L’universalismo e il potere della chiesa
Perché improvvisamente, con il conclave e l'elezione di Leo XIV, si è di nuovo avvertita “l’autorità morale” della chiesa a livello mondiale?
È la dimensione universalistica del cristianesimo e la sua assenza di vincolo a un singolo popolo a risuonare ancora nelle folle in piazza San Pietro e nelle piazze virtuali di tutto il mondo
Paola Giacomoni
Milano, 15 maggio, ore 18, libreria Egea
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Alcuni anni fa un’amica indiana (per la precisione: la pronipote di Gandhi) durante una conversazione conviviale mi chiede: ma com'è possibile che una chiesa come quella cattolica sia potuta nascere da un’origine evangelica che tutto il suo comportamento nella storia sembra negare?
Non si riferiva alla chiesa di papa Francesco, ma alla chiesa come struttura di potere anche temporale nella storia.
Una domanda che non ho mai dimenticato e alla quale allora diedi una risposta approssimativa e superficiale.
Lo sguardo esterno coglieva un punto che le nostre abitudini culturali consideravano semplicemente un fatto, qualcosa che non ero più portata a problematizzare.
In questi giorni quella domanda mi è tornata alla mente durante le discussioni prima della scelta del nuovo pontefice e in seguito all’elezione del nuovo papa Leone XIV, riguardanti quale idea di chiesa sarebbe prevalsa: quella sociale ed evangelica praticata dal pontificato di Francesco o quella che riporta al centro la chiesa come struttura di potere – anche se non temporale – legata alla tradizione?
La risposta effettiva la vedremo nel comportamento del nuovo Papa, che per ora si presenta con la grande enfasi sulla pace e con il suo passato di missionario in Perù, cioè con la sua conoscenza del cattolicesimo di strada, ma anche con la sua solida cultura agostiniana. Su questo oggi tanto si strologa in anticipo, senza molte basi.
Mi colpisce tuttavia il fatto che ci sia un’attenzione internazionale particolarmente viva, quasi aggressiva sul papato, che non ricordo nei casi del passato recente.
Le tv internazionali hanno seguito in diretta l’elezione con grande risalto, i giornali di tutto il mondo le hanno dato e continuano a darle ampio spazio.
Si sprecano le paginate dei giornali più importanti, non solo in Italia: un interesse quasi vampiresco sul papato che mi pare senza precedenti. Perché questo accade?
Perché improvvisamente si è di nuovo avvertita quella che qualcuno ha chiamato l’autorità morale della chiesa a livello mondiale?
L’ipotesi, resa con lo sberleffo dell’immagine di Donald Trump vestito da papa, invidioso del suo rilievo mondiale, è che ciò che viene colto è il non ancora spento carattere universalistico del cristianesimo, che il papa, pur in una posizione di puro prestigio e di potere semplicemente spirituale, sembra esprimere. E allora la domanda della mia amica indiana mi si ripropone.
Come mai la predicazione evangelica dell’amore, della povertà e del perdono è potuta diventare instrumentum regni, a partire da Costantino, divenendo poi protagonista di tutta la storia dell’occidente, con le sfarzose insegne del potere terreno e l’evidente, storica corruzione che le accompagna e si trascina fino a oggi?
Come mai il giovane ebreo anomalo - a trent’anni non era sposato con figli come tutti i maschi normali dell’epoca - che non aspirava per sé a nessun tipo di autorità politica poté essere interpretato come fattore essenziale di potere da parte di imperatori e regnanti di ogni tipo?
Come fu possibile superare la sua origine spazio-temporalmente delimitata all’interno della storia dell’ebraismo diventando punto di riferimento per i popoli europei e non solo? Perché insomma il cristianesimo ha avuto tanto successo nella storia? Da sempre lo trovo sorprendente e quasi inspiegabile.
Hegel, nei suoi scritti giovanili da illuminista arrabbiato - che si guardò bene dal pubblicare in vita - scriveva, in reazione alla sua formazione in seminario, che il cristianesimo era una fin dall’inizio una religione autoritaria, basata sui miracoli di Gesù come taumaturgo, una religione non popolare perché basata su un affidamento cieco a un individuo considerato eccezionale e non sulla ragione.
Gesù non poteva competere per valori e per efficacia con l’insegnamento di Socrate, sosteneva il filosofo: quest’ultimo non forniva certezze e non presentava modelli, non chiedeva una fede assoluta, si rivolgeva a ogni essere umano e non a un numero limitato di seguaci, cercando di risvegliare in ognuno la spinta a trovare da sé il proprio modello, non inventò simboli e miti di cui fosse il centro, non annunciò ricompense o punizioni ultraterrene.
