No conflitto, no party
IL DIBATTITO DI APPUNTI - I populisti ci fanno credere che il conflitto politico sia localizzato nell’immoralità delle élite, dunque perverso, ma anche eliminabile. Non è così
Descrivere il popolo come omogeneo nega legittimità alle visioni conflittuali di cui il popolo, come gruppo, è composto: questi conflitti interni non solo non si dissolvono ma, se repressi, possono dar origine a forme di rabbia dirompente
Ilaria Cozzaglio
Buongiorno,
dopo una breve pausa legata anche alle mie quasi-ferie, torna il dibattito estivo di Appunti su come rispondere alla politica della rabbia, a partire dal libro di Carlo Invernizzi Accetti Vent’anni di rabbia che spero ormai abbiate letto tutte e tutti.
Oggi interviene con un pezzo molto brillante Ilaria Cozzaglio, che è docente di filosofia delle scienze sociali all’Università di Amburgo dopo essere stata ricercatrice presso il centro Normative Orders della Goethe Universität di Francoforte. Ha conseguito il dottorato in Studi Politici presso la Graduate School in Social and Political Sciences dell'Università degli Studi di Milano ed è stata visiting PhD student presso il University College London.
Come sempre, fateci sapere cosa ne pensate.
grazie,
Stefano
No conflitto? No party!
di Ilaria Cozzaglio
Correva l’anno duemila quando in un celeberrimo spot George Clooney veniva lasciato alla porta, reo di non aver portato con sé una bottiglia di Martini rosso: “No Martini? No Party”, gli diceva lei, sbattendo scocciata.
L’anno Duemila, si diceva, un ventennio fa. Due, tra molte cose, erano diverse da oggi. La prima: nonostante la “Milano da bere” – segnaposto, di nuovo, uno spot pubblicitario – fosse già alle spalle, i primissimi anni Duemila sono stati tempi floridi; poi arriva la crisi finanziaria, che nel giro di pochi anni porta moltissimi italiani a rivedere al ribasso il proprio stile di vita.
La seconda: non c’erano i social. O meglio, c’erano i social – Facebook viene fondato nel 2004 – ma non costituivano il palcoscenico principale su cui la politica dispiegava le proprie bandiere, né quello su cui i cittadini definivano e dibattevano le proprie posizioni.
Il risultato: oggi il divario sociale ed economico, che è andato aumentando negli ultimi vent’anni, viene ulteriormente fomentato, almeno nella sua percezione, dalla logica patinata dei social.
È all’interno di questa cornice che va letta la brillante analisi di Carlo Invernizzi-Accetti sulla rabbia (Vent’anni di rabbia, Mondadori, 2024), se alla rabbia di oggi si vuole far fronte.
Il punto di partenza, che Invernizzi-Accetti ci racconta con la filosofia, è che il riconoscimento sociale, di cui ogni individuo ha bisogno, passa sempre e necessariamente da una lotta per ottenerlo. Non è mai offerto. Non è mai pacifico. Ha bisogno, dice bene Invernizzi-Accetti, del “conflitto strutturato”, cioè di un’occasione affinché la propria personale lotta per il riconoscimento possa essere intrapresa.
La rabbia pervade chi perde questa battaglia, ma anche chi non ha un ring su cui giocarsela.
A questo punto, qualche elettore pentastellato, o salviniano, o meloniano, o berlusconiano o, qualcuno direbbe, renziano – quanto è difficile definire univocamente il populismo, e quanti (presunti) esemplari nel nostro Paese! – potrebbe entusiasticamente esclamare: Ci siamo! Il populismo è il Martini rosso di George Clooney!
Fuor di metafora: il populismo, con la sua carica antagonista, offre ring e guantoni per quella lotta al riconoscimento di cui tutti abbiamo bisogno e che auspichiamo di vincere, dissolvendo così la rabbia.
In effetti, ci sono ragioni storiche e teoriche per sostenere – ma solo a prima vista! – che il populismo sia proprio il Martini che andavamo cercando.
