La verità sul nostro fact-checking
Come funziona davvero il controllo sulle notizie sospette che adesso Meta vuole sospendere? Lo spiega chi lo ha fatto per anni
In un mondo in cui le notizie non sono più monopolio di pochi grandi media – televisioni, radio, giornali – ma circolano in modo libero e spesso orizzontale, non mediato, con origini incerte, il debunking è un servizio necessario
Giovanni Zagni
Con un comunicato del 7 gennaio, accompagnato da un video di cinque minuti del cofondatore e CEO Mark Zuckerberg, Meta ha annunciato l’interruzione della collaborazione con i fact-checker indipendenti negli Stati Uniti, lanciata alla fine del 2016. Fin da quando il programma – chiamato Third-Party Fact-Checking Program o 3PFC – è stato esteso all’Italia, nel gennaio 2018, i progetti di fact-checking di cui sono direttore ne hanno fatto parte per il nostro Paese.
All’inizio tramite Pagella Politica, in una sezione separata del nostro sito e con personale dedicato, e dal 2020 unicamente tramite Facta, il progetto che abbiamo lanciato durante la pandemia per occuparci del fact-checking non politico (o debunking). A ottobre 2021 si è aggiunto al 3PFC, per l’Italia, la sezione di fact-checking di Open di Enrico Mentana.
La scelta di interrompere questo programma negli USA è del tutto legittima e non sta a me commentarla o giudicarne le ragioni.
Mi limito a segnalare che nel comunicato non sono stati forniti dati, studi o ricerche che abbiano dimostrato l’inefficacia del programma in sé.
Si è fatto riferimento invece al mutato clima politico negli Stati Uniti e al fatto che i fact-checker si fossero dimostrati – nelle parole di Mark Zuckerberg – «troppo schierati politicamente» e avessero «distrutto più fiducia di quanta ne abbiano creata, in particolare negli Stati Uniti».
Allo stesso tempo è stato annunciato il passaggio a un sistema di “community notes” simile a quello che è attualmente disponibile su X, il social network di proprietà di Elon Musk, oltre a sostanziali modifiche nelle politiche di moderazione dei contenuti.
Negli Stati Uniti il 3PFC verrà interrotto nelle prossime settimane, mentre per il resto del mondo il programma per ora prosegue. Premetto subito che la nostra partnership con Meta avviene in cambio di un contributo economico da parte di Meta, che è dichiarato sul nostro sito come una delle collaborazioni da cui dipende una parte rilevante del nostro budget. Siamo tenuti a dichiararlo anche nel rispetto dei requisiti di trasparenza del Codice dei principi dell’International Fact-Checking Network (IFCN).
Il mondo del fact-checking ha reagito alla notizia con allarme per molti motivi, tra cui quelli economici: secondo un sondaggio dell’IFCN, la partnership con Meta è una delle principali fonti di finanziamento per le organizzazioni che ci partecipano, cresciute negli anni fino a raggiungere il centinaio in una sessantina di lingue diverse (la lista completa è qui).
Il cambio di strategia, dicevamo, è stato motivato con accuse di parzialità ai fact-checker, in particolare negli Stati Uniti, e con il mutato clima politico, che si è riflesso anche nel cambio al vertice del responsabile dei global affairs di Meta: non più Nick Clegg, ex leader dei Libdem britannici, ma Joel Kaplan, ex capo di gabinetto di George W. Bush, che firma il comunicato di annuncio della fine del programma.
Il nostro lavoro
Mi vorrei concentrare sul nostro lavoro – commentato indirettamente da molti, in queste ore, tradendo di saperne poco o nulla – e sugli articoli di debunking che abbiamo scritto finora anche all’interno del 3PFC.
Quelli pubblicati da Facta sono stati oltre 3.800, tutti pubblicamente disponibili qui. Chiarisco subito che Meta non ha mai esercitato alcuna influenza sulle nostre valutazioni e sulle conclusioni a cui siamo arrivati nel nostro lavoro.
Vediamo più nel dettaglio alcune delle più recenti, una buona selezione della tipologia di contenuti di cui ci occupiamo con il nostro debunking: una foto falsa (creata con l’intelligenza artificiale) riguardo gli incendi in California, una notizia falsa (che in Italia circola da settimane) su una nuova tassa sul libretto di circolazione, un’altra notizia inventata su Musk che acquista Boeing, un video parzialmente modificato e fuori contesto che voleva far passare la notizia della presenza di lupi nei dintorni di Roma.
Nulla di tutto questo riguarda opinioni, men che meno opinioni politiche, né è servito a censurare la libera espressione del pensiero di nessuno.
