L’età della nostra ansia giovane
Non si può certo dare tutta la colpa agli insegnanti e alla scuola. E forse neppure soltanto agli smartphon.. E allora da dove arriva il male oscuro di noi ventenni? O l'ansia è positiva?
Gli studenti incolpano gli insegnanti, ma a me questa tesi ha sempre lasciata perplessa. visto che semmai la scuola si è, passatemi il termine, “rammollita”, non di certo “irrigidita”. Ma allora questo malessere da cosa dipende? C’è un perché che c’entra con noi?
Sofia Sossai
Buona domenica a tutte e tutti,
Nei giorni scorsi il botta-e-risposta tra la filosofa Gloria Origgi e il giovane scrittore Guido Giuliano su ansie, paure, timori e disagi dei giovani credo abbia segnato il record dei commenti, oltre 120.
Mi sembra il segnale che c’è qualcosa da approfondire, da capire: da un lato un malessere generazionale che non può essere solo un’illusione collettiva, dall’altro un approccio differente, una griglia di riferimenti e coordinate esistenziali molto distanti.
Ora che ho compiuto 40 anni, io mi sento esattamente nel mezzo tra la generazione di Guido e quella di Gloria, e mi concedo il lusso di seguire questo dibattito e approfondire questi temi senza un coinvolgimento diretto, un po’ come se fossi un osservatore sopra le parti, ma non certo un arbitro.
Anche Sofia Sossai, che si è ripresa dalle fatiche dell’esame di maturità, si occupa di questi temi nel pezzo che state per leggere. Lei è ancora più giovane di Guido, ha appena finito il liceo, e molte delle questioni che solleva in questo pezzo sono molto più vicine alla sensibilità di Guido che a quella di Gloria.
C’è poi un aspetto - che prima o poi andrà approfondito - sulla fiducia, o comunque sul rapporto, che questa generazione Z ha con l’idea di un percorso di psicoterapia, o comunque con l’aiuto da parte di un professionista (accettazione della fragilità e riscoperta dell’importanza di chiedere aiuto o superficiale scorciatoia verso la medicalizzazione delle difficoltà della vita adulta?, sarebbe un altro dibattito interessante).
Intanto fateci sapere cosa pensate del pezzo si Sofia, e date un’occhiata alla rubrica video degli Appunti settimanali che presto potrebbe evolversi in qualcosa di diverso:
buona domenica,
Stefano
La nostra ansia giovane
di Sofia Sossai
“Avevo le mani che mi coprivano il viso. Mi sono resa conto di non essere in grado di articolare parole. I muscoli della bocca, la lingua, sembravano essersi bloccati. Ho sentito un fastidioso formicolio attraversarmi la faccia, le mani, indurirmi i muscoli. L’unica cosa che il mio cervello pensa in quel momento è ‘Oddio, rimarrò paralizzata a vita’. La parte razionale di me sa però già, nonostante il panico che ha sopraffatto ogni controllo, che quello che sto vivendo è temporaneo”.
Questo è un estratto di un flusso di coscienza che avevo scritto qualche anno fa quando ho avuto il primo attacco di panico.
Otto pagine di sproloqui senza filtro per cercare di venirne a capo. L’ho ripreso in mano quando mi è stato chiesto di scrivere questo articolo.
Sempre in quelle pagine, scritte nella convinzione per la quale la scrittura potesse fungere in qualche modo da autoanalisi, trovo una frase ricorrente che secondo me aiuta a capire la difficoltà di parlare di un disagio psichico che oggi colpisce la mia generazione più di ogni altra: “Non me lo so spiegare. Mi chiedono perché e io rispondo che non ho nulla, perché è vero”.
E’ complesso prendere sul serio qualcosa che non sembra nascondere reali motivazioni eppure esiste.
Una mia amica si chiede: “Come la posso spiegare l’ansia? Se io dico ‘Stamattina mi sono svegliata nel panico’ la prima domanda è ‘Non hai dormito bene?’. Sì, sì ho dormito nove ore, eppure mi sono comunque svegliata pensando che il mondo potesse disintegrarsi in cinque minuti”.
