La Siria dopo Assad
La fine del regime è un fatto locale e globale: la prima incertezza è il destino delle comunità sciite e cristiane in Siria dopo il successo del leader ribelle Abu Muhammad al Julani
L’incubo assadista che la Siria ha vissuto può essere riassunto nello slogan delle milizie del regime: “Assad o bruceremo il Paese”. Non è solo culto della personalità, è stata un’ideologia. Questo sistema assadista ha favorito mostri ideologici che poi ha combattuto per presentarsi come “il male minore”
Riccardo Cristiano
Un collega siro-libanese che dalla morte del capo di Hezbollah Hassan Nasrallah, a Beirut il 27 settembre, mi diceva che si avvicinava il turno del dittatore siriano Bashar al Assad, perché lui aveva resistito solo grazie alla presenza dei miliziani di Hezbollah, negli ultimi giorni si era fatto prudente: ripeteva che non si poteva mai dire.
Poi il 7 dicembre mattina ha visto il leader della milizia più radicale e potente, l’ex quadro di al Qaida a tutti noto con il nome di Abu Muhammad al Julani, nome di battaglia che vuole indicare con il vocabolo Julani le sue origini di figlio del Golan siriano, in lotta contro il regime, sempre apparso con il classico barbone dei jihadisti e la keffyah intorno al collo, presentarsi in televisione in giacca e camicia bianca, barba corta e soprattutto un altro nome, Ahmad Sharaa, il suo nome anagrafico. A quel punto ha detto: “Allora è fatta”.
La fine dei piani iraniani
La storia di una Stato di barbarie non può essere dimenticata nel breve volgere di qualche minuto. La caduta di Assad è un fatto globale, è la fine del progetto iraniano di esportazione della rivoluzione teocratica imposta non dalla rivoluzione iraniana ma dal golpe khomeinista di poco successivo, quando catturando gli ostaggi all’ambasciata americana di Teheran costrinse a uscire di scena il premier islamo-liberale Mehdi Bazargan e impose il suo progetto di conquista teocratica.
Ma la fine di Assad è anche un fatto siriano, un incubo durato 54 anni, cominciato con il golpe di Hafez al Assad, fondatore della dinastia degli Assad, una famiglia appartenente a una piccola e nobile minoranza siriana che ha governato col terrore e contro la comunità maggioritaria, i sunniti. Mettere le comunità l’una contro l’altra è stato il suo principio ispiratore per ricattarle tutte.
Questo incubo può essere riassunto nello slogan delle sue milizie: “Assad o bruceremo il Paese”. Non è solo culto della personalità, è stata un’ideologia.
Questo sistema assadista ha favorito e anche aiutato i mostri ideologici che poi ha combattuto per presentarsi come “il male minore”.
Forse nelle ultime ore del 7 dicembre Bashar al Assad si sarà ricordato che seguendo questo principio familiare fondamentale, nel 2011 lui amnistiò Abu Muhammad Julani, oggi Ahmed Sharaa, mentre lasciò a morire nelle sue segrete i leader disarmati della rivoluzione.
Allora bisognerebbe oggi rileggere bene anche la storia di padre Paolo Dall’Oglio, espulso da Assad e poi sequestrato dall’Isis.
La sua storia è la sintesi della storia di un popolo che è stato espulso dal suo Paese da Assad e poi sequestrato dall’Isis che ci ha impedito fino ad oggi ogni solidarietà con i siriani, immersi nella paura del suo terrificante derivato.
Scontro di civiltà
Rileggere il passato tenebroso è più facile rispetto alla decrittazione di un futuro incerto. Sarebbe stato preferibile se quanto accade oggi fosse accaduto il 21 agosto 2013, quando Bashar al Assad usò l’arma chimica contro i civili siriani causando una delle più delle grandi stragi del suo regno stragista, paragonabile solo a quella di curdi ordinata dal dittatore iracheno Saddam Hussein nel 1988.
