Rabbia identitaria e democrazia sono incompatibili
IL DIBATTITO DI APPUNTI - Alcuni populismi - come quello trumpiano e di AfD in Germania - sfidano le nostre società alla radice. La risposta passa anche per un nuovo atteggiamento dei politici
Il populismo trumpiano non vuole infatti forzare un'inclusione degli ‘esclusi’ nel sistema, ma intende piuttosto sostituire coloro che avrebbero causato l’emarginazione
Alexander Privitera
Buongiorno,
spero abbiate passato un buon Ferragosto, nonostante il caldo. Oggi nel dibattito estivo di Appunti su come rispondere alla politica della rabbia interviene Alexander Privitera, che è Senior non resident Fellow all’American Institute for Contemporary German Studies at Johns Hopkins University e insegna European Banking Integration all’Università degli Studi Guglielmo Marconi.
Il dibattito di Appunti - Come rispondere alla rabbia
I sostenitori della democrazia liberale sembrano destinati a diventare una frustrata minoranza, per effetto della rapida scomparsa dei partiti più moderati, per l’ascesa delle destre radicali e per l’affermarsi di figure e forze anti-sistema, non più soltanto populiste ma anti-democratiche.
Da Donald Trump negli Stati Uniti, ad Alternative für Deutschland in Germania, a Nigel Farage in Gran Bretagna, a Marine Le Pen e Jordan Bardella in Francia.
Questo rinnovato successo delle foze più antidemocratiche ha colto molti di sorpresa e suscita sconcerto.
Cosa si può fare? Ne discutiamo su Appunti per tutta l’estate a partire dal libro di Carlo Invernizzi-Accetti Vent’anni di rabbia (Mondadori)
Come sempre, fateci sapere cosa ne pensate.
Visto che ha suscitato molte reazioni, vi ricordo il mio pezzo che è uscito ieri, su come la transizione digitale ha distrutto i giornali e su perché “l’età del traffico” sta finendo:
Buona giornata,
Stefano
Arginare la rabbia populista
di Alexander Privitera
Spiegare vent’ anni di rabbia populista con argomentazioni puramente economiche ha dimostrato di essere un metodo insufficiente.
Il fenomeno è certamente il risultato di un malessere provocato dagli effetti dislocativi della globalizzazione. È senza dubbio anche la conseguenza di politiche di austerità che hanno acuito un senso di emarginazione economica da parte di quanti si sono scoperti perdenti in un sistema che non risponde più alle loro esigenze. Ma tutto ciò non basta.
Serve una chiave di lettura alternativa, o forse meglio, complementare, quella offerta in questi appunti da Stefano Feltri e Carlo Invernizzi-Accetti.
Ampliando suggerimenti fatti anche da un numero di studiosi statunitensi, Francis Fukuyama, con Identity o più recentemente Robert Kagan nel suo libro Rebellion, per citarne alcuni, questi autori sottolineano come la spinta populista sia anche, e secondo loro, soprattutto, dovuta a una mancanza di riconoscimento che avrebbe provocato in molti cittadini un crescente disagio, dovuto a un senso di esclusione ed umiliazione.
Lontani dai centri di potere, politico ed economico, questi soffrirebbero di una perdita d’identità, reale o percepita, che avrebbe indebolito il loro rapporto con gruppi politici tradizionali e con le istituzioni liberal democratiche.
Un diffuso malessere che, una volta diventato rabbia, ha indubbiamente inceppato il dialogo canalizzato attraverso i tradizionali e razionali filtri della democrazia rappresentativa. Invernizzi ipotizza addirittura la necessità di un cambiamento paradigmatico nel dibattito democratico in un’era caratterizzata dal populismo.
Invita coloro che sono arrabbiati a definire nuovi modi per riaffermare la loro identità e riprendersi il loro spazio politico, non aspettare cioè che qualcuno dall’ alto dia loro ciò che nessun potere mai è disposto ad offrire senza una pressione che ne forzi la mano. È un’approccio interessante.
