brani come questo traghetto tra il Mar Ligure e il Tirreno e i mei occhi sugli appunti presi giorni fa, durante quella telefonata.
Questo non è uno yacht né una nave da crociera, ma trovo sia una coincidenza felice scrivere di Cecilia viaggiando per mare.
Cerco sul notes, tra le righe e le macchie di tè, una frase, un’immagine che mi guidi in porto, al molo giusto cui attraccare.
Poche parole che non restituiscano solo il senso di un’odissea dolceamara, senza gloria, né dei, né un’Itaca in vista, ma anche la stabile essenza di Cecilia, che non si riduce alla sua cartella clinica, né alle sue medaglie o al mio ricordo dei nostri giochi d’infanzia e vive invece in quella sua leggerezza nonostante. La riconosco in un suo pensiero annotato di sbieco su un margine che non si è macchiato:
“Sì, è vero, sono costretta a stare sempre sdraiata, però devo dirti che rispetto a quando guardavo solo davanti a me, da questa posizione, ho la fortuna di trascorrere molto tempo osservando il cielo.”
Il riff d’archi di Bitter Sweet Symphony dei The Verve si rincorre in loop negli auricolari. Sembra che qualcuno stia suonando lontano, oltre il mare, poi è come se la musica planasse sul ponte, aumentando in volume e ritmo.
Quando, al nono giro d’archi, si aggiungono le percussioni e alzo lo sguardo, non mi è difficile vedere un uomo che nuota nel cielo sopra il traghetto. È calvo, magro, indossa una camicia bianca molto larga.
Volteggia alzandosi e abbassandosi secondo l’andamento circolare della musica, secondo il vento e le correnti. Un refolo dal basso potrebbe riportarlo là sulla ciminiera della nave dalla quale forse ha preso il volo o ancora più su, oltre le nuvole, come in una tela di Chagall.
Vorrei conoscere l’espressione del suo viso in questo momento.
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Grazie per aver raccontato anche questo genera di storia, in cui non nasci nella sfortuna ma è il tuo corpo a perdere una partita di roulette russa a cui non sapeva di star giocando. Paradossalmente è quasi "rassicurante" sapere che ci sono così tanti modi in cui la vita può mettertelo in quel posto, senza badare a quante volte l'abbia già fatto in passato o a quanto sia giá in profonditá lì dove non batte il sole: quantomeno questa consapevolezza ti fa essere grato che le cose non vadano peggio, il che non è poco.
Grazie Guido, è sempre un piacere leggerti <3
Questo racconto mi pare non sia proprio legato al tema della frustrazione giovanile, qui si parla di malattia e del modo di reagire alla sofferenza, che può riguardare e riguarda anche gli adulti.
A proposito invece del tema relativo al pessimismo, alla mancanza di fiducia nel futuro e della conseguente forma di apatia che spesso assale i ragazzi oggi, quando nulla pare più possibile realizzare, sia in ambito lavorativo che personale, mi domando da un po’ di tempo se sia tipica soprattutto dei giovani italiani, se coetanei francesi, tedeschi o europei in genere, soffrano della stessa sindrome che annichilisce. Fondamentalmente è una questione psicologica o culturale?