Troppo digitali
Ora che le nostre vite e le nostre case sono sempre connesse, abbiamo smesso di essere consumatori per diventare utilizzatori. Così rinunciamo alla proprietà sugli oggetti e all'autonomia
Il passaggio da un’era in cui gli oggetti non erano in grado di vederci, ascoltarci, percepirci a un’era in cui questi ultimi sono in grado di fare tutto questo – e molto di più - è una soluzione di continuità di fondamentale importanza nella lunga storia delle merci di uso quotidiano Jacopo Franchi
Uno su due: secondo i dati Eurostat, questa è la percentuale di cittadini europei che nel 2022 hanno utilizzato almeno un oggetto connesso all'interno della propria abitazione, come tv, smartwatch, occhiali indossabili, abiti connessi, videogame, smart speaker, lampadine, termostati "smart" e molto altro ancora.
L’Italia non fa eccezione, come dimostrano i dati della 13esima edizione dell’Osservatorio Smart Things del Politecnico di Milano, secondo cui il 60 per cento delle persone dichiara di avere in casa propria almeno un oggetto connesso alla Rete. A trainare il mercato sono, senza troppe sorprese, soprattutto i dispositivi per la sicurezza.
Non si tratta più, quindi, solo di smartphone o pc che si collegano alla Rete e che espongono i loro utilizzatori a tutta una serie di rischi riguardanti l’estrazione di dati personali, le truffe, gli attacchi informatici, il phishing, e tante altre conseguenze più e meno spiacevoli che abbiamo imparato a conoscere in questa lunga adolescenza della società digitale.
I punti di accesso alla Rete si moltiplicano, anche in assenza di schermo, e con essi i rischi associati.
Tutto è digitale
Ogni cosa analogica può essere digitalizzata – chi non vorrebbe, a parità di prezzo, un letto, una televisione, una macchina connessa, in cambio di maggiori possibilità d’uso? – e un numero crescente di oggetti “nativi digitali” vengono immessi sul mercato.
Senza accorgercene, siamo passati dalla fase in cui Internet era un luogo a cui collegarsi e l’era in cui saremo costantemente immersi in esso, a partire dalle nostre abitazioni private.
A cambiare, tuttavia, non sono solo gli oggetti, ma anche il rapporto che abbiamo con questi ultimi. Alcuni oggetti connessi possono essere fruibili solo su abbonamento, altri richiedono un pagamento aggiuntivo per sbloccare tutte le proprie funzionalità.
Oggetti un tempo indifferenti alle nostre attività quotidiane ora sono programmati per estrarre continuamente dati personali da noi e da chi vive sotto lo stesso tetto.
Oggetti non più aggiornati, o non aggiornati a dovere, possono essere manipolati dall’esterno contro la nostra volontà, e diventare potenziali fonti di rischio alla nostra incolumità mentale e fisica.
Soffermarsi, anche solo per il tempo di leggere questa newsletter, sulle possibili conseguenze degli oggetti connessi presenti nelle nostre abitazioni vuol dire prendere consapevolezza di un cambiamento radicale che è avvenuto o sta avvenendo nelle nostre consuetudini.
Il passaggio da un’era in cui gli oggetti non erano in grado di vederci, ascoltarci, percepirci a un’era in cui questi ultimi sono in grado di fare tutto questo – e molto di più - è una soluzione di continuità di fondamentale importanza nella lunga storia delle merci di uso quotidiano.
Chi si ricorda la vicenda della bambola connessa “Cayla”, messa al bando perché sospettata di essere uno strumento di spionaggio ai danni di bambini e genitori? Chi si ricorda la storia degli ascoltatori professionisti di Amazon Alexa, svelati per la prima volta da Bloomberg?
Chi ha riflettuto sul significato della rimozione improvvisa degli ebook dalle librerie virtuali di migliaia di persone dopo la chiusura del Microsoft Store?
E chi ha seguito fino in fondo le vicende degli elettrodomestici smart di Insteon, improvvisamente divenuti inutilizzabili dopo il fallimento dell’azienda? O delle telecamere connesse di Wyze, che hanno condiviso le immagini scattate dall’interno delle case di migliaia di clienti con altrettanti sconosciuti?
Da consumatori a utilizzatori
Le storie riguardanti i malfunzionamenti, gli abusi, le violazioni, l’esposizione di minori e adulti e i rischi fisici e psicologici derivanti dall’utilizzo di oggetti connessi in ambiente domestico sono sempre più numerose - anche se poco indagate dalla grande stampa generalista - ed è a partire da questi casi reali di cronaca che ho preso spunto per la scrittura del mio libro L’uomo senza proprietà. Chi possiede veramente gli oggetti digitali?, pubblicato da Egea Editore con una prefazione della professoressa Anna Maria Mandalari dello UCL.