Quelle storiche: come bene ricorda Invernizzi-Accetti, i movimenti populisti riemergono ciclicamente. Senza adottare una visione razionalistica della storia che inevitabilmente progredisce, si può comunque sospettare ci sia qualcosa di attraente, nel populismo, che ci porta a dimenticarne i fallimenti e a ritornare a cercare conforto tra le sue braccia.
Forse il populismo intercetta la rabbia più efficacemente di altre forme politiche: arriva alla pancia, o al cuore – scegliete la versione che preferite – dei cittadini arrabbiati.
I populisti sul ring
Ci sono, dicevo, anche analisi teoriche che potrebbero spiegare perché il populismo sia la chiave per raffreddare la rabbia offrendo l’opportunità della lotta politica e sociale.
Molti studiosi di questo fenomeno ne hanno sottolineato l’antagonismo di schmittiana memoria, che divide il campo politico tra amici e nemici politici. I nemici: le élite di ogni tipo, economiche, sociali, intellettuali. Gli amici: la gente comune, il popolo.
L’idea – semplifico – è che il conflitto tra élite e gente comune vada risolto in favore della seconda, che la gente comune – onesta, sincera, dignitosa – debba conquistare lo spazio politico sottraendolo alle élite – corrotte, auto-interessate, manipolatrici.
Così facendo, i populisti offrono, in effetti, ring e guantoni: a coloro che sono in cerca della propria lotta per il riconoscimento sociale procurano un’identità (il popolo onesto), un motivo per combattere (ripulire la politica), compagni d’armi e un ring (il partito e spesso i social) e, se vincenti, un solido riconoscimento – è d’obbligo ricordare che moltissimi dei parlamentari appartenenti ai vari partiti populisti hanno cambiato, e di molto, il proprio stato economico e sociale una volta eletti.
I populisti sono il Martini rosso che serve al nostro George per entrare alla festa allora? Non davvero. O al massimo un Martini annacquato. Infatti, l’eccessiva semplificazione che intacca il loro modo di vedere e di fare politica – che Invernizzi-Accetti analizza – corrode anche quella concezione di lotta, o conflitto strutturato, che tanto ci è vitale e che sembra caratterizzare la politica populista, ma purtroppo solo superficialmente.
I populisti, a mio avviso – e ogni generalizzazione è, per sua natura, ingenerosa verso i casi particolari –, commettono tre errori quando si tratta di conflitto politico. Primo, tendono a ignorarne l’esistenza in certi frangenti; secondo, lo demonizzano; terzo, non lo razionalizzano.
Partiamo dal primo aspetto. I populisti confinano la propria concezione del conflitto politico a quello tra élite e popolo: il campo politico è spaccato in due, ma compatto all’interno di ciascuna delle due parti. Così facendo, una parte importante, ed esperienzialmente vivida, del conflitto viene persa: cioè quella tra noi e gli altri che fanno parte del nostro stesso schieramento.
Detto altrimenti, i populisti tendono a rappresentare le élite, da una parte, e la gente comune, dall’altra, come gruppi omogenei fatti da individui che sentono tutti alla stessa maniera, hanno i medesimi interessi, condividono i medesimi valori: le élite sono tutte corrotte, disinteressate al bene comune, manipolatrici; gli appartenenti al popolo sono tutti onesti, altruisti, guidati dai medesimi bisogni.
Ovviamente, poi, la rappresentazione dei due schieramenti varia al variare dell’ideologia del partito politico che la propone: per qualcuno la gente vuole, compatta, la fine dell’immigrazione, per qualcun altro l’affermarsi dei valori tradizionali della cristianità, eccetera.
Negare il conflitto interno ha ripercussioni importanti per quanto riguarda l’emergere della rabbia: soffocare il conflitto significa fomentare non quella rabbia che emerge da una sconfitta e che può essere propulsiva, portatrice di cambiamento, bensì quella rabbia che prova colui al quale sono stati sottratti i guantoni quando stava per mettere piede sul ring.
