Libri per tempi difficili
L’editoria non può ignorare la richiesta di semplificazione che arriva da un pubblico con troppi stimoli e poca attenzione. Ma semplificare troppo nega la ragion d’essere dei libri
In un ecosistema informativo in cui ci viene promesso di sapere tutto su un argomento in 15 minuti, in cui le app di intelligenza artificiale sono in grado di dare risposte apparentemente sensate in pochi secondi, siamo ancora disposti ad affrontare la fatica di leggere un libro che non sia agile e facile?
Lia Di Trapani
Nella casa editrice in cui lavoro fa parte dei compiti degli editor preparare i testi di copertina dei volumi. E così, per ogni nuovo gruppo di novità mensili la direttrice editoriale passa in rassegna e valida le proposte di bandelle e retri, che vengono poi naturalmente sottoposti all’editore e agli autori per approvazione.
I paratesti svolgono una funzione importante: devono da un lato dar conto al lettore dei contenuti della proposta, ma devono essere anche uno strumento promozionale che invogli la lettura (e dunque l’acquisto). Insomma, non è un compito facilissimo perché non è ovvio tenere in equilibrio esigenze editoriali e orientamento al marketing.
Ricordo con tenerezza che molti anni fa - pubblicavamo un numero decisamente più alto di titoli e la prevalenza era di libri a vocazione didattica pensati per l’università, il che rendeva ancora più arduo pensare a formule accattivanti - alla fine di lunghe sessioni in cui avevamo ripetuto fino allo sfinimento che la trattazione del libro X era rigorosa, la scrittura del libro Y era cristallina e soprattutto che il saggio Z era così chiaro che si leggeva ‘come un romanzo’ ci concedevamo qualche minuto di gioco (eravamo tutti più giovani, e aggiungo che si lavorava da noi come nel resto del mondo con ritmi un po’ più distesi). Insomma, per gli ultimi titoli rimasti immaginavano una serie di frasi assolutamente improponibili da stampare su apposite fascette.
Strilli del tipo: ‘Questo libro è impenetrabile, nemmeno l’autore sa che cosa vuole dire’ o ‘È inutile che tenti di leggere questo saggio, è troppo difficile per te e non lo capirai mai’. O ancora: ‘Un manuale assurdo e dalla scrittura oscura’. Erano dei momenti di gioiosa liberazione che ci concedevamo prima di concludere poi - seriamente - il lavoro.
C’è stato anche qualche intermezzo ancora più coraggiosamente fantasioso in cui, con lo stesso editore e con alcuni colleghi che non lavorano più da tempo in casa editrice (li ricordo con affetto e un po’ di nostalgia e per fortuna alcuni sono rimasti amici carissimi) immaginavamo addirittura nomi di collana che andavano contro qualunque promessa di semplicità.
Nomi che tra l’altro tradivano le solide radici meridionali della casa editrice: la mia controcollana preferita è rimasta ‘I chianconi’ (mi è stato spiegato che in pugliese ‘chiancone’ è un grosso masso, ma trovo la parola meravigliosa per il suo solo suono!).
Mi è tornato in mente questo ricordo - si capirà più avanti perché - parlando qualche giorno fa con Marco, un amico che è stato negli ultimi anni collega in un’altra casa editrice di saggistica.
Lui ha appena scelto coraggiosamente di iniziare una nuova vita fuori dall’editoria, e ci siamo concessi una lunga telefonata in cui - oltre a condividere progetti e confidenze personali - inevitabilmente ci siamo scambiati qualche riflessione sul mondo dei libri, di cui lui è sempre stato un lucido protagonista e osservatore. Il non detto da cui siamo partiti è la situazione difficile del mercato, che fa temere ai più pessimisti del settore una crisi irreversibile che metterebbe in dubbio il ruolo stesso del libro nella nostra società.
Riporto a uso dei non addetti ai lavori i dati forniti dall’AIE per i primi 4 mesi del 2025: - 3,6 per cento di venduto rispetto allo stesso periodo del 2024, per un totale di circa un milione di libri in meno comprati.
Sì, un milione di libri in meno. Non è poco.
Gli umori nel nostro ambiente non sono proprio ottimi, e per dare un’idea di alcuni stati d’animo che circolano, riporto solo una malinconica previsione che ho sentito fare di recente, per cui l’intero mondo dei libri di qui a pochi anni diventerebbe come il mondo della musica classica, settore importante e prezioso ma decisamente una nicchia.