Quello che abbiamo fatto negli anni è piuttosto verificare centinaia di segnalazioni riguardo contenuti falsi, manipolati, inventati di sana pianta. I nostri articoli vengono associati a quei contenuti per fornire ulteriore contesto agli utenti: compaiono etichette di avvertimento sul fatto che il contenuto è stato verificato e se ne riduce la distribuzione, ma i contenuti non sono rimossi.
Gli utenti possono comunque decidere di cliccare, vedere, condividere, e possono anche restare dell’idea che la scritta “Hollywood” sia veramente andata in fiamme, anche se non è vero. Sull’efficacia delle etichette torno a breve.
Per ulteriore chiarezza: il lavoro quotidiano di verifica delle dichiarazioni politiche svolto da Pagella Politica non c’entra nulla, non è collegato in alcun modo con il 3PFC ed è tra l’altro svolto da una redazione separata (io sono il direttore di entrambe).
Gli articoli di debunking che abbiamo scritto nell’ambito del 3PFC sono solo e soltanto quelli che si trovano a questo link (e a questo, per il periodo 2018-2020). Idee e opinioni sono esplicitamente escluse dalle linee guida fornite da Meta per il 3PFC, che sono pubblicamente disponibili. I contenuti postati da esponenti, partiti o candidati politici sono esclusi dallo scopo del programma.
C’è poi un sistema di appello nel caso in cui chi ha avuto a che fare con un contenuto ritenuto falso ritenga che la valutazione del fact-checking sia sbagliata. Secondo i dati forniti dalla stessa Meta, le decisioni dei fact-checker sono state ribaltate “in appello” solo nel 3 per cento dei casi.
Per ogni altra categoria di moderazione – di cui, è bene precisarlo, non si occupano i fact-checker – le percentuali sono sempre superiori al 60 per cento: 92 per cento nel caso di bullismo, 86 per cento violenza e così via (i dati si riferiscono a Facebook e sono molto simili anche per Instagram).
Quali siano stati gli effetti di questo lavoro, quanti casi di disinformazione virale siano stati limitati grazie al programma e quante notizie false – foto, video, articoli – non siano stati condivisi in conseguenza del nostro intervento non sta a me dirlo, perché non ho accesso a dati completi in merito.
Secondo dati pubblici forniti da Meta, nell’Unione europea, tra luglio e dicembre 2023, la piattaforma ha «aggiunto etichette di fact-checking a più di 68 milioni di contenuti» tra Facebook e Instagram. Nel 95 per cento dei casi gli utenti hanno deciso poi di non cliccare per vedere il post (qui a pagina 19 e 74). Di che tipo di contenuti stiamo parlando ho fatto qualche esempio sopra.
Le critiche
Ci sono stati, certo, alcuni casi in cui sono stati commessi errori all’interno del 3PFC, e su un piccolo numero di casi di alto profilo si sono concentrate parte delle critiche al programma di questi giorni. Ma vengono citati sempre gli stessi (pochi) esempi, alcuni che non riguardano il 3PFC o sono singoli casi del tutto eccezionali, non rappresentativi di un programma che va avanti da anni.
Si ricorda spesso, ad esempio, la storia del laptop del figlio di Biden: un caso tutt’altro che tipico in cui la spinta decisiva a ridurre la diffusione del contenuto sulla piattaforma era arrivata dall’FBI preoccupata delle ingerenze russe, per stessa ammissione dei vertici di Meta che in seguito alla segnalazione ha deciso di prendere misure straordinarie, e non dai fact-checker del 3PFC.
Si cita poi l'esempio dell’origine in laboratorio del virus del Covid-19, un altro caso del tutto particolare in cui Meta aveva deciso in autonomia la rimozione dei contenuti che riportavano la teoria, all’interno delle azioni per ridurre i rischi per la salute derivanti da informazioni scorrette.
Non capisco allora da dove vengano frasi come quella che ho letto sabato in una newsletter di successo sugli Stati Uniti, secondo cui il programma ha avuto «risultati non particolarmente difendibili», citando il fatto che «in molti casi, poi, soprattutto negli Stati Uniti, i fact-checker […] hanno etichettato come disinformazione e falsità anche le opinioni con cui non erano d’accordo».
Non trovo riscontro di ciò in quanto so dell’attività dei colleghi in circa dieci anni di esperienza. Non ho poi informazioni sul fatto che «il grosso del lavoro» fosse stato «appaltato a sistemi automatici», per quanto riguarda la valutazione di eventuali notizie false.