Bisogna capire e immaginare tutto questo per capire e immaginare il cuore dei siriani, di chi sente uscire da sé uno strazio incalcolabile e di chi teme vendetta per il solo fatto di appartenere a una comunità avversata dai jihadisti.
E’ proprio il motivo del dolore di tanti dalla parte opposta della barricata, vessati o torturati ( è successo a tanti) solo perché appartenenti a una comunità non amata dal regime. Dunque questo è il problema più importante: uscire dal ciclo della violenza settaria, intercomunitaria, quello che il regime ha alimentato per mezzo secolo.
La trasformazione dell’abito e del nome di Julani ha rilievo per questo: lui è emerso nel nome dell’odio verso gli sciiti. Questo è un primo rischio per l’oggi: le comunità sciite chi le tutelerà?
Ed ecco un altro rischio, quello curdo. C’è una certa rivalità tra curdi e arabi, ma è soprattutto il grande finanziatore degli insorti, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, a chiedere di regolare i conti con i suoi rivali.
Questa seconda mina, che già si vede portare a galla attacchi ed espugnazioni a dir poco preoccupanti, rimanda a un'ulteriore mina, quella cristiana. Che possano temere il precedente tipo di barba usato per anni da Julani lo definirei un “atto dovuto”.
Ma allora è dovuto anche pensare che se i cristiani avessero avuto il coraggio di unirsi alla Primavera Araba negli anni passati la storia oggi sarebbe diversa.
La storia non si fa con i “se”, ma se i patriarchi avessero osato vedere lo spazio nel 2011 di una rivolta islamo-cristiana forse parleremmo di un altro sviluppo, dalle ricadute per tutto il Mediterraneo. Non è andata così. Qui si gioca una partita anche di altra natura: Julani seguiterà ad alimentare una visione, dal suo punto di vista, di “scontro di civiltà”?
Machiavelli nel Golfo
E’ qui che, accanto alla personale metamorfosi di Juliani, vera o presunta, emerge un’altra costante, la congiura. Non so se i leader arabi del Golfo abbiano letto mai Machiavelli, ma Machiavelli affermava che le congiure se riescono sono una festa, ma sono un disastro per i congiurati se falliscono.
Dunque si potrebbe pensare che il bacio della morte ad Assad lo hanno dato loro, quando in ossequio al falso rituale della “fratellanza araba” gli hanno offerto sostegno pochi giorni fa, dicendogli che gli avrebbero fatto togliere le sanzioni internazionali, se avesse lasciato i suoi sponsor iraniani. Ma Assad aveva bisogno di soldati, non di arrivare alla fine del mese.
Se così fosse alle monarchie del Golfo sarebbe andata bene, avrebbero scelto di stare col mondo e non contro. Ma la modalità delude.
Se davvero, con i grandi concerti rock e i sontuosi eventi sportivi, le corone arabe hanno scelto la via dell’occidentalizzazione, questa non può essere così selettiva. Oltre al divertimento, al consumo, un’occidentalizzazione che funzioni è anche la scelta di società più aperte. E la questione siriana obbligava a dire ufficialmente che “quando è troppo è troppo”.
L’invito fraterno a cambiare strada avrebbe aperto le porte a una Siria federale, non nelle scelte di Assad, ma nella cultura politica di quel mondo.
La conferma del premier in carica da parte degli insorti conforta in questo senso. Non credo che si eviti il caos andando a rapide “libere elezioni” come lui ha detto, ma progettando un federalismo che unisca i siriani nell’indispensabile rispetto delle loro diversità.
Se, come appare, è il non riconoscere le diversità che produce la violenza, appare preferibile la strada inversa. Un cammino consensuale, federale, farebbe molto bene a quelle società uscite dal buio pesto. Non arriverà Tocqueville nel giro di poche ore, il modello da auspicare è quello federale.
La voce di una possibile morte di Assad mentre era in volo verso una base russa confermerebbe che la strada dell’odio comunitario è mortale.
Grazie per la analisi
Grazie per le informazioni e la chiarezza