Né io né Marco abbiamo un temperamento pessimista, e peraltro di crisi della lettura si parla da anni e anni, ne avevo scritto qui su Appunti io stessa un anno fa.
Eppure qualcosa è effettivamente cambiato nella natura di questa crisi e ci siamo detti onestamente quanto è diventato sempre più difficile assecondare i gusti del pubblico e le esigenze commerciali, ben consapevoli della necessità che i libri debbano circolare e vendere perché si possa poi continuare a pubblicarne altri, e nello stesso tempo non rinunciare a una propria linea, a una proposta, e anche a un livello di complessità della trattazione (e della lingua, se serve).
Lui ha usato un’espressione molto forte, ha detto che tutti noi operatori della cultura dovremmo ‘accendere micce e fuochi, non dare acqua fresca’.
Mi sembra un punto interessante che riguarda le responsabilità degli scrittori e degli editori, ma anche le responsabilità dei lettori.
Perché leggiamo
Ci tengo a fare una precisazione: si è sempre letto anche per puro piacere e per intrattenimento. E va benissimo, trovo anzi insopportabili e ridicoli i giudizi tromboneschi di chi critica il successo di certa letteratura di genere. C’è spazio per molte cose, in ogni aspetto della vita e della cultura. Posso essere una grande intenditrice di vini e tuttavia apprezzare ogni tanto un mediocre spritz o una Coca Cola.
Posso essere una lettrice forte - fortissima e avere gusti raffinati in quanto a narrativa e esigenze solide e precise in quanto a saggistica e tuttavia regalarmi qualche ora di svago leggerissimo con un giallo di maniera, e nemmeno tra i migliori. Personalmente non capisco chi ama il fantasy, figuriamoci il romance - fantasy, ma ciascuno sceglie le proprie perversioni in ogni ambito.
Io ad esempio confesso che mentre guido ascolto certa musica italiana non proprio sempre di altissimo livello ma che mi rilassa e mi diverte. Nessuna vergogna dunque. Si deve essere liberi di scrivere e liberi di leggere (e ascoltare!) ciò che si vuole.
Ma non tutti i libri sono intrattenimento e dunque, riprendendo la metafora di Marco, non tutto ciò che si scrive e si legge può essere acqua fresca.
I libri - certi libri - sono da sempre strumenti potentissimi di comprensione del mondo. Non sono naturalmente i soli, ma lo sono in un modo peculiare che ci è familiare, che ha forgiato il nostro modo di pensare, di sentire e di stare al mondo e sono ancora insostituibili.
Certo, oggi più di ieri conosciamo attraverso una scelta più ampia di canali informativi: l’informazione giornalistica continua ad avere un suo ruolo (infinitamente ridotto), ma ci aggiorniamo attraverso i contributi sui social, ascoltando podcast, guardando serie e documentari su piattaforme, partecipando a serate Ted o a eventi culturali.
Ma nulla di tutto questo, assolutamente nulla di tutto questo sostituisce il libro, strumento che impone tempo disteso e dedicato, concentrazione esclusiva, possibilità di fermarsi e fermarsi ancora sostando su alcuni passaggi, necessità di pensiero consequenziale e strutturato, possibilità di risalire a una fonte (elementi presenti solo in parte in ciascuno dei canali che ho menzionato sopra).
E non è un caso che spesso l’ascolto di un podcast, la partecipazione a un festival, la condivisione di un post siano lo stimolo a un passaggio ulteriore: la lettura di un libro appunto, come si dice ‘per saperne di più’.
Ma qui c’è un paradosso.
In un ecosistema informativo in cui ci viene promesso di sapere tutto su un argomento in 15 minuti, in cui le app gratuite di intelligenza artificiale dal nostro telefono cellulare sono in grado di dare risposte apparentemente sensate in pochi secondi a quasi tutte le nostre domande, in cui la distinzione tra informazione e giornalismo sembra saltata, siamo ancora disposti ad affrontare la fatica di leggere un libro che non sia necessariamente agile e, diciamolo una buona volta, facile?
In un ecosistema culturale in cui la letteratura di genere è entrata a pieno titolo nella letteratura tout court con il risultato che i romanzi che continuano a essere realizzati fuori da logiche di serialità fanno sempre più fatica a trovare spazio, siamo disposti a leggere fiction che per struttura e per lingua non sia standardizzata e ci costringa a uno sforzo di adattamento verso qualcosa di inconsueto?
