La rabbia tra le macerie del capitalismo
IL DIBATTITO DI APPUNTI - La malattia del capitalismo è irreversibile e con essa svaniscono tutti i punti di riferimento dell'identità personale e collettiva di vasti gruppi sociali.
Quando intellettuali e analisti spiegano allo schiavo moderno che il suo futuro dipende dalla contesa - verosimilmente a base di lancio di missili - per il controllo delle terre rare, è arduo attendersi una reazione diversa dalla disperazione
Giorgio Meletti
Buongiorno a tutte e tutti,
molti di voi saranno in vacanza e anche io mi prendo un po’ di pausa, nel senso che gli Appunti settimanali in video tornano tra un paio di settimane e a meno di cose e epocali eviterò interventi di attualità.
Ma dalla mia lunga esperienza nei giornali so che lettori e lettrici hanno più tempo e voglia di leggere proprio quando i giornalisti hanno meno tempo per lavorare.
Dunque, non vi preoccupate: Appunti non si ferma. Ci sono molti pezzi in arrivo che vi terranno compagnia sotto l’ombrellone o in ufficio, se siete tra i pochi rimasti in città al caldo.
Oggi c’è un grande pezzo di Giorgio Meletti nel dibattito sulla rabbia, che ribalta la prospettiva e riporta nella discussione quello che avevamo rimosso, cioè la dimensione economica, la struttura del capitalismo sottostante a quella del confronto politico e della protesta.
Tutta la prima parte del dibattito ha guardato alla rabbia da una prospettiva non-economica, ma adesso è il momento di riportarla al centro.
Fateci sapere cosa ne pensate e se condividete.
Buona lettura,
Stefano
Il dibattito di Appunti - Come rispondere alla rabbia
I sostenitori della democrazia liberale sembrano destinati a diventare una frustrata minoranza, per effetto della rapida scomparsa dei partiti più moderati, per l’ascesa delle destre radicali e per l’affermarsi di figure e forze anti-sistema, non più soltanto populiste ma anti-democratiche.
Da Donald Trump negli Stati Uniti, ad Alternative für Deutschland in Germania, a Nigel Farage in Gran Bretagna, a Marine Le Pen e Jordan Bardella in Francia.
Questo rinnovato successo delle foze più antidemocratiche ha colto molti di sorpresa e suscita sconcerto.
Cosa si può fare? Ne discutiamo su Appunti per tutta l’estate a partire dal libro di Carlo Invernizzi-Accetti Vent’anni di rabbia (Mondadori)
Il vero conflitto
di Giorgio Meletti
Non solo non moriremo democristiani, come vaticinò Il Manifesto il 28 giugno 1983, ma per i nati nel Dopoguerra si profila il destino di morire in un mondo più simile al comunismo che al capitalismo.
L'umanità ha visto morire lungo i secoli lo schiavismo e il sistema feudale, poi ha creduto di veder morire il comunismo che invece stava solo cambiando pelle in una limitata parte del mondo chiamata Russia.
L'Occidente si è però illuso che la Storia avesse dato il suo verdetto, che il “nostro” sistema avesse vinto sul "loro" perché migliore, migliore in quanto perfetto e quindi eterno.
Un’illusione antistorica e del tutto irrazionale, molto somigliante a una superstizione, ha impedito all'Occidente di dare un nome alle cose e ha creato nelle masse popolari quello spaesamento che oggi si esprime in rabbia.
Se davvero il nostro sistema capitalistico avesse vinto, avrebbe conquistato la Russia, dove invece permane lo stesso modello di sempre, la dittatura di una burocrazia che dirige l'economia in assenza di una borghesia imprenditoriale. Invece.
Dell'acuta analisi di Carlo Invernizzi-Accetti (Vent'anni di rabbia, Mondadori) colpisce come in un affresco politologico e antropologico che spazia da Omero ai fratelli Vanzina, passando per Hobbes, Hegel, Marx e Casaleggio, non compaia mai la parola Cina, né venga evocato il nome del presidente Xi Jinping. Strano.
Se non ho capito male, si discute delle democrazie liberali come di un sistema che non ha alternative eppure soffre di una malattia, definita “la rabbia degli sfigati”, che richiede una cura.
La terapia è anticipata nella quarta di copertina: “Per uscirne è necessario rivitalizzare i canali di partecipazione attiva alla lotta politica organizzata”.
Ribaltando il celebre assioma di Italo Calvino (“Viviamo in un paese dove si verificano sempre le cause e non gli effetti”), il discorso pubblico occidentale si accapiglia sugli effetti rimuovendo le cause.
Come un medico che tratta i sintomi disinteressandosi delle cause, si discute di cure palliative anziché dire ai malati, gli sfigati di cui sopra, la verità: la malattia del capitalismo è irreversibile e con essa svaniscono tutti i punti di riferimento dell'identità personale e collettiva di vasti gruppi sociali.
Gli imprenditori sono stati sostituiti da oligarchi che si arricchiscono anche quando sbagliano la scommessa fatta con il denaro degli altri
L’Occidente post-capitalista
Il capitalismo come definito dal pensiero classico, competizione economica tra individui in un sistema liberista per l'economia e democratico per la politica, sta scomparendo.