Descrivere il popolo come omogeneo nega legittimità alle visioni conflittuali di cui il popolo, come gruppo, è composto: questi conflitti interni non solo non si dissolvono ma, se repressi, possono dar origine a forme di rabbia dirompente.
Due rabbie
Il primo passo per rispondere alla rabbia dei nostri tempi è dunque quello di andare a ricercarne l’origine, per capire se chi è arrabbiato è qualcuno che ha perso sul ring o, invece, che non ha nemmeno potuto infilare i guantoni.
Ci son due tipi di rabbia. La prima è, in un certo senso, una rabbia democratica, cioè un sentimento che emerge dalla struttura politica di una democrazia, in quanto regime che proclama regolarmente vincitori e vinti, facendo sì che vi sia alternanza tra questi gruppi e che i vinti non vengano schiacciati. In altre parole, in democrazia ogni tanto si perde e ogni tanto si vince, e quando si perde, naturalmente, ci si arrabbia.
La seconda è una rabbia antidemocratica, perché deriva da un processo di disconoscimento della variegata composizione di voci che caratterizza i regimi democratici – o perlomeno quelli in salute.
Questa rabbia va in ogni modo evitata, cercando di creare il più possibile occasioni affinché posizioni conflittuali possano emergere, purché presentate in maniera adeguata – e su questo ritornerò a breve. In questo i social possono, almeno sulla carta, aiutare, poiché offrono spazio illimitato e facilmente accessibile di confronto.
Il secondo errore dei populisti è quello di demonizzare il conflitto, in due modi. Il primo riguarda il conflitto interno: in molti casi abbiamo visto dissenzienti (certo non dissidenti!) politici interni a un partito populista venire immediatamente relegati allo schieramento nemico, non appena sollevavano flebili dubbi o ritrosie sulla linea dettata dal leader carismatico.
Il secondo è quello di demonizzare il conflitto tra élite e popolo, cioè di far passare l’idea che quel conflitto sia sempre perverso e/o sfavorevole.
Non sempre il conflitto ha origini perverse, cioè che si radicano nella corruttibilità delle élite; molto più spesso deriva dalla peculiare posizione che qualsiasi rappresentate politico riveste, cioè quella di dover mediare tra istanze contrastanti e tra visioni diverse del mondo.
Da una parte, le decisioni politiche richiedono di considerare esigenze morali, economiche, sociali, istituzionali e molto spesso la coperta è corta, talvolta cortissima: l’abbiamo visto durante l’emergenza covid, quando i politici hanno dovuto decidere quanto sacrificare dei diritti all’istruzione, alla salute, alla libertà personale, all’impresa.
Un politico che, in frangenti come questi, prende una decisione controversa e in conflitto con le nostre aspettative non è necessariamente un politico corrotto o disinteressato al bene comune: potrebbe essere uno che cerca di mediare come può tra istanze inconciliabili.
Lo stesso conflitto, si badi, avviene anche all’interno dello schieramento-élite e, in verità, caratterizza molti campi della ricerca scientifica. Si prenda ancora l’esempio del Covid: i cosiddetti ‘esperti’ sono stati duramente criticati per aver più volte cambiato idea sulle misure per arginare la pandemia.
Questo ha alimentato la sfiducia, la rabbia, e il senso di tradimento, tutti frutti della stessa pianta, cioè la narrazione che il conflitto vada visto con sospetto.
Contro questa narrazione, già qualche decennio fa Karl Popper ci aveva spiegato che una teoria può chiamarsi scientifica solo se è falsificabile, cioè se può entrare in conflitto con fatti o altre osservazioni.
Il conflitto, quindi, e gli errori che vengono identificati nel processo di confutazione di una teoria, non sono demoni, bensì il motore del progresso scientifico.
Rispondere alla rabbia, in questo senso, implica allora avere la lucidità e il coraggio di formulare, offrire e ospitare analisi razionali di quali siano i conflitti nocivi e quali, invece, quelli che, pur facendoci arrabbiare, non fanno altro che offrici un paio di guantoni nuovi fiammanti.