Suggerisce di formare nuovi corpi intermedi che possano arricchire la dialettica democratica, distorta in tempi recenti da dibatti che avvengono sempre più spesso nei compartimenti stagni dei social media, nei quali i cittadini cercano il contatto virtuale con persone che la pensano come loro, e alimentano poi un dialogo con gli ‘altri’ che diventa quasi sempre scontro emotivo.
Ritrovare un più efficace metodo democratico partecipativo presuppone però prima di tutto la riconduzione della ‘rabbia’ ad uno stadio di razionalità che il populismo nega.
Un’ulteriore difficoltà è dovuta al fatto che l’evoluzione populista più recente, da diffusa e più difficilmente definibile nella sua fase iniziale, Invernizzi ne ripercorre il tragitto, è divenuta soprattutto un fenomeno nazional-populista.
Ciò ha reso una risposta alla rabbia più complicata, poiché sono ormai riconoscibili in vari fenomeni nazional populisti tendenze autoritarie, nelle quali il malcontento viene sfruttato per svuotare di significato le basi sulle quali poggiano le democrazie rappresentative.
La rivincita degli arrabbiati e i nuovi esclusi
Basta uno sguardo agli Stati Uniti per capire come dialogo e rabbia siano divenuti sempre più difficilmente riconciliabili. Il fenomeno trumpiano prevede infatti la delegittimazione sistematica dei propri oppositori.
Cavalcando efficacemente idee complottistiche secondo le quali Barack Obama non sarebbe nato negli Stati Uniti, Trump ad esempio suggerì per anni che il primo presidente nero nella storia statunitense non fu in realtà mai un legittimo inquilino della Casa Bianca. Sconfitto alle urne, Trump non volle riconoscere la vittoria elettorale di Joseph Biden nel 2020.
Gli oppositori di Trump hanno finito per trovarsi al di fuori del perimetro di legittimità, come da lui definito.
Il populismo trumpiano non vuole infatti forzare un'inclusione degli ‘esclusi’ nel sistema, ma intende piuttosto sostituire coloro che avrebbero causato l’emarginazione. Gli ‘outsiders’, i vecchi emarginati, diventerebbero così i nuovi ‘insiders’ e viceversa. Non è un caso che gli immigrati, specie se di origini diverse di quelle degli ‘arrabbiati’, siano il facile bersaglio del nazional populista.
Trump evita con cura contorni di ‘policy’ troppo ben definiti. Si è infatti guardato dal sostenere il progetto di governo radicale ma coerente, sviluppato da un think tank, un gruppo di esperti conservatore, a lui vicino, intitolato Project 2025 (progetto 2025).
Ciò che conta non è infatti un piano dettagliato quanto piuttosto di alimentare tra i seguaci la cieca fiducia nel capo, l’unico capace con caratteristiche quasi messianiche di rispondere alla rabbia e di ripristinare la grandezza americana e l’identità di coloro che si sentono marginalizzati.
Per avere successo il nazional populismo deve infatti prima sfruttare la rabbia, spesso provocandola, per poi far saltare schemi prestabiliti.
Coloro che mettono in dubbio la semplicità delle idee nazional populiste e tentano di rivelarne illogicità e contraddizioni, vengono bollati con disinvoltura come agenti di un’establishment che offusca la verità, per dividere ed escludere, e dunque non meritevoli di essere accettati come interlocutori legittimi dai populisti.
Da vittima di ingiustizie perpetrate da oscuri poteri forti, l’arrabbiato assume così nel proprio immaginario il ruolo di giustiziere capace di ristabilire un ordine che sarebbe stato disturbato da illegittimi usurpatori.
L’ umiliazione fornisce ai populisti quella spinta morale che nei casi più estremi, ad esempio l’assalto al Congresso americano da parte dei seguaci di Trump nel gennaio 2021, arriva a giustificarne azioni apertamente sovversive.
Il dialogo difficile
Anche in Europa rabbia e populismo stanno mettendo a dura prova le democrazie liberali. E malgrado molti obiettivi comuni, quali il desiderio di limitare drasticamente l’immigrazione, misura attraverso la quale si riacquisirebbe un senso di controllo sempre più perso negli ultimi due decenni, le varianti nazional populiste europee hanno comunque anche caratteristiche tra di loro diverse. Non è un caso che in Europa non sia ancora riconoscibile un fronte comune nazional populista.
