Le regole non bastano
La mossa del procuratore della Corte penale internazionale ci ricorda che c'è ancora un ordine internazionale, ma che funziona sempre meno, come racconta anche l'economista Marco Magnani nel suo libro
Protezionismo commerciale, restrizioni ai movimenti di capitali e controllo degli investimenti, valuta e sistemi di pagamento, sanzioni economiche, sono sempre più utilizzate per perseguire finalità geopolitiche
Marco Magnani
Buongiorno a tutte e tutti,
Scusate il ritardo. Stanno succedendo molte cose in questi giorni, specie sul fronte geopolitico, che richiedono urgentemente una ripresa dei nostri podcast. Finisco questa settimana alcuni impegni pregressi e mi ci metto.
Non entro nel dettaglio di tutto, ma ne approfitto per segnalare due cose. Primo: l’ordine mondiale di matrice occidentale, con tutti i suoi difetti, è l’unico che abbiamo. Per parafrasare l’abusata citazione, è il peggior ordine mondiale possibile esclusi tutti gli altri.
La richiesta del procuratore della Corte penale internazionale Karim Khan di arrestare per crimini di guerra i vertici di Hamas e il premier di Israele Benjamin Netanyahu e del suo ministro della Difesa Yoav Galant ha suscitato enorme sensazione.
Ci ricorda che esiste una infrastruttura legale internazionale, creata sulla base di valori universali ma di matrice occidentale, un quadro di regole e principi che - come per regole e principi in campo finanziario - si riesce a far rispettare soltanto quando è supportato dalla potenza egemone, gli Stati Uniti. Se vacilla l’egemone, vacilla l’ordine.
E in questo caso gli Stati Uniti non sostengono l’azione del procuratore Kahn, anzi, l’hanno definita “oltraggiosa” perché stabilirebbe una equivalenza tra le azioni di Hamas e quelle dell’esercito israeliano
In realtà, secondo l’opinione degli esperti giuridici a sostegno della richiesta del procuratore Khan, non c’è alcuna equivalenza: i leader di Hamas sono accusati per la strage del 7 ottobre, cioè per stupri, violenze, assassinii, e per aver detenuto ostaggi; Netanyahu e Gallant invece sono accusati di crimini di guerra per le azioni dell’esercito israeliano che, tra l’altro, hanno compreso “l’uso intenzionale della morte per fame (starvation) di civili come strumento di guerra”.
E questo è vietato, oltre che dalla morale e dall’umanità, dalla Convenzione di Ginevra che Israele ha sottoscritto.
Se vi interessa seguire analisi precise e serie della questione, non leggete i giornali italiani ma il sito Just Security da cui prendo la cronologia dell’azione giudiziaria:
Il secondo punto da notare è che le posizioni di principio, anche giuste e giuridicamente fondate, possono rendere più difficile, e non più facile, arrivare a una cessazione delle ostilità.
Anche Putin è oggetto di un mandato di cattura della Corte penale internazionale (come quello richiesto per Netanyahu e gli altri) da marzo 2023.
Il mandato non solo non ha fermato la guerra, ma ha spinto Putin ad appoggiarsi ancora di più ai paesi che non riconoscono la giurisdizione della CPI e la legittimità delle sue accuse, in particolare la Cina.
Anche a livello sovranazionale, come a quello nazionale, la forza delle leggi si regge sulla forza - anche militare, politica, economica - di chi deve farle rispettare. Da sole, valgono poco. E gli Stati Uniti non possono - e nel caso di Israele non vogliono - farle rispettare.
In questi mesi siamo un po’ tutti autodidatti di teoria delle relazioni internazionali. Ognuno ha una sua idea su cosa bisognerebbe o non bisognerebbe fare per fermare le guerre ed evitare che arrivino a minacciare la nostra incolumità individuale.
C’è chi - come Michele Santoro a Otto e mezzo ieri sera - invoca una sostanziale resa dell’Europa: niente spesa militare aggiuntiva, niente aiuti all’Ucraina, distacco dagli Stati Uniti.
