Una democrazia aperta ai movimenti per vincere l’indifferenza
IL DIBATTITO DI APPUNTI - La rabbia che oggi ci spaventa è uno dei modi in cui si declina quella tendenza a indignarsi e protestare contro lo status quo che alle democrazie serve molto
Non è detto, a quel punto, che la rabbia debba per forza essere sanificata, incanalata e trasformata in partecipazione organizzata o convenzionale. Può rimanere in uno stato relativamente disorganizzato e fluido
Luca Falciola
Buongiorno,
in questa estate caldissima continuo a ricevere contributi molto interessanti al nostro dibattito su come rispondere alla politica della rabbia.
In questa fase in cui la politica sembra tornare un po’ sonnacchiosa, magari distratta dalle Olimpiadi, è il momento per fermarsi un secondo a riflettere.
Oggi c’è Luca Falciola, che è lecturer in Storia contemporanea alla Columbia University ed è un esperto di movimenti, come capirete anche leggendo il suo bel pezzo.
Come sempre, fateci sapere cosa ne pensate,
grazie
Stefano
Il dibattito di Appunti - Come rispondere alla rabbia
I sostenitori della democrazia liberale sembrano destinati a diventare una frustrata minoranza, per effetto della rapida scomparsa dei partiti più moderati, per l’ascesa delle destre radicali e per l’affermarsi di figure e forze anti-sistema, non più soltanto populiste ma anti-democratiche.
Da Donald Trump negli Stati Uniti, ad Alternative für Deutschland in Germania, a Nigel Farage in Gran Bretagna, a Marine Le Pen e Jordan Bardella in Francia.
Questo rinnovato successo delle foze più antidemocratiche ha colto molti di sorpresa e suscita sconcerto.
Cosa si può fare? Ne discutiamo su Appunti per tutta l’estate a partire dal libro di Carlo Invernizzi-Accetti Vent’anni di rabbia (Mondadori)
La rabbia utile dei movimenti
Neanche quindici anni fa, molti di noi furono scossi dall’appello di un anziano partigiano francese, sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti e divenuto uno dei redattori della Dichiarazione universale dei diritti umani, Stéphane Hessel.
Nel suo breve pamphlet, Indignatevi!, Hessel spronava le nuove generazioni a far rivivere il “motivo di base” della Resistenza, ovvero “l’indignazione”. Indignarsi per “impegnarsi” politicamente – non importava per cosa, diceva Hessel, c’era l’imbarazzo della scelta, dalla crescita della diseguaglianza sociale alla questione palestinese.
Quel saggio vendette 4 milioni e mezzo di copie in 35 paesi. Illuminava, e tentava di contrastare, una realtà nella quale molti di noi si sentivano a disagio: apatico compiacimento per le virtù delle democrazie occidentali e poca voglia di arrabbiarsi, di insorgere contro le ingiustizie e di mobilitarsi politicamente in prima persona.
Solo alcune accettazioni sono accettabili?
Fast forward ad oggi. In quella che descriviamo come l’apoteosi del ventennio della rabbia, ci troviamo a ragionare su come sia possibile invertire la rotta, smorzare l’indignazione e chetare la rabbia sociale.
Ci interroghiamo, con passione e apprensione, su come trasformare questa emozione pre-politica in impegno democratico costruttivo, prima essa logori le fondamenta delle istituzioni a noi tanto care.
Eppure, c’è una specie di cortocircuito in questo ragionamento. Seguendo l’analisi di Carlo Invernizzi-Accetti, la rabbia del ventennio appena trascorso assomiglia, nella sostanza e con tutti i distinguo semantici, all’indignazione che Hessel invocava e, ripeto, molti di noi auspicavano.
Ora, a costo di apparire antipatici, è necessario domandarsi se l’esortazione a indignarsi ci entusiasmi soltanto come affermazione di principio, per poi spaventarci quando prende forma e vita proprie.
È opportuno chiedersi se e perché alcune indignazioni ci paiono legittime, altre meno accettabili e altre ancora per niente legittime. Più in generale, occorre domandarsi quale spazio siamo disposti a concedere nell’arena democratica alla “politica conflittuale” e all’azione diretta.
