L'estate della violenza politica in Europa
Le stragi non sono un'esclusiva degli Stati Uniti. Il 22 luglio del 2011 Anders Breivik, in Norvegia, ha cambiato per sempre il terrorismo di estrema destra. Ed è diventato un modello
Se nel 2011 le idee di Breivik erano considerate mostruose e marginali, ora non lo sono affatto. Sono invece al centro dello scenario politico, e sono del tutto normalizzate
Leonardo Bianchi
Buon pomeriggio,
mentre tutti si interrogano sulle ripercussioni della scelta di Joe Biden e sulle possibilità di Kamala Harris, vale la pena fermarci un secondo sullo sfondo di questa campagna elettorale americana che, con l’attentato a Donald Trump il 13 luglio, ci costringe a riflettere sulla violenza politica.
La spiegazione facile e un po’ rassicurante per noi europei è considerare la violenza politica come un fenomeno americano, tipica di un Paese che ha inserito in Costituzione il diritto ad armarsi. Se negli Stati Uniti circolano 20 milioni di fucili AR-15, come quello usato da Thomas Matthew Crooks, possiamo stupirci se ogni tanto qualcuno spara?
Purtroppo, la violenza politica è certo connaturata nella storia americana anche recente, ma non è una loro esclusiva.
Oggi, 22 luglio, è l’anniversario di una strage che nel 2011 ha certo spaventato e sconvolto l’Europa, ma soprattutto ci ha stupito. Perché non pensavamo che un singolo individuo - Anders Breivik - potesse agire e colpire come un gruppo terroristico composto da una sola persona, sterminare civili, attentare alle istituzioni, in nome di idee all’epoca considerate assurde ma oggi sdoganate (basti pensare al libro del generale Roberto Vannacci).
I timori di Breivik su un’Europa aperta e ibridata di culture e religioni sono parte del programma elettorale di molti dei partiti che hanno trionfato alle elezioni europee dell’8 e 9 giugno.
Di questi temi ha scritto in un libro recente un giornalista (e scrittore) attento e curioso a intercettare i cambiamenti nelle frange solo all’apparenza più estreme della società: Leonardo Bianchi, con Le prime gocce della tempesta. Miti, armi e terrore dell'estrema destra globale (Solferino).
Leonardo ha preparato per Appunti un racconto di quel 22 luglio 2011 e un’analisi della sua eredità in questa nuova stagione di politica della rabbia e di violenza. Lo potete seguire anche su Substack con la sua newsletter Complotti:
Buona lettura,
Stefano
Il lancio promozionale
di Leonardo Bianchi
Sono da poco passate le cinque di pomeriggio del 22 luglio 2011 quando un Fiat Doblò grigio si ferma nel parcheggio del molo di Utøyakaia, di fronte all’isola di Utøya, in Norvegia.
Poco meno di due ore prima – più precisamente alle 15.22 – un’autobomba ha sventrato un palazzo nel quartiere governativo di Oslo, causando la morte di otto persone e facendo scattare un’emergenza nazionale.
Dal furgoncino scende un poliziotto, che si avvicina a un giovane con la pettorina della Lega dei giovani lavoratori (AUF). Come ogni anno, sull’isola si sta svolgendo il campo estivo della sezione giovanile del Partito laburista. L’agente ordina di essere portato sull’isola con la massima urgenza, perché deve mettere in sicurezza la zona e “assicurarsi che non succeda altro”.
Il giovane fa chiamare l’imbarcazione dall’isola che arriva dopo qualche minuto con a bordo Monica Bøsei, l’organizzatrice del campo estivo, conosciuta da tutti come “mamma Utøya”. Il tragitto è brevissimo. Ad attenderli al molo c’è una delle guardie dell’isola, Trond Berntsen, un poliziotto fuori servizio. L’agente si identifica come Martin Nilsen e chiede di radunare i partecipanti al campo – più di cinquecento persone, per la maggior parte tra i tredici e i sedici anni – in un punto centrale dell’isola.
Mentre si allontanano dall’imbarcadero, Berntsen fa diverse domande al poliziotto: vuole avere più dettagli sull’incarico affidatogli e sapere per quale commissariato lavora. Le risposte che riceve sono però evasive, per nulla convincenti. La guardia è chiaramente insospettita. E fa benissimo a esserlo.