Poi c’è chi pensa che difendere il rules based international order - cioè l’ordine internazionale basato sulle regole - sia sufficiente, anche se è sempre più evidente che in tempi di ferro come questi le regole non vengono applicate.
Poi c’è la geopolitica da Instagram dei tanti attivisti - e soprattutto attiviste - che pensano che prendere posizione su Gaza implichi che qualcosa a Gaza cambi nell’immediato.
Gli studenti americani chiedono alle loro università di disinvestire i fondi che gestiscono dalle aziende israeliane: nel caso di quelle quotate l’effetto sarebbe far scendere il prezzo delle azioni e rendere proprio quelle aziende più appetibili per investitori ancora meno sensibili ai diritti umani o allo stato di diritto, come spiega Luigi Zingales in questo podcast.
Le posizioni di principio spesso hanno implicazioni opposte a quelle desiderate: quando la Corte penale internazionale ha detto che l’azione di Israele non era genocidio, ha finito per legittimare un’azione comunque atroce.
L’ipotesi che Netanyahu venga arrestato se va in uno dei paesi che riconoscono la legittimità della Corte rende più difficili le trattative, costringe gli Stati Uniti a schierarsi di nuovo compatti con Israele dopo gli scontri tra Biden e Netanyahu.
Il presidente americano non approva le scelte del governo israeliano e sa che possono costargli la rielezione, ma ogni volta che Israele viene messo sotto accusa come entità complessiva, come progetto, si trova costretto a ribadire l’antica amicizia.
Se gli idealisti finiscono per sembrare ingenui o poco informati, pure i cinici hanno perso credibilità: lasciamo la Crimea a Putin e si fermerà, dicevano negli anni scorsi; meglio Hamas che la corrotta Autorità nazionale palestinese a Gasa ha sostenuto Netanyahu per quindici anni; meglio trattare con l’Iran che trattarlo come paria, era la strategia di Barack Obama…
Insomma, non ci sono soluzioni facili a problemi complicati. E’ il momento di accettare questa complessità e pretendere dai politici in campagna elettorale un grado di serietà e profondità analitica superiore. Ma è anche il momento di pretenderlo da noi stessi: in questa fase gli slogan e le polemiche superficiali sono fiammiferi accesi in una stanza piena di gas.
A questo proposito, oggi vi propongo qui sotto un pezzo dal nuovo libro di Marco Magnani, un economista che segue questo approccio complesso e guarda la geopolitica da una prospettiva economica, che è sempre utile.
Marco Magnani insegna International Economics in Luiss e Università Cattolica. Senior Research Fellow alla Harvard Kennedy School, ha lavorato nell’investment banking in J.P. Morgan a New York e Mediobanca a Milano.
Per Egea ha appena pubblicato Il grande scollamento: Timori e speranze dopo gli eccessi della globalizzazione
Buona giornata,
Stefano Feltri
Armi non convenzionali
di Marco Magnani
A oltre due anni dall’invasione russa dell’Ucraina, iniziata il 24 febbraio 2022, sono sempre più evidenti le conseguenze dirompenti del conflitto sul piano umanitario, economico e geopolitico.
I flussi di rifugiati ucraini stanno mettendo crescente pressione sui paesi vicini, soprattutto la Polonia. L’incertezza sulla continuità dei flussi di gas e petrolio dalla Russia obbliga l’Europa a cercare in fretta forniture alternative. Equilibri geopolitici del passato rischiano di essere scardinati dal rimescolamento di alleanze a livello globale determinato dalla guerra.
Nei mesi successivi l’invasione è emerso un altro importante aspetto, di cui oggi si parla meno ma che sarebbe un grave errore sottovalutare. Si tratta del rischio di crisi alimentare, legata soprattutto all’approvvigionamento del grano. Mosca ha infatti chiaramente mostrato di voler utilizzare il grano – come già ha fatto con le forniture di energia - per ricattare l'Occidente.