Ho trovato particolarmente esemplificativa per la nostra generazione la definizione che mi ha dato un’altra ragazza parlandone:
“L’ansia ti consuma, del tutto, è come se morissi dentro. Paradossalmente però vivi, dentro di te, nella tua mente e generi così una realtà parallela a quella fenomenica. Pensi e ripensi a quello che potrebbe succedere e trascuri quello che sta succedendo davvero”.
Rachele va dalla psicologa per tenere a bada quell’ansia che la fa bloccare nel mezzo di una conversazione: “Non ascolti più, sembra che non ci sei, perchè stai parlando col tuo cervello immaginando cose che in quel momento non si stanno effettivamente verificando, ma di cui tu hai paura e percepisci più reali del reale”.
Un po’ come i possibili scenari che Ansia, la nuova protagonista di Inside Out 2, uscito a giugno nelle sale italiane, cercava di tenere sotto controllo. “È l’incapacità di restare nel momento presente, arrovellarsi scavando nel passato e temere pensando al futuro. A volte mi sembra di rimanere immobile mentre tutti gli altri vanno avanti”.
La nostra è la Generazione Ansia. Secondo il Rapporto di Censis, Consiglio Nazionale dei Giovani e Agenzia Nazionale dei Giovani del 2022 il 49,4 per cento dei ragazzi tra i 18 e i 25 anni afferma di aver sofferto di ansia e depressione dopo la pandemia e a causa di questa.
A giugno dell’anno scorso i rappresentanti di istituto del mio liceo hanno fatto circolare una lettera ai docenti per esprimere un disagio nei confronti dell’ambiente scolastico, considerato troppo “competitivo”, poco “empatico”, “stressante” a tal punto da provocare frequenti crisi di pianto, attacchi di panico, eccetera.
A rafforzare l’accusa erano stati riportati i risultati di una campionatura scientifica svolta negli ultimi mesi dell’anno all’interno di un progetto denominato “Salute: noi e gli altri” dai quali emergeva che su 51 studenti della scuola il 73 per cento per cento si sentiva stressato e in ansia.
L’analisi è stata poi riproposto nel corso dell’anno scolastico 2023/2024 su un campione di 150 studenti portando a conclusioni simili. Per gli studenti i principali responsabili dei loro patemi d’animo erano gli insegnanti. Ma nel rapporto Censis questi ultimi si difendono incolpando a loro volta i genitori, che, manco a farlo apposta, puntano il dito contro i loro stessi accusatori.
Mi sono sempre trovata perplessa sulle colpe agli insegnanti o alla scuola visto che semmai la scuola si è, passatemi il termine, “rammollita”, non di certo “irrigidita”. Ma allora questo malessere da cosa dipende? C’è un perché che c’entra con noi?
Ma da che dipende?
Margherita vive in Francia e ha finito il primo anno di università all’Inalco di Parigi. “A novembre non sono riuscita ad uscire di casa per andare all’università. Uscire dal letto mi creava panico. Non ti saprei dare una spiegazione, la me dell’epoca probabilmente non lo sapeva”.
Dice di vivere in uno stato di ansia generalizzata dalla seconda media, mentre gli attacchi di panico sono iniziati in prima superiore, “perché c’era il Covid che ha amplificato la cosa. Non sono uscita per due mesi, era decisamente una situazione particolare”.
Quando ci siamo viste quest’estate ne abbiamo parlato molto:
“All’inizio credo dipendesse da situazioni familiari che non riuscivo a gestire. Ma ora può essere scatenata da qualsiasi cosa. Non è l’ansia buona che senti nello stomaco. Questa la senti nel petto.
E’ una difficoltà nel respirare e la mente non è presente. Una delle cose che faccio per cercare di attenuarla è lo scrolling o guardare un film perché così mi stacco da me stessa, sono distante dalla realtà.
Quando apri il telefono entri in un altro mondo e ti rifugi in quello e per un’ora non è necessario pensare che sei disconnesso dalla realtà perché sei già nella realtà di qualcun altro.
Quello che ricerchi nel telefono è l’alienazione. Ma non è che quando finisco di usare il telefono mi sento meglio, ho semplicemente temporeggiato”.
E infatti nei suoi momenti più neri spegne del tutto il cellulare.
I messaggi su Whatsapp con una spunta sola diventano un segnale d’Oltralpe di questo malessere. Diventa faticoso scrivere persino alle persone che le sono più vicine. “Quando sento che c’è troppa alienazione, staccare dal telefono mi permette di ri-ancorarmi alla mia vita”.