In un contesto in cui lo spazio per la critica letteraria non esiste quasi più e in cui qualunque lettore volenteroso di media cultura in grado di comunicare bene sui social può diventare un punto di riferimento per la promozione dei libri, dove sedicenti book-influencer postano video di ‘unboxing’ e cuoricini ritenendo di avere un ruolo nella cultura, che ascolto ci può essere per un confronto critico sui libri tra persone competenti (anche se magari meno performanti)?
Il bisogno di semplificare
Chi scrive libri, così come chi li pubblica, non può ignorare tutta questa fame di semplificazione. Non amiamo le cose difficili, diciamolo chiaramente. Forse non le abbiamo mai amate, e certo non le amiamo oggi. E chiarire e semplificare tutto ciò che può essere chiarito e semplificato è sacrosanto, per carità. I libri pensati per tutti sono strumenti essenziali di democrazia. Valga sempre la lezione di Tullio De Mauro su questo.
Ma allo stesso tempo dobbiamo oggi, così credo, vigilare attentamente sul confine che separa il libro nella sua vocazione pedagogica (ho qualche pudore a usare questa parola, ma non ne ho trovate altre di altrettanto belle) dal resto.
Perché la spinta alla standardizzazione e alla ipersemplificazione nega, se portata agli estremi, la ragion d’essere dei libri.
I libri non devono solo accarezzare, blandire, accogliere e accompagnare per mano. Devono a volte sfidare, irritare, innervosire, provocare, far soffrire.
Devono accendere micce e fuochi. Devono farmi dire ‘io non lo capirò mai’, come nelle fascette immaginarie da cui hanno preso le mosse queste riflessioni, per poi farmi scoprire che invece sì, lo posso capire se accetto che non tutto è acqua fresca e imparare può costare fatica, leggere è gioia e piacere ma anche impegno.
L’impegno che dobbiamo chiedere a noi stessi per vivere responsabilmente il nostro mondo.
Io sono fiduciosa che ci sia oggi uno spazio enorme per i discorsi che si articolano nei libri. Viviamo tempi difficilissimi, siamo sgomenti di fronte a quello che ci accade intorno e cerchiamo risposte. Cerchiamo almeno le domande giuste da condividere. E i libri ci sono compagni e amici in questa ricerca, anche - soprattutto - se ci richiedono qualche sforzo.
Sono convinta che la crisi della lettura non si vinca assecondando la tendenza al solo intrattenimento o alla semplificazione. Anzi, questa strada rischia di farli perdere, i lettori. Deve rimanere con coraggio lo spazio ruvido e urticante di una parola non ovvia, di una tesi divisiva, di una argomentazione complessa.
Non è un tempo pacificato, è un tempo di sfide. E i lettori pronti a queste sfide ci sono ancora, e sono tanti. Lo vediamo in casa editrice continuamente, nel favore con cui vengono accolti i libri rigorosi e coraggiosi di molti autori.
I lettori vanno rispettati e presi sul serio. Offrendo loro libri che non siano l’imitazione di altro. Perché alla fine - io ne sono convinta - vince l’originale: tra l’ennesima saga familiare uguale alle altre dieci pubblicate negli ultimi anni forse alla lunga risulterà preferibile una serie su Netflix. All’instant book sull’ultimo argomento di attualità forse è preferibile la puntata di un podcast di informazione ben fatto. Ce ne sono molti.
Un gigante del Novecento italiano mai abbastanza ricordato, Danilo Dolci, ha intitolato una poesia con il verso conclusivo e bellissimo: “Ciascuno cresce solo se sognato”.
Ecco, io credo che tutti noi continuiamo a crescere e a migliorare se qualcuno ha fiducia in noi, se ‘ci sogna’, se ritiene che possiamo accogliere le sfide, superare i nostri limiti nel capire. Se possiamo essere aiutati certo, ma senza sconti, senza scorciatoie, senza una visione facile o edulcorata delle cose.
Vorrei che gli scrittori, gli studiosi, gli intellettuali - sì, gli intellettuali - sentissero forte la responsabilità di sognarci ancora. E a noi editori il compito di dare spazio - insieme al resto - ai libri che fanno crescere.
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