Oggi infatti la Russia è il maggiore esportatore mondiale di grano (nel 2023 ha ne ha esportate oltre 45 milioni di tonnellate, davanti a usa, Canada e Francia) con principali destinazioni il Medio Oriente, il Nord Africa, e l’Asia centrale. E con l’invasione dell’Ucraina, Mosca puntava anche alle preziose risorse agricole ucraine: circa 32 milioni di ettari coltivabili, con la regione del Donbass (da dove lo scontro è partito) che produce circa l’8% grano ucraino. Nel complesso l’Ucraina si colloca al quinto posto nell’export mondiale di grano, oltre ad essere un importante fornitore di mais e olio di semi.
L’utilizzo delle risorse alimentarli a fini geopolitici non è una novità ma sta diventando un trend sempre più diffuso.
La crisi della globalizzazione attualmente in corso sta producendo un profondo mutamento delle relazioni tra paesi, le cui decisioni sono spesso condizionate da motivazioni di natura geopolitica.
Sempre più spesso commercio e finanza, risorse energetiche e minerarie, tecnologia, flussi migratori, sport e cultura, perfino progressi in campo medico e scientifico, sono utilizzati dalle nazioni come armi non convenzionali per perseguire obiettivi geopolitici e proteggere la sicurezza nazionale, intesa non solo sul piano territoriale. E lo stesso accade per le risorse alimentari.
La sicurezza alimentare, cioè la capacità da parte di un governo di assicurare il soddisfacimento delle esigenze alimentari della popolazione, è infatti un’importante dimensione della sicurezza nazionale.
La sicurezza alimentare è garantita attraverso la programmazione della produzione agricola, la pianificazione delle scorte, la garanzia dell’affidabilità delle forniture dall’estero.
Queste ultime beneficiano della globalizzazione, cioè dell’esistenza di efficienti mercati internazionali che consentono rapidi approvvigionamenti. Ma un elevato grado di integrazione economica aumenta anche l’interdipendenza tra paesi. Peraltro negli ultimi anni, la crescente volatilità dei prezzi delle commodity alimentari - cioè l’entità e la rapidità con cui i prezzi variano nel tempo - ha reso la sicurezza degli approvvigionamenti alimentari ancor più strategica.
Effetti collaterali della sovranità
Il concetto di sicurezza alimentare è strettamente collegato con quello di sovranità alimentare che ha tra i suoi principali obiettivi calmierare i prezzi interni e rendere le forniture alimentari meno dipendenti da altri paesi e meno soggette a shock esterni. A tal fine diversi paesi tendono a limitare importazioni ed esportazioni di generi alimentari attraverso il protezionismo, incentivare la produzione interna e accumulare scorte. Tutte misure che diminuiscono il grado di integrazione internazionale.
In questo senso vanno lette le recenti decisioni dell’India di bloccare le esportazioni di grano, del Vietnam di sospendere quelle di riso, del Kazakistan di congelare quelle di grano saraceno, zucchero e olio girasole, del governo slovacco di aumentare il controllo sull’esportazione di cereali e semi oleosi, ma anche l’esortazione di Xi Jinping ai contadini cinesi a produrre più riso.
Queste decisioni aumentano la sicurezza alimentare interna ma spingono al rialzo i prezzi mondiali dei generi alimentari, sia perché ne riducono l’offerta sui mercati internazionali e sia perché alimentano un clima di incertezza sulle catene di approvvigionamento.
Il blocco indiano per esempio ha prodotto un aumento del prezzo del grano sul mercato mondiale del 6 per cento nelle 24 ore successive l’annuncio, e ciò nonostante l'India sia solo l'ottavo esportatore di grano al mondo.
Naturalmente pandemia e guerra in Ucraina hanno aumentato i rischi sulla sicurezza alimentare globale, interrompendo le catene di approvvigionamento e causando volatilità dei prezzi.
Molti paesi hanno reagito aumentando le scorte al fine di ridurre la propria dipendenza dai mercati internazionali e l’esposizione a futuri shock esterni. Particolarmente significativo il caso della Cina che si stima abbia accumulato enormi scorte alimentari, tra cui circa il 68 per cento del granoturco mondiale (di cui già produce il 23 per cento del totale), il 60 per cento del riso (di cui produce il 28 per cento) e il 51 per cento del grano (di cui produce il 17 per cento).