La natura prevalentemente nazionalista alimenta piuttosto sospetti reciproci fra rappresentanti dei vari paesi.
Per capire quando ridotti siano gli spazi di confronto con il nazional populismo anche nel nostro vecchio continente, vale la pena di analizzare più da vicino l’evoluzione populista in un paese che per il suo ruolo centrale in Europa potrebbe assumere il ruolo di baluardo anti-nazional populista o, alternativamente, divenire invece l’ultima grande nazione europea a cedere alle sue tentazioni.
Parlo della Germania, il paese nel quale dal Dopoguerra finora nessuna forza populista nazionalista mai era riuscita ad avvicinarsi ai centri di potere politici. E’infatti qui che il nazional populismo viene più facilmente accostato a tendenze autoritarie, nello specifico, al passato nazional socialista.
È per questo che i nazional populisti in altri paesi europei, malgrado le somiglianze con la variante tedesca, ancora evitano di essere accostati troppo ai loro colleghi in Germania.
Certo, l’effetto dirompente e pericoloso di una deriva nazional-populista in Germania sarebbe particolarmente pronunciato. Il successo populista nella Repubblica Federale sancirebbe infatti il spesso evocato, ma non per questo meglio definito, ritorno dell’Europa delle nazioni.
Decreterebbe di fatto la fine di quell’unione che, per canalizzare e gestire inevitabili tensioni tra nazioni europee, aveva aggiunto all’ elemento nazionale uno strato sovranazionale comune, una sorta di incompleta democrazia rappresentativa europea.
La Alternative für Deutschland (AfD) è nata infatti come movimento anti-euro, divenne poi anti-immigrazione, ed si è ormai anche posizionato come partito anti-ecologista. Tutti temi questi che richiedendo risposte transnazionali, si prestano per essere ridefiniti come minaccia a sovranità e indipendenza nazionale.
Per diffondere efficacemente il proprio messaggio la AfD sfrutta un diffuso senso di perdita di controllo che tanto si nutre di timori crescenti di perdita di status socioeconomico e di identità culturale.
Il malessere in questo caso è sopratutto il risultato dei profondi cambiamenti avvenuti nella società tedesca, in particolare ad est, dalla riunificazione in poi. I partiti tradizionali hanno involontariamente contribuito ad alimentare questo disagio promuovendo molte delle proprie proposte non tanto come scelte politiche, quanto piuttosto come tappe di un percorso inevitabile, in molti casi, in particolare durante il governo di Angela Merkel, addirittura come ‘alternativlos’, come politiche cioè che non ammettono alternative.
Con gli anni, proprio in reazione ai tanti percorsi obbligati promossi dalla politica tradizionale, si è così sviluppato un mix combustibile di frustrazioni al quale il populismo ha finito per dare voce. Abilmente coltivato, il disagio è divenuto rabbia, lo stato emotivo del quale il populismo ha bisogno per confondere qualsiasi argomentazione razionale.
A coloro che hanno tentato di avvicinare la AfD al passato nazista, il partito ha risposto usando un canovaccio tipico del nazional populismo, abile nel posizionarsi in una zona grigia, attento a respingere l’accusa di rappresentare una minaccia per la democrazia, dipingendosi invece come vittima di un establishment politico che l’avrebbe sovvertita. Anche qui, come in altri episodi populisti, il sentirsi vittima avvicina il partito alla base legittimandone ed alimentandone la rabbia. Ne è scaturita la campagna di odio della AfD contro la stampa, la cosiddetta Lügenpresse, colpevole secondo la AfD di propagare menzogne sul partito.
Ne deriva il tentativo sistematico di minare questo tradizionale corpo intermedio, che, seppur indebolito dai social media, ricopre comunque ancora un ruolo rilevante nella dialettica democratica tedesca.
È non è un caso che il nazional populismo sia particolarmente forte nel vecchio est tedesco. È la parte del paese nel quale molti cittadini sono più predisposti a considerarsi vittime, prima del nazismo, poi del comunismo, e addirittura di una ‘colonizzazione’ da parte dell’ovest dominante.