Il libro raccoglie storie più e meno conosciute, con un’attenzione particolare alle vicende più recenti, per analizzare le conseguenze degli oggetti connessi dal punto di vista della privacy, della sicurezza, del risparmio e delle possibilità di controllo degli acquirenti e utilizzatori di questi ultimi.
Soprattutto, e qui vorrei richiamare l’attenzione, di quegli utilizzatori che solitamente hanno poca o nessuna voce in capitolo in merito agli acquisti: i parenti a carico, dai bambini agli adolescenti, dagli infermi agli anziani.
Acquistare? A uno sguardo più approfondito ci si rende conto che quello che le persone acquistano con un oggetto connesso – sia esso uno smart speaker o un ebook, una televisione o una videocamera – non è quasi mai una proprietà esclusiva, ma il diritto a un utilizzo vincolato ai termini delle licenze d’uso dei software che quegli oggetti fanno funzionare.
Un ebook non offre le stesse possibilità di prestito, rivendita, ereditarietà di un libro cartaceo, e la stessa cosa vale per qualsiasi prodotto digitalizzato o connesso a Internet presente in casa nostra e che non è mai sotto il nostro completo controllo.
Le conseguenze non sono di natura puramente individuale, e la diffusione di oggetti connessi solleva oggi importanti interrogativi in merito alle possibilità di riparare, riciclare, rivendere merci prodotte in quantità crescente e con un impatto notevole sull’ambiente, la società, le persone che contribuiscono alla sua realizzazione.
La proliferazione di software connessi alla Rete pone inoltre il problema della sicurezza collettiva, nel momento in cui ogni oggetto connesso può essere vittima di attacchi hacker che possono mettere a rischio l’incolumità di persone nei dintorni o di intere infrastrutture potenzialmente rilevanti.
Case troppo digitali
Quello su cui ho deciso di dedicarmi, tuttavia, è l’impatto di questa nuova tipologia di merci all’interno di uno spazio tradizionalmente visto come privato, intimo, invalicabile: l’abitazione personale, dentro cui si muovono anche altre persone che non necessariamente condividono con l’acquirente degli oggetti le medesime capacità di comprensione della loro reale pericolosità.
Uno smart speaker progettato per un pubblico adulto mal si adatta ai bisogni, alle necessità e alle vulnerabilità di un bambino. Una videocamera connessa può avere conseguenze diverse se a utilizzarla (o a esserne sorvegliato) è un anziano.
Senza voler scrivere l’ennesimo pamphlet contro la tecnologia, senza negare i numerosi vantaggi che derivano dalla possibilità di aumentare le funzionalità di un oggetto grazie alla sua connessione alla Rete, ho cercato di comprendere una trasformazione niente affatto scontata: dalle case analogiche alle smart home, da ambienti privati per definizione a primo punto di contatto con la Rete globale, da spazi esclusivi a luoghi in cui rinegoziare continuamente i propri diritti nei confronti di oggetti dotati del potere di essere manipolabili dalle aziende che li hanno prodotti, dai venditori che li hanno commercializzati, da coloro che ne detengono le credenziali di accesso.
Non è possibile sfuggire a questo rischio semplicemente rifiutandosi di portare dentro casa più oggetti connessi del minimo necessario, perché essi sono già presenti nelle case dei colleghi, degli amici, dei parenti, dei genitori degli amici dei nostri figli.
La digitalizzazione di ogni cosa è un processo in atto da anni e che lascia dietro di sé ben pochi luoghi vergini.
Essere costantemente esposti agli oggetti connessi rende oggi sempre più difficile sfuggire alla sorveglianza digitale e ai rischi riguardanti le moderne tecnologie, anche se si riduce al minimo la propria frequentazione dei social o si utilizzano browser ed e-mail alternative.
Senza voler inquietare più del dovuto, senza scivolare in visioni apocalittiche, il mio lavoro vuole mettere in guardia da qualsiasi pretesa di poter governare agevolmente una varietà così diversa di prodotti digitali le cui possibilità spesso oltrepassano anche i più distopici racconti di fantascienza.
Chi ha letto le testimonianze delle donne vittime di molestie domestiche compiute dagli ex partner attraverso gli oggetti “smart”? Chi ha approfondito le storie dei video rubati dai server delle aziende di videosorveglianza e condivisi sulle chat di Telegram? Chi si ricorda dei motivi che hanno portato a chiedere il ritiro della bambola Hello Barbie dal mercato?
E chi conosce la storia del programmatore che non riesce più ad accedere ai suoi 7.000 bitcoin perché ha dimenticato la password di accesso al dispositivo che ne conserva la chiave privata?