Persino la Pixar ha sentito l’esigenza di fare un film che avesse al centro come protagonista indiscussa l’Ansia, per quanto venga presentata come una delle tante emozioni che complicano l’adolescenza (ad accompagnarla ci sono Imbarazzo, un pupazzone incappucciato, Invidia, forse l’emozione meno memorabile del film, e Noia, dall’irresistibile accento francese) e non è chiaro se abbia sempre divorato le Riley di ogni epoca o solo nell’ultimo decennio.
Troppo smartphone
Lo psicologo Jonathan Haidt parla di The Anxious Generation riferendosi alla Gen Z e nel suo ultimo libro sostiene la tesi secondo cui la responsabilità dei nostri disagi psichici ricada sullo smartphone (e sull’approccio iperprotettivo dei genitori nei confronti dei figli).
In particolare, afferma, “l’epidemia di malattie mentali tra gli adolescenti è iniziata intorno al 2012”.
Negli Stati Uniti infatti i tassi di depressione e ansia sarebbero aumentati del 50 per cento dal 2010, anno di lancio dell’iPhone 4, il primo smartphone con fotocamera frontale che ha permesso l'abitudine condivisa tra giovani e adulti di fare i selfie. Il primo smartphone era sbarcato sul mercato tre anni prima, seguito a ruota dall’inserimento delle opzioni dei “like” e dei “condividi”.
Oggi il 95 per cento degli adolescenti dispone di uno smartphone. Circa la metà dei bambini americani riceve il suo primo smartphone entro gli 11 anni.
Rachele e Margherita non sono scienziate né psicologhe né sociologhe, ma ne sentono gli effetti nella vita di tutti i giorni e sono propense a dargli ragione.
A creare questo surplus di ansia non è solo il confronto con gli altri, che c’è sempre stato, anche se coi social tutto si amplifica perché seguiamo in diretta le vite di altri e quasi sempre sembrano migliori delle nostre: è proprio l’aver in mano “questo strumento potentissimo nelle mani che non ti lascia via di scampo, sei sempre legato a qualcosa, se non rispondi al cellulare la gente crede che tu sia morto, e poi ti senti sempre sotto pressione, controllato…”.
“Il mondo si muove a una velocità maggiore rispetto a una volta. Ci sono tante più cose che fai. Sei sempre in movimento, bisogna sempre ‘fare’. La minima cosa ti fa andare in ansia. Il telefono dà tremila informazioni, il tuo cervello esplode, la lentezza della realtà che è una lo sconvolge”.
Aggiunge Rachele: “E’ l'epoca in cui si spaccia relax, self care, skin care, ma in realtà è tutto impostato sulla produttività, sulla concorrenza, se ti fermi sei spacciato. Forse una volta senza tutte queste ‘cares’ ci si curava di più in modo vero”.
Insomma, è vero che ora ci definiscono anche generazione brat, ma fino a che punto?
Anche se i social pullulano di frasi motivazionali del tipo “vai bene così come sei”, di “body positivity”, e potremmo andare avanti, esisterà lo stesso il trend su tik tok delle bambine che sono ossessionate dai prodotti di bellezza delle madri, esisteranno lo stesso le foto ritoccate e il desiderio di essere come gli altri. Non so se ci amiamo di più e non so se vogliamo meno rispetto ad altre generazioni.
Non siamo a Gaza, però…
Un pomeriggio passeggio con Giacomo, quasi 20 anni, un amico che in passato si diceva “pilotato dall’ansia”.
Ha visto il film Inside Out 2, ma si riconosce più nella prima parte del film, dove Ansia in effetti assume un ruolo tutto sommato ancora innocuo, addirittura positivo prevenendo situazioni del futuro anche negative attraverso gli scenari.
“La mia concezione di ansia ora è risolvere al massimo i problemi del futuro: sapendo che io tra un’ora ho allenamento o un incontro con gli amici studio di più per non trovarmi poi con un carico di studio che il me del futuro non saprebbe gestire e lì sì rischierei di andare in panico.
Questa è l’ansia positiva in cui mi riconosco oggi, per questo non la demonizzerei. Certo che poi c’è l’ansia che non ti fa dormire la notte e si immagina gli scenari peggiori e che non controlli.