Sarebbe infatti l’occidente colpevole di aver negato l’identità specifica dell’est ed il suo diritto a rivendicarla. È qui che le elezioni regionali in autunno potrebbero promuovere il nazional populismo della AfD a vettore dominante per rivendicare e difendere con forza un’identità specifica dell’ex est tedesco che non è definibile e quantificabile con parametri puramente economici.
Proprio qui ciò che Feltri ed Invernizzi hanno ipotizzato aprendo questo dibattito, emerge con particolare chiarezza. Ma se è vero che la rabbia identitaria non può essere contrastata solo con misure puramente economiche, qual è un metodo più efficace?
La questione morale
I politici hanno ormai compreso che il tempo non è dalla loro parte, perché gli elettori sono divenuti sempre più impazienti. I partiti tradizionali, in Germania o in Gran Bretagna e altrove, tentano di cooptare alcuni temi cari al populismo per smussarne gli angoli e riassorbirli. Spesso ciò però avviene non solo emulando i temi, ma spesso anche i toni del nazional populismo. Ma ciò basta per contrastarlo? O piuttosto, non si rischia di finire schiacciati quando si concede al proprio avversario il potere di iniziativa?
Forse per difendere le moderne democrazie rappresentative servirebbe prima di tutto la convinzione che il momento richiede uno spirito diverso da quello manifestato dalle forze democratiche in anni recenti, i cui interpreti troppo visibilmente appaiono distratti da giochi di potere e carriera personale.
In gran parte il rinnovamento della democrazia rappresentativa e dei suoi rappresentanti è anche morale.
Ripristinare un più giusto equilibrio fra l’idea di fare carriera e servire la comunità dovrebbe aiutare a convincere gli ‘arrabbiati’ ad abbandonare una fase puramente emotiva per ritrovare la capacità di comunicare in modo più razionale.
Per gli organi intermedi che fungono da cerniera tra le varie parti di una società moderna, questo vuol dire agire con ancora maggiore responsabilità. È un’appello che non va solo indirizzato ai partiti.
Per i media ciò vuol dire fra l’altro di resistere alla tentazione di informare in modo sopratutto emotivo. Basta guardare a vent’anni di polemiche anti-europee sulla stampa britannica per capire che esse hanno senza dubbio contribuito alla Brexit.
L’uscita del Regno Unito dall’ Unione europea e i recenti sondaggi registrati nel paese, che ormai indicano forti tendenze pro-europee, forniscono una prova piuttosto evidente di un percorso populista che spesso passa dall’ indignazione al, seppur parziale, pentimento. La lezione è che la rabbia populista certo non sarà superata continuando ad aizzare emozioni.
Non credo affatto che la soluzione passi soprattutto da una migliore immagine che i politici dovrebbero dare di sé, un politico può apparire onesto e non interessato alla carriera personale ma portare comunque avanti politiche antipopolari che fanno giustamente incazzare la maggioranza delle persone. Tra l'altro mi trovo a scrivere questo commento proprio poche ore dopo che la democrazia rappresentativa tanto osannata dalle élite quando devono far passare qualche provvedimento sgradito è stata per l'ennesima volta ignorata in Francia dove Macron, che non può permettere a chi ha vinto le elezioni di governare perché di sinistra e inviso all'establishment finanziario, ha nominato Primo Ministro appunto un esponente di un partito che ha perso le elezioni. Basta prenderci in giro dai, Afd non è altro che la Merkel senza l'ipocrisia felpata che contraddistingue chi frequenta le stanze dei bottoni, nessuna differenza sostanziale né nelle politiche - fatte e proposte - né nell'ideologia che le anima. Continuare a raccontarsela fingendo di vivere ancora in democrazia a cosa serve? Almeno qui tra di noi possiamo essere onesti.
Se il fordismo ha caratterizzato il '900 (compresa la brutalità degli stermini si massa) il modello basato sul "personal", supportato dal controllo in poche mani dell'informatica e del suo strapotere, è in grado di frammentare oggi la società inducendo solitudine, rabbia e disperazione. All'identità si classe (dissoluzione dei corpi intermedi) si è sostituito la frammentazione delle identità, neppure di status, ma di opinione, manipolabili a proprio vantaggio da chi detiene il controllo dells tecnologia