Storie, menzionate nel libro, che riguardano ambiti tra loro diversi – dai giocattoli per bambini alle criptovalute, dagli elettrodomestici smart ai libri digitali – unite da un unico filo conduttore: ciò che si trova all’interno di casa “nostra” non è più nostro in senso assoluto, ciò che un tempo rientrava sotto il nostro controllo esclusivo ora è soggetto a una continua rinegoziazione di limiti, possibilità e poteri tra individui e aziende, tra aziende e autorità di controllo, e tra questi ultimi e un variegato gruppo di persone mosse da obiettivi diversi.
Se è vero che l’”Internet delle Cose” rappresenta un ambito particolarmente sfidante per coloro che sono dotati delle competenze per prendere decisioni in autonomia, esso lo è ancora di più per tutti coloro che quelle competenze non le possiedono ancora o sono troppo anziani e occupati in altre faccende per poterle sviluppare.
Non è più sufficiente ritardare il momento del primo smartphone, del primo pc agli adolescenti, quando questi vivono immersi in una casa che funziona e ragiona come un gigantesco computer, e che li espone a una continua sorveglianza dei loro comportamenti e delle loro attività più intime.
Si pone, a questo punto, il dilemma se le leggi attuali e quelle di recente formulazione siano sufficienti per tutelare le persone e le categorie più a rischio in questo scenario in rapida trasformazione.
La mia opinione è che si sia voluto fino ad oggi scaricare sugli utenti una responsabilità di scelta – dal consenso al trattamento dei dati personali alla lettura di lunghe e complicate licenze d’uso – che non è sostenibile né liberamente esercitabile nel momento in cui prodotti e servizi connessi alla Rete sono nell’ordine delle decine, quando non delle centinaia in uno stesso ambiente, fisico e virtuale.
L’auspicio, dietro cui vorrei occultare il mio pessimismo, è che dalla lettura del mio libro e di altre opere che compongono la sua bibliografia (dall’ormai classico The End of Ownership di Aaron Perzanowski e Jason Schultz al più recente The Internet in Everything di Laura Denardis) un numero crescente di persone possa smettere di essere un semplice consumatore per diventare parte di un più ampio processo volto a favorire lo sviluppo di prodotti meno invasivi, meno vulnerabili, meno opachi di quelli attuali.
Ma sono consapevole che l’uomo senza proprietà, eco lontana di quell’uomo “senza qualità” di novecentesca memoria, resterà tale ancora per molto tempo, prima di riconoscersi e riconoscere i propri simili attorno a sé.
Jacopo Franchi è un social media manager e uno studioso dei nuovi media digitali. Lavora per l’hub di innovazione Cariplo Factory ed è membro del Digital Wellbeing Lab dell’Università Bicocca. Autore del sito di informazione e cultura digitale www.umanesimodigitale.com, ha pubblicato Solitudini connesse. Sprofondare nei social media (2019) e Gli obsoleti. Il lavoro impossibile dei moderatori di contenuti (2021).
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Come rispondere alla politica della rabbia: il dibattito su Appunti
I sostenitori della democrazia liberale sembrano destinati a diventare una frustrata minoranza, per effetto della rapida scomparsa dei partiti più moderati, per l’ascesa delle destre radicali e per l’affermarsi di figure e forze anti-sistema, non più soltanto populiste ma anti-democratiche.
Da Donald Trump negli Stati Uniti, ad Alternative für Deutschland in Germania, a Nigel Farage in Gran Bretagna, a Marine Le Pen e Jordan Bardella in Francia.
Questo rinnovato successo delle foze più antidemocratiche ha colto molti di sorpresa e suscita sconcerto.
Cosa si può fare? Ne discutiamo su Appunti per tutta l’estate.
Appunti e Dieci Rivoluzioni
Il Podcast: La Confessione
Ascolta La Confessione, il podcast di inchiesta che rivela per la prima volta da dentro come funziona il sistema di copertura e insabbiamento degli abusi sessuali nella Chiesa cattolica italiana.
Un podcast realizzato da Stefano Feltri, Giorgio Meletti e Federica Tourn, realizzato grazie al sostegno della comunità di Appunti. Con la collaborazione di Carmelo Rosa e la consulenza per musiche ed effetti di Stefano Tumiati.
Se mi posso permettere, quest'orrore e paura della tecnologia è tipicamente italiota. Nessun inglese metterebbe mai in discussione il proprio diritto alla privacy eppure in G.B. ci sono migliaia di software house che sviluppano questo tipo di software.
Capisco la preoccupazione dell'autore nei conforonti dei più deboli e lo condivido, ma posso dire al mio comune di togliere le telecamere davanti alla sede comunale perchè non voglio essere ripreso? Questa deriva della privacy esiste da un sacco di tempo, le prime centraline elettroniche nelle auto sono degli anni 90 e le prime leggi sono del 1996: è possibile che anche allora ci spiavano e registravano quando il motore era stato acceso e spento e quanti km avevo fatto?
Sulla casa connessa c'è un bellissimo racconto di Cory Doctorow, "Unauthorized Bread", nella raccolta "Radicalized" (2019).