Socrate rispondeva meglio alle esigenze propriamente umane: perché allora non ci bastano esempi umani e abbiamo bisogno di modelli divini?
Perché ci hanno convinti che la natura umana è corrotta, e la sua dignità umiliata, risponde Hegel ventitreenne. Su questo si è innestato il grande successo del Cristianesimo nell’antichità imperiale.
A cosa è servito il cristianesimo
La predicazione cristiana rispondeva in modo nuovo alle mutate esigenze del mondo da cui erano sparite le antiche libertà, quelle della partecipazione degli individui - quei pochi – alla polis come cittadini con potere decisionale.
L’impero romano non poteva più essere avvertito come una comunità di appartenenza, ma come un’amplissima dimensione in cui tutti si sentivano umiliati in quanto deprivati di potere, il quale era concentrato in poche persone intorno all’imperatore e ai suoi rappresentanti nelle province.
L’impero romano poteva sfrangiarsi facilmente nonostante la notevole organizzazione di cui era fornito se non vi fosse stato qualche elemento unificante.
Questo capì Costantino, che colse nel cristianesimo la risposta a un’esigenza di unità che non poteva più essere quella a una comunità politica come lo erano state le poleis greche, che fornivano senso alla vita dei cittadini in quanto partecipanti attivi al destino delle città.
Il cristianesimo propagandava la possibilità di una comunanza spirituale intorno a una dimensione trascendente che prometteva un riscatto da una situazione di insensatezza e di perdita di valore per l’individuo in un futuro non accessibile ma effettivo se vissuto come possibilità di appartenere a una comunità di salvati.
La perdita delle libertà antiche veniva compensata psicologicamente dalla valorizzazione di una comunione di destino spirituale.
E questa forza della predicazione cristiana fu colta da coloro che ne avevano bisogno per fornire all’impero quell’unità interiore che all’esterno mancava. Questa forza era tale perché andava al di là della storia del popolo ebraico e sapeva rivolgersi a tutti i popoli dell’impero.
La dimensione di potenza dell’impero fu rafforzata in modo essenziale dal cristianesimo come religione degli umili ma dal carattere potenzialmente universale. Che contemporaneamente rispondeva sul piano psicologico al senso di perdita che la sua dimensione sovranazionale generava.
Il bisogno di universalismo
È proprio l’universalismo cristiano a essere avvertito oggi come capace di catturare una risposta ai problemi di un mondo globalizzato, molto più ampio di quello imperiale romano, che ha reso la nostra società in molti modi più libera e più interconnessa, ma che ha anche generato scarti, prodotto emarginati, ampliato disuguaglianze estreme a livello planetario.
È la dimensione universalistica del cristianesimo e la sua assenza di vincolo a un singolo popolo a risuonare ancora nelle folle in piazza San Pietro e nelle piazze virtuali di tutto il mondo.
Naturalmente il messaggio del papa non è e non può essere quello del superamento effettivo delle disuguaglianze e delle emarginazioni: quello spetta alla politica, che però sta andando in direzione contraria.
E ci sta andando in una maniera tanto spinta e spietata da generare una reazione, un rigurgito, un bisogno di universalismo proprio mentre prevalgono le chiusure nazionali e nazionalistiche che spingono fino al proliferare di guerre in tutto il pianeta.
Si avverte nella missione del papato di oggi la rilevanza di quell’afflato di fraternità che sembra sparito come valore dalle nostre vite.
Inutile naturalmente aspettarsi che qualsiasi nuovo papa possa rispondere a queste esigenze, che è la politica, laica e cosmopolitica a dover trovare.
Non sulla base di una comunione spirituale nella dimensione della trascendenza, che davvero in Europa ha ormai pochissima presa sulle menti, ma come riscatto effettivo dalle disuguaglianze reali e come elaborazione di un nuovo modo di stare insieme in un mondo interconnesso senza moltiplicare emarginazioni e povertà. Forse elaborando anche nuovi simboli e nuovi miti laici che possano colpire non solo l’intelletto ma anche le emozioni.
L’interesse suscitato dal papato di oggi non riguarda l’attesa di un universalismo del corpo mistico o di una salvezza dell’umanità.
Riguarda un punto di vista che il cristianesimo esprime nei modi tradizionali della fede e dell’autorità spirituale, ma che nella prospettiva laica e secolare può andare oltre i nazionalismi e contro le chiusure protezionistiche, che è il vero bisogno di oggi, senza il quale nessuna guerra, nessun conflitto e nessuna inimicizia tra i popoli possono essere fermati.
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Grazie per le interessanti riflessioni dell’autrice, grazie anche a quanto aggiungono Paolo e Silvia sui rischi di snatura mento del messaggio legati- anche- alle attuali modalità dei media