La stessa newsletter si chiede poi in modo retorico se i social network siano migliori oggi rispetto a otto anni fa, per quanto riguarda la disinformazione: ma qui non c’è alcun controfattuale. Non lo sappiamo.
Abbiamo visto di recente, nel caso di X, quanto una piattaforma possa diventare molto peggiore davvero molto in fretta. È una legittima opinione che il 3PFC non sia servito a nulla, ma la risposta alla domanda retorica, se vogliamo essere onesti, è: non si può dire in modo definitivo.
Ci sono però molti studi scientifici (come questo, questo, questo, questo e questo) che mostrano come apporre etichette ai contenuti di disinformazione abbia un effetto positivo sulla loro mancata diffusione e sulle convinzioni degli utenti.
Davvero incredibile poi è una frase come questa, dall’editoriale di sabato 11 gennaio del direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio: «Nel mondo dorato del fact checking degli amici di Zuckerberg, è vietato chiamare col suo nome lo sterminio israeliano di palestinesi a Gaza». È una pura invenzione – a proposito di fatti – qualsiasi connessione tra il 3PFC e la scelta del lessico da usare per parlare di Gaza.
Chiamare le cose con il loro nome
Sono a conoscenza di un numero molto limitato di casi in cui partner statunitensi del 3PFC abbiano fatto errori che hanno ricevuto grande attenzione, ma sono casi isolati e numeri bassissimi (a memoria me ne vengono in mente forse tre o quattro), a fronte di molte migliaia di articoli. In Europa, l’ambito che conosco meglio, i casi controversi sono stati ancora meno e se devo essere sincero me ne vengono in mente pochissimi riguardo l’Italia.
In tanti anni di collaborazione mi sento di dire serenamente che i nostri errori sono stati rari e i reclami rarissimi (non posso parlare per conto di altri). Non abbiamo mai preso alla leggera il nostro compito e lo abbiamo portato avanti con cura, attenzione e massimo rispetto per tutti gli utenti.
Poi, come in tutte le imprese umane, potremo aver sbagliato e aver ceduto a qualche nostro più o meno cosciente pregiudizio. Ma un video manipolato è un video manipolato, e dipingerci come i censori del libero pensiero per portare avanti un’agenda di estrema sinistra è ridicolo.
Credo che chi festeggia per la fine del 3PFC lo faccia non tanto perché ha critiche basate sui fatti e nel merito del programma, quanto piuttosto per una più generale diffidenza nei confronti del concetto stesso del fact-checking o per una scarsa conoscenza di cos’è la pratica e il mondo del fact-checking oggi. Anche se, negli ultimi anni, moltissime testate, direi quasi tutte, hanno pubblicato articoli di fact-checking: incluse quelle a cui appartengono molti dei critici di oggi.
I commenti che hanno fatto séguito alla notizia e l’hanno salutata con soddisfazione tendono ad avere una visione caricaturale e non di prima mano del 3PFC, dei progetti di fact-checking e più in generale del senso di verificare delle notizie.
Come ho provato ad argomentare – anche per esteso, in questo libro scritto con il sociologo Luca Serafini – il fact-checking è l’opposto della censura: è un genere di informazione che prova a fornire contesto, controllare le fonti, aggiungere conoscenza su un contenuto già presente online (il che lo differenzia dalla verifica preliminare delle notizie da pubblicare, che in teoria dovrebbe avvenire in ogni redazione) e a dare al pubblico il risultato di quella ricerca.
In un mondo in cui le notizie non sono più monopolio di pochi grandi media – televisioni, radio, giornali – ma circolano in modo libero e spesso orizzontale, non mediato, con origini incerte, il debunking è un servizio necessario.
Ci sarà pur bisogno di segnalare che una foto falsa è una foto falsa. Se poi non si vuole che, sulle piattaforme, questo esercizio sia fatto da persone che si sono scelte quel mestiere, ma si preferisce affidarlo ad altri strumenti come l’intelligenza della folla o a (finora inesistenti) sistemi automatici di fact-checking, oppure anche a nessuno, resta la necessità di chiamare le cose con il loro nome, e di dire che una balla è una balla.
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Ecco, così si scrive una critica, con argomenti di sostanza. Molto corretto, per me. Ora la mia attenzione al problema è spinta ad essere più intensa. Mi piace il modo e i contenuti.
Articolo illuminante (al di là del dissing a Francesco Costa, che stimiamo, ma effettivamente sul tema fact checking è stato un po' superficiale). Difficile controbattere alle argomentazioni: il debunking è necessario oggi più che mai. La scelta di Meta è solo e soltanto una scelta politica. Legittima per carità (libertà di scelta), ma che avrà degli effetti negativi purtroppo importanti