Questa premessa mi suggerisce una possibile indicazione su come affrontare il radicalismo politico selvatico di cui parla Invernizzi-Accetti: cercare di leggere e di accogliere la rabbia sociale, anche nelle sue forme potenzialmente disgreganti, come fisiologica e non per forza patologica.
Provare a distinguere più accuratamente, da un lato, la rabbia spontanea e le sue ragioni (più o meno fondate) e, dall’altro, l’uso della rabbia e la speculazione che ne deriva.
Evitare, dunque, allarmismi e previsioni apocalittiche, le quali beninteso non stanno nel libro stimolante di cui parliamo, ma certamente affollano il dibattito mediatico e politico.
Almeno tre ordini di motivi sorreggono questa indicazione; uno storico, uno demografico e uno strategico.
Dalla rabbia alle riforme
Per prima cosa, la storia dei movimenti di contestazione è maestra e suggerisce una lunga e affollata cronologia di ‘arrabbiati’, i quali non hanno per forza scardinato le istituzioni democratiche.
Certo, in molti casi hanno assestato duri colpi e feroci attacchi a queste istituzioni, ma le hanno anche fatte crescere più forti, spesso involontariamente. Si pensi ai movimenti degli anni Sessanta e Settanta, con i loro “enragés” e i loro “days of rage” in quasi tutti i paesi dell’Occidente.
Dopo lo shock e la repressione, hanno generato riforme democratiche, trasformato partiti e sindacati e attivato cambiamenti culturali duraturi. Esistono ovviamente eccezioni e limiti. Non mi sfugge il fatto che la violenza abbia puntualmente corrotto e lacerato il tessuto sociale.
Non mi sfugge che sia difficile, se non impossibile, leggere un episodio urticante come l’assalto a Capitol Hill nel 2021 come innocuo o addirittura fecondo per la democrazia. Eppure pensare alle democrazie senza conflitto è ingenuo e miope.
Si tratta di una retorica politica ben radicata, la quale emerge anche negli Stati Uniti di questi giorni, laddove si racconta che ogni passaggio politico sia stato sempre determinato dal rito pacifico del voto e la violenza è avulsa dal sistema. Ma è una retorica fondata su un mito.
Occorre anche ricordare che le democrazie mature dell’occidente non sono eterne e invincibili, ma dispongono di anticorpi robusti e, paradossalmente, questi anticorpi si allenano e si fortificano sotto stress.
Le recenti elezioni francesi hanno dimostrato questa resilienza. Anche le elezioni europee hanno confermato, seppure sotto traccia, che la rabbia delle cosiddette maree nere e populiste non dominano per forza e per sempre, specie tra i giovani elettori.
La peggiore strategia per chi voglia difendere la cornice democratica è appunto opporsi alla rabbia con la denuncia preventiva e con la marginalizzazione
L’indifferenza dietro la rabbia
C’è poi una ragione demografica che suggerisce di non suonare l’allarme e precipitarsi al capezzale della democrazia. Molti dei movimenti di cui parla Invernizzi-Accetti – peraltro molto eterogenei tra loro – anche quando hanno assunto forme di massa non hanno mai rappresentato maggioranze.
La rabbia ha sì caratterizzato segmenti rumorosi e appariscenti delle popolazioni occidentali, da Occupy Wall Street ai Gilets Jaunes, ma è sempre rimasta confinata a minoranze.
Pertanto, il nostro zoom deve allargarsi. E così intuiamo che sotto la punta di ghiaccio visibile degli arrabbiati c’è un iceberg più grande fatto di indifferenza. In altre parole, si può ipotizzare che il vero male dell’ultimo ventennio non sia stato tanto l’indignazione rabbiosa dei pochi ma, forse soprattutto, la scarsissima partecipazione dei molti: il disinteresse delle maggioranze nei confronti delle forme di partecipazione politica convenzionali.
Politologi e sociologi ne parlano da decenni. La magra affluenza alle ultime elezioni europee sembra corroborare questa analisi, ma è solo l’ultima conferma in ordine di tempo. Come noto, tale diserzione lascia il campo libero ad una panoplia di forze non democratiche, siano esse tecnocratiche o economiche.
C’è infine una ragione pratica che induce ad evitare demonizzazioni affrettate degli arrabbiati. Come ha giustamente evidenziato Invernizzi-Accetti, la rabbia si nutre di mancato riconoscimento sociale.