Quel poliziotto, infatti, non è un vero poliziotto; e il suo nome non è Martin Nilsen, ma Anders Behring Breivik. Ha trentadue anni e il suo compito non è proteggere i giovani laburisti, ma sterminarli. È lui ad aver piazzato la bomba a Oslo; Utøya è la seconda fase dell’operazione.
Breivik estrae dalla fondina la Glock 34 – che ha ribattezzato Mjöllnir, dal nome del martello del dio norreno Thor – e la punta alla schiena di Berntsten. Preme il grilletto e lo abbatte. Subito dopo, senza esitare un secondo, spara contro Bøsei. Si piazza sopra di loro a gambe divaricate e li finisce con altri colpi in testa.
Poi imbraccia il fucile semiautomatico Ruger Mini-14 – rinominato Gungnir, in onore della lancia del dio Odino – e trasforma l’isola in una riserva di caccia, crivellando chiunque incontri sul suo percorso al grido di “oggi morirete tutti, marxisti!”
Per cercare di sfuggire al killer diversi attivisti dell’AUF si gettano nel lago Tyrifjorden, rischiando di annegare o di andare in ipotermia. Breivik l’aveva previsto: come dirà al processo, l’acqua sarebbe dovuta diventare “un’arma di distruzione di massa”.
Gli agenti della Delta, l’unità speciale antiterrorismo, arrivano dopo più di un’ora dall’inizio della carneficina. Al momento dell’arresto, il terrorista non oppone alcuna resistenza. “Non ce l’ho con voi”, spiega, “tutto questo ha una motivazione politica: il paese è invaso dagli stranieri”.
Per terra ci sono sessantanove cadaveri. Insieme alle otto vittime di Oslo, il bilancio finale è di settantasette persone.
Il massacro serviva soprattutto a diffondere le sue idee; era una specie di “lancio promozionale”, come l’ha definito lui stesso in seguito
Modello Al Qaeda
Nessun terrorista di estrema destra è mai riuscito ad arrivare a quella cifra da solo – almeno nell’Europa occidentale. E poteva andare pure peggio, visto che i piani originari erano ancora più devastanti: contemplavano tre autobombe per altrettanti bersagli a Oslo e tre attacchi armati contro un centro sociale, la redazione del quotidiano Dagsavisen e la sede del Partito socialista di sinistra.
Anche la data del 22 luglio e il luogo non erano stati scelti a caso. Quel giorno era prevista la visita a Utøya di Gro Harlem Brundtland, ex segretaria dei laburisti e prima premier donna del paese. Il progetto era quello di catturarla e riprendere con un iPhone la sua decapitazione, per poi pubblicare su YouTube il video dell’esecuzione sul modello di Al-Qaeda, di cui Breivik aveva studiato i metodi e apprezzava l’efferatezza.
Alla fine, però, l’esecuzione era saltata. Brundtland si era recata sull’isola ma era andata via anticipatamente, intorno all’ora di pranzo, diverse ora prima dell’arrivo dell’attentatore.
Poco importa: per Breivik andava comunque bene così. Il massacro serviva soprattutto a diffondere le sue idee; era una specie di “lancio promozionale”, come l’ha definito lui stesso in seguito. Prima di parcheggiare l’autobomba a Oslo aveva inviato a più di mille contatti una copia del suo manifesto – un ponderoso tomo di 1518 pagine, iniziato nel 2006 e intitolato 2083. Una dichiarazione europea d’indipendenza.
Il punto centrale del testo è che l’esistenza stessa dell’Europa bianca e cristiana sia minacciata mortalmente da una “invasione islamica” destinata a tramutare il vecchio continente in un incubo a occhi aperti chiamato “Eurabia”.
Da soli, però, i musulmani non potrebbero mai farcela; hanno bisogno dell’aiuto di traditori “autoctoni”, individuati da Breivik nei cosiddetti “multiculturalisti di sinistra”, nei “marxisti culturali” e nelle femministe, che secondo lui hanno infiltrato ogni ganglio istituzionale e mediatico. Nessuno è riuscito a fermare questa deriva: nemmeno i partiti della destra radicale come il Partito del Progresso, in cui Breivik ha militato per anni.
