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Ritengo che le Big Tech e ogni altra società che utilizzi dati personali (ancorché pubblici) per sviluppare sistemi, software e tecnologie dalle quali traggono profitto (quindi di interesse privato, non pubblico come si vuole sostenere) debbano riconoscere una controparte di qualche tipo ai soggetti titolari dei diritti su quei dati. Che tipo di controparte non saprei (economica? Mmm...difficile... Servizi? Forse...) ma questo è campo d'azione del potere politico e giuridico.

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giu 26·modificato giu 26

grazie Laura per questo articolo e relativa intervista!

> Personalmente, se vi fosse la volontà di affrontare la questione a livello legislativo, valuterei la possibilità di considerare l’addestramento degli algoritmi (...) come di interesse pubblico (...), associando (...) un meccanismo di licenze obbligatorie e/o altre analoghe soluzioni di distribuzione di benefici, vantaggi e ricchezza [perché non e' accettabile non] riconoscere alcunché alle persone i cui dati personali sono utilizzati e alla società nel suo complesso.

Ho provato a estrarre il succo da questo complesso giro di parole in legalese: redistribuire a ciascuno degli utenti un compenso per i dati che - loro malgrado - contribuiranno per il training di Llama.

C'e' un precedente simile ed e' proprio il caso di Cambridge Analytica. Il settlement decise che ogni utente americano di Facebook poteva fare richiesta per ricevere un compenso per il leak dei propri dati, che se ricordo bene alla fine fu nell'ordine di qualche decina di dollari (a testa):

https://www.tomsguide.com/news/heres-how-to-claim-your-share-of-facebooks-dollar725-million-cambridge-analytica-settlement

La situazione qua e' diversa perche si sta parlando di un accordo a priori, non a posteriori dopo una condanna. Ma a prescindere mi sembra comunque una soluzione talmente poco vantaggiosa da sembrare quasi una presa in giro.

Personalmente trovo difficile quantificare un "rimborso" per i dati che vengono usati. Come si fa a ridurre la questione a un "quanto valgono i miei dati"? O si riesce a esprimere un consenso informato o i dati non dovrebbero venire usati, punto.

E il consenso dovrebbe essere impostato al contrario, secondo uno schema "opt-in" (disabilitato per default, l'utente decide se attivarlo) e non "opt-out" (abilitato di default, l'utente decide se disattivarlo).

E' complesso riuscire a rispettare la GDPR sul tema "come far capire alla persona comune le condizioni di uso dei propri dati"? Si lo e' ma deve essere un problema dell'utente?

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Wow, finalmente qualcuno che ragiona e spiega con chiarezza le cose, grazie!

Mi sa tuttavia che questa è proprio la soluzione che i gestori di I.A., con tutti i miliardi di euro che investono, temono di più.

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