Secondo alcuni analisti Pechino si sta preparando a un possibile conflitto militare e a resistere a future sanzioni economiche da parte dell’Occidente. Certamente la Cina può utilizzare l’arma alimentare per aumentare la propria influenza internazionale, per esempio influendo sui prezzi mondiali e controllando le catene di fornitura.
Geopolitica dell’agricoltura
L’utilizzo geopolitico delle risorse alimentari può infatti andare oltre l’obiettivo della sicurezza alimentare. Un paese può indirizzare le esportazioni di prodotti alimentari, o di tecnologie e know-how per la loro produzione, verso paesi amici e alleati o con i quali vuole creare o rafforzare un legame strategico e diplomatico. E può limitare le esportazioni nei confronti dei paesi nemici o rivali oppure utilizzarle per creare una loro dipendenza e aumentare così il proprio potere negoziale su questioni internazionali.
Un esempio del primo caso sono gli storici Accordi di Abramo, firmati nel 2020 da Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrain (e oggi messi a rischio dal terribile conflitto tra il movimento terrorista Hamas e Israele).
Se l’obiettivo dichiarato degli accordi è quello di rafforzare la collaborazione nel digital farming e soddisfare i fabbisogni alimentari della penisola arabica, è evidente che gli accordi hanno una più ampia finalità geopolitica perché possono contribuire a normalizzare le relazioni diplomatiche tra Tel Aviv e le monarchie del Golfo e favorire la stabilità politica della regione.
Un esempio del secondo caso sono le esportazioni di grandi quantità di grano durante la guerra fredda, e nonostante la rivalità geopolitica e militare, dagli Stati Uniti (allora prima produttore mondiale) verso l’Unione Sovietica, che non riusciva a soddisfare i fabbisogni interni a causa di inefficienze, corruzione e arretratezza tecnologica.
Questo canale commerciale è stato importante per dare sbocco all’eccesso di produzione degli agricoltori americani ma anche come strumento di pressione politica di Washington nei confronti di Mosca. Strumento utilizzato dal presidente Jimmy Carter nel gennaio del 1980 quando, in risposta all'invasione dell'Afghanistan da parte dell'Urss qualche settimana prima, gli Usa dichiarano l’embargo del grano (poi revocato nel 1981 in seguito all'elezione di Ronald Reagan, appoggiato da organizzazioni di agricoltori e dalle loro lobby).
Oggi l’ “arma del grano” è nelle mani della Russia. Mosca è di gran lunga il maggiore esportatore mondiale di grano e non esita a utilizzare quest’arma non convenzionale per perseguire i propri interessi geopolitici.
La decisione di bloccare, dopo l’invasione dell’Ucraina, le esportazioni di grano mette pressione sull’Occidente anche perché un’eventuale crisi alimentare mondiale creerebbe instabilità sociale e politica in molti paesi africani, aumentando il rischio di flussi migratori difficilmente controllabili verso l’Europa.
E’ interessante notare come la posizione geografica della Russia stia rafforzando l’arma alimentare nelle mani di Mosca. Infatti il riscaldamento globale ha reso coltivabili e favorevoli all’allevamento diversi territori e ha consentito di aumentare la produzione ittica.
Le forniture alimentari giocano un ruolo importante nella gara in corso da anni tra Cina, Russia e Stati Uniti (ma che coinvolge anche India e Turchia) per aumentare l’influenza geopolitica in Africa. La Russia privilegia nelle esportazioni di grano i paesi africani in cui il gruppo militare mercenario Wagner, finanziato dal Cremlino, opera a sostegno dei dittatori locali.
L’approvvigionamento di risorse alimentari e l’acquisto di terreni coltivabili sono colonne fondamentali dell'influenza di Pechino nel continente africano.
Gli Stati Uniti hanno spesso utilizzato il sostegno alimentare come strumento per rafforzare le relazioni internazionali con diversi paesi in via di sviluppo attraverso gli interventi dell'Agenzia per lo Sviluppo Internazionale (Usaid). Più recentemente, Washington ha lanciato un importante piano di aiuti alimentari, e auspicato che l’Unione Africana diventi membro permanente del G20.