Direi che è perché la gioventù di oggi non solo non è educata a risolvere le sfide, ma anche a vederle. Il modello educativo dei figli ormai è diventato il proteggersi dalle ansie, mentre l’ansia positiva si sviluppa anche dal confronto con situazioni problematiche.
I problemi erano più grandi una volta, oggi sono più piccoli ma vengono vissuti con più paura e quindi pensati più grandi. Come diceva la mia assistente di Diritto Privato ‘Non siamo a Gaza con le malattie e sotto le bombe’ e ricordarsi questo non significa dire ai giovani ‘Ci sono cose peggiori di quelle che soffrite ora’, bensì riconoscere da sé ciò che davvero importa e se vale davvero la pena stare così male”.
Non ho più scritto pagine così drammatiche come quelle con cui ho esordito in questo pezzo, forse perché attacchi di panico così importanti non ce ne sono più stati.
Intanto però delle cinque amiche più care che ho tre vanno (o sono andate) dallo psicologo, una pensa di intraprendere un percorso a settembre e l’altra ci ha pensato nel corso degli anni.
Persino io che l’ho sempre banalizzata la parola “ansia” perché di natura sarei più da “svegliatevi!” (come dice qualcuno) mi sono dovuta ricredere a furia di sbatterci contro.
L’altro giorno un amico della madre di Margherita, in quelle chiacchiere da ufficio che condensano in dieci minuti il pensiero di una generazione, le ha detto: “Questi sono gli anni migliori, noi eravamo più spensierati, oggi siete tutti seri”.
Come restituire questa spensieratezza?
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Come rispondere alla politica della rabbia: il dibattito su Appunti
I sostenitori della democrazia liberale sembrano destinati a diventare una frustrata minoranza, per effetto della rapida scomparsa dei partiti più moderati, per l’ascesa delle destre radicali e per l’affermarsi di figure e forze anti-sistema, non più soltanto populiste ma anti-democratiche.
Da Donald Trump negli Stati Uniti, ad Alternative für Deutschland in Germania, a Nigel Farage in Gran Bretagna, a Marine Le Pen e Jordan Bardella in Francia.
Questo rinnovato successo delle foze più antidemocratiche ha colto molti di sorpresa e suscita sconcerto.
Cosa si può fare? Ne discutiamo su Appunti per tutta l’estate.
Sofia ci da' un resoconto delle piu comuni forme di ansia e depressione che colpiscono i giovani di oggi.
Penso che sia prima di tutto utile individuare rimedi tecnici. L' ansia e la depressione lieve sono abbastanza agevolmente curabili non da uno psicologo qualsiasi , ma da metodi cognitivo-comportamentali, che solo qualche psicologo applica , nonostante essi abbiano le evidenze scientifiche migliori. Per partire, anche un buon manuale di auto-aiuto (che segua questa metodologia) puo' essere utile.
Quanto alle cause esse sono molteplici e complesse e non saro io ahime a risolvere questa matassa. Mi piace ricordare la frase dela figlia del grande Psichiatra Insel , tratta dal suo libro. Questa ragazza, che ha subito anche essa un disturbo psichiatrico non leggero, ha reagito creando un gruppo di donne che lavorano manualmente insieme. Ella dice al padre: piu che l'aiuto "face to face" (della psicoterapia classica) e' servito a me e alle altre il lavoro spalla a spalla
Francesco Del Zotti - blog : qualereteinsanita
Io non ho una risposta naturalmente. Capisco l’ansia e mi dispiace molto che sia così comune. Io ritengo che i primi cinque anni nella vita di un bambino siano importantissimi. Più si riesce ad assicurare uno sviluppo graduale, armonioso, in quella fase, adatta alle esigenze del bambino (differenti per ogni bambino), più c’è la possibilità di formare una piccola persona equilibrata. Significa tempo per ascoltare il bambino, giocare con il bambino. Credo che la chiave sia il tempo. Tempo di perdere tempo, imparare a fare cose da soli - mangiare, vestirsi, fare amicizia al parco … - senza che un adulto intervenga sempre. Piano piano l’autostima aumenta. Il bambino si sente “grande”. È meno vulnerabile. Non mi dilungo e magari nessuno sarà d’accordo.