In altre parole: bisogna agire ora, perché ogni giorno che passa ci avviciniamo sempre di più alla catastrofe. “Il tempo del dialogo è finito, è arrivato il tempo della resistenza armata”, scrive. I “patrioti” – che lui chiama i “nuovi cavalieri templari” – devono darsi una mossa e iniziare a prepararsi per l’inevitabile guerra civile e razziale che si profila all’orizzonte. Una guerra che sarà vinta solo attraverso lo sterminio dei musulmani e prima ancora dei traditori di sinistra.
L’aspetto più pericoloso del manifesto di Breivik non è tanto quello ideologico – plagiato in larga parte da alcuni autori, su tutti il blogger norvegese islamofobo Peder “Fjordman” Jensen – ma quello operativo.
Centinaia di pagine sono dedicate a quali armi scegliere e come procurarsele; a come far perdere le proprie tracce digitali per ostacolare il lavoro degli inquirenti; a come organizzare la logistica di un attentato senza destare sospetti; a come tenersi in forma; e persino a quali steroidi usare per migliorare le proprie prestazioni.
In sostanza, Breivik non si è limitato a spiegare i motivi del suo gesto; ha compilato un vero e proprio manuale per aspiranti terroristi, spronandoli a essere ancora più letali di lui. Del resto, come aveva detto nel primo interrogatorio, “il peggio deve ancora arrivare: questi sono solo i fuochi d’artificio”.
E in effetti, gli emulatori non tardano ad arrivare.
Un modello
Nell’agosto del 2012 le forze dell’ordine della Repubblica Ceca arrestano un uomo: sono sicure che sia pronto a compiere un attentato. Nel suo appartamento trovano armi, munizioni e una divisa che somiglia molto a quella della polizia. In alcune mail aveva scritto di essere un “grande ammiratore” di Breivik.
Qualche mese dopo, in Polonia, il ricercatore di chimica Brunon Kwiecień viene fermato e accusato di voler far saltare in aria il Parlamento. Pur essendo influenzato da Breivik, pensava di essere in grado di superarlo – cioè di preparare un ordigno molto più grosso e letale di quello usato nel quartiere governativo di Oslo.
Nel 2014, l’estremista britannico Mark Colborne finisce in carcere per aver pianificato l’uccisione dell’allora principe Carlo con un fucile da cecchino. La polizia viene allertata dal fratello, che aveva scoperto del materiale sospetto nella sua abitazione. L’uomo aveva scritto nel proprio diario: “Non sono un serial killer, sono come Anders Breivik”.
Un altro progetto stragista sventato in extremis è quello del luogotenente della guardia costiera statunitense Christopher Paul Hasson, arrestato nel 2019. Il suo obiettivo era quello di uccidere “quante più persone possibile” e fondare un “etno-stato bianco” negli Stati Uniti. Se ce l’avesse fatta, hanno dichiarato le autorità, sarebbe stato un “attentato di una portata raramente vista in questo paese”.
Secondo l’FBI, i preparativi andavano avanti da oltre due anni. Il militare aveva accumulato più di quindici armi da fuoco, centinaia di munizioni e decine di confezioni di steroidi. Tra i file del suo computer c’era un foglio di calcolo Excel con una lista di potenziali bersagli e il manifesto di Breivik, che stava seguendo praticamente alla lettera.
Il terrorista norvegese è stato inoltre la principale fonte d’ispirazione di Brenton Tarrant, che il 15 marzo del 2019 ha ucciso 51 persone in un duplice attacco armato a due moschee di Christchurch, in Nuova Zelanda. L’attentato è stato trasmesso in diretta su Facebook e annunciato in anticipo sul forum estremista 4chan, dove l’attentatore ha pubblicato anche il suo manifesto intitolato The Great Replacement (“La grande sostituzione”).
Nel documento Tarrant scrive di aver letto i manifesti di altri stragisti di estrema destra, ma di rifarsi soprattutto a quello che chiama “il Gran Cavaliere Giustiziere Breivik”. L’ammirazione è tale per cui l’uomo afferma falsamente di essere stato in contatto con lui e di aver ottenuto la sua “benedizione”.