L’India sta aumentando la propria influenza in Africa, mediante accordi commerciali, investimenti diretti esteri, trasferimenti di tecnologia, ma anche attraverso partnership nel settore agricolo. Nell’arco di circa 50 anni, New Dehli è passata dalla dipendenza da aiuti alimentari a essere esportatore netto di cibo e gestisce il sistema di distribuzione alimentare pubblica più grande al mondo che fornisce aiuti sovvenzionati a milioni di persone.
La Turchia persegue le proprie ambizioni di influenza sul continente africano oltre che con il finanziamento di milizie locali e accordi di fornitura di armi, anche attraverso l’aiuto alimentare, per esempio in Somalia, e mediante l’attività diplomatica per garantire il flusso di grano russo e ucraino nonostante la guerra.
Nel lungo periodo
Le relazioni tra nazioni stanno mutando rapidamente e profondamente. Potenti forze di cambiamento stanno rallentando il processo di integrazione internazionale e mettendo in crisi la globalizzazione.
Alcune di queste forze sono di natura economica e tecnologica e, dopo decenni di aggressiva delocalizzazione produttiva, portano alla riconfigurazione delle catene globali del valore e alimentano il reshoring. Altre forze scaturiscono da dinamiche di politica interna che spingono per maggiore chiusura e protezione degli interessi nazionali.
Anche i sempre più frequenti shock esterni contribuiscono alla crisi della globalizzazione, rendendo evidente la fragilità di catene di approvvigionamento troppo lunghe e complesse. Infine, vi sono forze di natura geopolitica che contrastano la globalizzazione.
Protezionismo commerciale, restrizioni ai movimenti di capitali e controllo degli investimenti, valuta e sistemi di pagamento, sanzioni economiche, sono sempre più utilizzate per perseguire finalità geopolitiche.
Lo stesso accade con la gestione di flussi di migranti e rifugiati, con le forniture di materie prime strategiche e di energia, con la condivisione di tecnologia e di ricerca medico-scientifica, con gli investimenti in sport e cultura. E come, abbiamo visto, con l’utilizzo a fini geopolitici delle risorse alimentari.
La sovranità nazionale prevale sull’efficienza economica, politica e geopolitica si impongono sull’economia.
L’utilizzo di queste armi non convenzionali può essere efficace nel breve periodo. Ma nel medio-lungo termine rischia di avere costi elevatissimi e innescare conseguenze non desiderabili.
La tendenza, già in corso in vari ambiti, è quella di un progressivo scollamento tra diverse parti del mondo, che sono sempre meno collegate e interdipendenti e sempre più divise e distanti. Una situazione che aumenta esponenzialmente il rischio di incomprensioni, tensioni, e scontri (anche militari).
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Un altro caso da manuale del "ci siamo messi nelle mani degli altri" e' l'elettronica di consumo (implicitamente riferita nell'articolo come tecnologia): che succede se domani la Cina minaccia di interrompere la fornitura di tecnologia a bassissimo costo a tutto il mondo? Che succede se si prende Taiwan? Era appena ieri che a causa del COVID la produzione di auto aveva fortemente rallentato perche' non c'erano integrati per fare le centraline.
Siamo disposti a rinunciare a cambiare telefono o computer ogni 2 anni perche' improvvisamente l'elettronica di consumo raddoppia i prezzi perche' ci dobbiamo fare i componenti in casa (vedi Germania che sta mettendo su delle fab per fare microchip)?
La sicurezza negli approvigionamenti alimentari, cosi' in altri settori sembra partire dal presupposto che il nostro sistema economico non possa cambiare. Che non possiamo smettere di correre e consumare (e sprecare) come stiamo facendo oggi. Ogni acquisto su Alibaba "perche' costa meno" e' un regalo alla Cina. Ogni volta che accendiamo il riscaldamento, Putin ringrazia.
Ma e' proprio cosi' (domanda sincera, non retorica)? E se no, quanto potrebbe cambiare l'ago della bilancia della nostra dipendenza se cambiassimo di un po' le nostre abitudini?
I suoi articoli sono preziosissimi al fine di far sì che le persone imparino a riflettere e soprattutto ad informarsi prima di esprimere giudizi avventati e pertanto forieri di disinformazione e aggressività