La peggiore strategia per chi voglia difendere la cornice democratica è appunto opporsi alla rabbia con la denuncia preventiva e con la marginalizzazione.
Ad esempio, chi oggi grida al pericolo fascista indiscriminatamente tende a dimenticare come la ghettizzazione del neofascismo italiano sia stata trasformata in enorme capitale politico dallo stesso e abbia infine giocato a suo vantaggio, tanto da indurre ad una paradossale auto-ghettizzazione (e auto-vittimizzazione) che cresce dai tempi della guerra fredda. Se è sacrosanta la denuncia delle idee anti-democratiche, essa deve farsi più selettiva e strategicamente più sofisticata.
Concludo tornando alla domanda preliminare che dovrebbe sorreggere il nostro ragionamento, quella sugli spazi che siamo disposti a concedere alla politica del conflitto – la politica che chiede brutalmente riconoscimento e si esprime su base emotiva, per lo più al di fuori delle istituzioni politiche.
Per trovare i confini degli spazi ‘accettabili’ e le forme di dialogo, come ho cercato di spiegare, occorre anzitutto osservare quelle espressioni di dissenso con lenti calibrate, che mettano a fuoco le (dis)continuità storiche, ridefiniscano le vere o presunte anomalie, e identifichino i pericoli reali.
Non è detto, a quel punto, che la rabbia debba per forza essere sanificata, incanalata e trasformata in partecipazione organizzata o convenzionale. Può rimanere in uno stato relativamente disorganizzato e fluido. Poste alcune regole ferme come il rispetto della nonviolenza, essa può convivere con la pratica democratica, sfidarla e alimentarla.
Ovviamente tutto ciò richiederà sforzi imponenti e tempi lunghi. Si dovranno adattare sistemi democratici concepiti su altre premesse e trovare sinergie proficue. Ma, all’indomani del secolo breve e dei vent’anni della rabbia, una democrazia aperta ai movimenti – o “inquieta”, come la definisce Francesco Ronchi in questo dibattito – potrebbe rappresentare un’àncora di salvataggio per la democrazia tout court.
È invece certo che la parte nascosta dell’iceberg, quella dell’indifferenza denunciata da Hessel e “odiata” da Gramsci cent’anni prima, può affondare la nave democratica.
La "rabbia" è uno stato d'animo che va prevenuto evitando che le sue manifestazioni producano danni a persone, cose o istituzioni.
L'indignazione deve evolvere in "azione costruttiva" prima che involva in rabbia o rassegnazione, frustrazione e indifferenza.
La nostra Costituzione ci mette a disposizione gli strumenti, gli artt 71 e 50, perché questo possa accadere. Articoli che finora sono stati esercitati in modo troppo debole per assemblee parlamentari mediocri ed arroganti, ma che esercitati in congiunzione sinergica, possono acquisire un'efficacia assoluta.
"Re-agire con la Costituzione per non soccombere sotto la mediocrità": si può fare anche per riportare nel gioco democratico gli Astenuti per sfiducia nell'offerta politica, non chiedendo loro di credere a promesse e programmi a futura incerta verifica, ma invitandoli all'Azione Collettiva Costruttiva per ottenere riforme e leggi attese, tali da cambiare la qualità della democrazia e del futuro.
Occorre un' "entità credibile" che si faccia carico di avviare la "pratica" molto attesa: l'esito sarebbe scontato!
"...la ghettizzazione del neofascismo italiano sia stata trasformata in enorme capitale politico dallo stesso e abbia infine giocato a suo vantaggio, tanto da indurre ad una paradossale auto-ghettizzazione (e auto-vittimizzazione) che cresce dai tempi della guerra fredda. Se è sacrosanta la denuncia delle idee anti-democratiche, essa deve farsi più selettiva e strategicamente più sofisticata."
Oggi è il 2 agosto, una data che simboleggia plasticamente e dolorosamente come il neofascismo in questo Paese abbia sempre goduto, e ancora oggi goda, di un'accettazione diffusa e della indicibile condivisione di pezzi delle istituzioni democratiche.
Ghettizzazione?!
Abbiamo davanti gli occhi gli effetti della selettività, delle strategie, dei sofisticati discorsi sui "morti tutti uguali", che hanno avuto il solo effetto di normalizzare quello che avrebbe dovuto e dovrebbe essere, solo e sempre, combattuto.