Terrorgram
In tempi più recenti, il nome di Breivik continua a rimbalzare tra i social network e sul cosiddetto “Terrorgram” – una rete decentralizzata di canali Telegram che si rifanno all’accelerazionismo, cioè un’ideologia di estrema destra che punta al collasso della società attraverso attentati individuali o commessi da piccolissime cellule.
In quegli ambienti, il terrorista norvegese è idolatrato come un “martire” o un “santo”; ci sono illustrazioni in cui il suo volto è circondato da un’aureola, e altre in cui è ritratto con un’armatura medievale mentre crivella di colpi gli “invasori” dell’Europa.
Lo stesso Breivik aveva evocato questo immaginario pseudo-religioso in una lettera del 2012 rivolta alla neonazista tedesca Beate Zschäpe, l’unica sopravvissuta del gruppo terroristico Clandestinità Nazionalsocialista.
“Siamo dei martiri della rivoluzione conservatrice”, aveva scritto, “e siamo le prime gocce di una tempesta purificatrice che sta per abbattersi sull’Europa”.
Da allora, la tempesta si è abbattuta eccome. Eppure, almeno a livello pubblico, in pochi sono disposti a riconoscerlo o ammetterlo.
Ancora adesso, la memoria di Utøya – e più in generale degli attentati di estrema destra – è decisamente disturbante. Lo è perché sbatte in faccia a chiunque una verità scomoda: le nostre società non sono pacifiche né pacificate; sono percorse da una violenza radicale e malvagia. E per farla esplodere non serve un esercito; basta soltanto una persona sufficientemente motivata e autoaddestrata.
A più di dieci anni di distanza da quella strage c’è un’altra inquietante evoluzione da registrare: se nel 2011 le idee di Breivik erano considerate mostruose e marginali, ora non lo sono affatto. Sono invece al centro dello scenario politico, e sono del tutto normalizzate.
La diga tra il conservatorismo e l’estremismo è ormai crollata ovunque in Europa e negli Stati Uniti. I partiti della destra tradizionale e populista impiegano con disinvoltura una retorica apocalittica, infarcita di teorie del complotto razziste – come la famigerata “sostituzione etnica” o il “genocidio dei bianchi” – e parole d’ordine suprematiste.
Come aveva detto tempo fa Viljar Hanssen, uno dei sopravvissuti di Utøya, “mi rendo conto che Breivik è stato sconfitto [in tribunale], ma mi rendo pure conto che in qualche modo è ancora lì fuori. E sta diventando sempre più forte”.
Leonardo Bianchi è giornalista e scrittore. Lavora nella redazione di Facta e collabora con varie testate, tra cui Internazionale, Valigia Blu, Iconografie e il manifesto. Cura una newsletter sulle teorie del complotto chiamata Complotti!. Il suo ultimo libro è Le prime gocce della tempesta. Miti, armi e terrore dell'estrema destra globale (Solferino).
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Come rispondere alla politica della rabbia: il dibattito su Appunti
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Appunti e Dieci Rivoluzioni
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Ascolta La Confessione, il podcast di inchiesta che rivela per la prima volta da dentro come funziona il sistema di copertura e insabbiamento degli abusi sessuali nella Chiesa cattolica italiana.
Un podcast realizzato da Stefano Feltri, Giorgio Meletti e Federica Tourn, realizzato grazie al sostegno della comunità di Appunti. Con la collaborazione di Carmelo Rosa e la consulenza per musiche ed effetti di Stefano Tumiati.
Non se essere un conservatore debba necessariamente qualificarmi come di destra, di certo non ho votato né voterei il Generale Vannacci come mio rappresentante, ma accostarlo a Breivik non fa onore alla vostra intelligenza, non vi fa sembrare più democratici e soprattutto allontana quello spirito di pacifica convivenza e dialettica politica che auspicate quando condannate rabbia e violenza
Ottimo articolo a soprattutto argomento interessantissimo non dimentichiamoci che questo tipo di terrorismo è stato sdoganato in Italia nel nome dell’ anticomunismo negli anni 70 con la strategia della tensione e le stragi nelle stazioni con il tritolo fornito da organizzazioni eversive tipo Gladio.