Il conflitto e la pancia
C’è un terzo errore dei populisti quando si tratta di conflitto politico, cioè quello di analizzarlo e affrontarlo di pancia. Analisi irrazionali dei conflitti esistenti producono una polarizzazione nel dibattito politico che non solo allontana la possibilità di trovare soluzioni a problemi urgenti, ma fomentano una rabbia distruttiva: non quella che ci trasforma in pugili più veloci e precisi, ma quella che ci fa scalciare e dare pugni all’aria, nemmeno in direzione dell’avversario.
Di qui l’aspetto performativo: conflitti affrontati di pancia portano all’uso di semplificazioni e slogan dai toni perentori e aggressivi, che contribuiscono ancora una volta alla polarizzazione del dibattito a discapito della sua lucidità. In questo i social sono efficaci strumenti di evasione dalla realtà (inclusa quella del conflitto) e la prognosi di noi malati di rabbia pare riservatissima.
La cura, però, seppur lenta esiste, ed è quella di creare dibattiti pubblici in cui gli slogan senza approfondimenti sono evitati il più possibile, dando invece risalto a coloro che sono pronti a fornire le ragioni a supporto della propria posizione.
Nel pratico, questo non significa boicottare i social ma, per esempio, accompagnare i nostri epigrammi digitali con link che rimandano a spiegazioni più articolate delle nostre idee. Questo comporta avere la possibilità di prendere posizione su meno questioni? Sì, ma forse non tutto il male vien per nuocere.
Insomma, i populisti ci fanno credere che il conflitto politico sia localizzato nell’immoralità delle élite, dunque perverso, ma anche eliminabile. Eppure, sembra qui emergere un’immagine diversa, cioè che non c’è politica, e non c’è democrazia, senza conflitto, e non c’è progresso politico, senza rabbia.
Abbiamo trovato il Martini rosso che andavamo cercando, pare; ma qualcuno potrebbe trovarlo amaro.
Agli irriducibili amanti della Caipiroska alla fragola consigliamo di astenersi dalla politica. Agli altri, l’aggiunta di qualche ingrediente per addolcire: certi conflitti, come certe emozioni, se corretti, fanno bene alla democrazia.
Il dibattito di Appunti - Come rispondere alla rabbia
I sostenitori della democrazia liberale sembrano destinati a diventare una frustrata minoranza, per effetto della rapida scomparsa dei partiti più moderati, per l’ascesa delle destre radicali e per l’affermarsi di figure e forze anti-sistema, non più soltanto populiste ma anti-democratiche.
Da Donald Trump negli Stati Uniti, ad Alternative für Deutschland in Germania, a Nigel Farage in Gran Bretagna, a Marine Le Pen e Jordan Bardella in Francia.
Questo rinnovato successo delle foze più antidemocratiche ha colto molti di sorpresa e suscita sconcerto.
Cosa si può fare? Ne discutiamo su Appunti per tutta l’estate a partire dal libro di Carlo Invernizzi-Accetti Vent’anni di rabbia (Mondadori)
Il conflitto è fondamentale in ogni relazione, anche il figlio adolescente non può crescere in maniera positiva senza trovare un ostacolo nella figura dei genitori a cui ribellarsi, proprio per creare una visione del mondo autonoma, che nasca sì dagli esempi e dall’educazione, ma che sia anche il prodotto di una rielaborazione personale, nata dall’opposizione a un mondo vecchio.
Anche in politica e nella società il conflitto genera pensieri nuovi, fa andare avanti, impegna a pensare per sostenere i propri punti di vista.
C’è qualcosa che non mi convince in questa analisi. A me sembra che è proprio l’assenza di una élite il problema dei nostri tempi ovvero di una classe dirigente che proprio in virtù della propria preparazione e della consapevolezza del proprio ruolo sappia immaginare una politica di più alto e ampio respiro.
Aggiungo una domanda: la rabbia e conseguente violenza giovanile così ben descritta da Guido Giuliano di quale conflitto con le élite è figlia?