Il paese guida dell'economia mondiale è governato dal Partito comunista cinese e ha un presidente eletto a vita: paradossalmente c'era più democrazia nell'Italia fascista che rovesciò Mussolini con il voto notturno di un organismo da lui stesso creato. Non solo.
L'Occidente si sta trasformando in un sistema corporativo, statalista e dirigista, con venature autoritarie, ricalcando il modello che il Partito comunista cinese ha portato a un tale livello di efficienza da costringere il resto del mondo a imitarlo, e rimuovendo silenziosamente dal discorso pubblico l'equazione “meno democrazia uguale meno efficienza”.
Ci sono i fatti.
In che cosa assomiglia a un libero mercato l'Europa, in cui una decisione politica da Gosplan sovietico ha vietato la fabbricazione di motori a combustione interna a partire dal 2035?
Quale tipo di capitalismo rappresenta Mario Draghi che va in giro per il mondo a cercare il gas che il governo ha deciso di non comprare più dalla Russia?
E che cosa hanno dell'imprenditore sombartiano, o schumpeteriano, le centinaia di speculatori che prendono il gas comprato dal governo e lo rivendono a prezzo fantasiosamente maggiorato ai consumatori finali?
E del resto: le decisioni dell'amministrazione americana su quante e quali armi (e fabbricate da chi) comprare a debito la chiamiamo società di mercato?
C'è qualcuno disposto a sostenere che Lockheed Martin, Raytheon Technologies, Northrop Grumman, Boeing e General Dynamics competano tra loro? E chi è il signor Lockheed Martin?
Soprattutto è scomparso dalla scena il pilastro fondamentale della fede in Adam Smith: il rischio. Chi rischia più qualcosa in proprio, se non la nuova e vaga classe sociale dei risparmiatori?
E che cosa avrebbe detto il pensatore scozzese di un sistema in cui sedicenti condottieri rischiano il denaro degli altri senza mai pagare dazio per i propri errori?
Gli imprenditori sono stati sostituiti da oligarchi che si arricchiscono anche quando sbagliano la scommessa fatta con il denaro degli altri.
Possiamo definire imprenditori i manager dei grandi fondi d'investimento americani? Possiamo chiamare competizione quella tra grandi colossi multinazionali che hanno gli stessi azionisti?
In quale quadro concettuale inscrivere la nota vicenda della Gkn di Campi Bisenzio, con gli operai che vedono chiudere la loro fabbrica senza sapere chi lo ha deciso e perché?
Ed è un mercato capitalistico quello in cui quando chiude una fabbrica il governo non sa nemmeno a chi telefonare per chiedere spiegazioni?
Solo questioni condominiali
Se guardiamo da questo punto di vista i due fenomeni politici analizzati da Invernizzi-Accetti, populismo e tecnocrazia, troviamo un elemento forte che li accomuna.
Il populista e il tecnocrate possono andare serenamente d'accordo e stare nella medesima coalizione di governo (Matteo Salvini ha sostenuto il governo di Draghi) proprio perché il governo del capitalismo è uscito dall'agenda politica, ormai dominata da questioni condominiali, cioè come meglio predisporsi alla competizione internazionale, in cui l'unica classe sociale evocata è la classe unica, quella degli italiani.
Dentro la nazione non c'è più conflitto, perciò il capo dell'opposizione va a giocare a pallone con i caporioni che accusa di voler riportare il fascismo in Italia: il loro è un gioco di ruolo di conflitti simulati che terminano ogni giorno con la chiusura degli uffici.
Lo scenario, accettato con entusiasmo da politici, imprenditori, sindacalisti e politologi, prevede che la parola sacra, "competizione", venga coniugata in chiave internazionale e quindi non metta più uno contro l'altro gli italiani ma li unisca nella lotta immaginaria contro il nemico esterno: l'immigrato, l'industria cinese, Putin, la Francia arrogante.
Il riarmismo di Draghi o di Meloni o di von der Leyen è concettualmente sovrapponibile all'America First di Donald Trump proprio in quanto tutto un mondo fatto di competizione tra nazioni.
Si dimentica che il capitalismo è nativamente internazionale. Abbatte le barriere politiche e doganali, unifica nell’Ottocento l'Italia e la Germania perché vuole gli spazi infiniti di cui le due grandi nazioni sono per l'epoca un'approssimazione sufficiente, sollecita la classe operaia a organizzarsi nativamente in una cosa che si chiama Internazionale socialista prima ancora che nei partiti socialisti nazionali.
Oggi invece l'Occidente è nazionalista e corporativo come i regimi comunisti. Il lavoratore, che prima era chiamato a “collaborare” con il padrone in nome di un interesse generale che accomunava tutte le classi, deve oggi obbedire in nome dell'interesse nazionale contro le potenze nemiche.
Che senso ha chiedersi che fine abbia fatto la lotta di classe in un mondo in cui il proletario italiano è stato convinto (dai suoi stessi rappresentanti politici!) che deve allearsi con il padrone italiano contro lo schiavo cinese?
Stiamo andando verso la guerra come prosecuzione della concorrenza con altri mezzi, come dimostrano le curve della spesa militare e di quella sociale.
Il precedente
Si obietterà giustamente che questo è già accaduto nel secolo scorso, quando la militarizzazione della competizione economica ha avuto come protagonista prima la Germania di Hitler e poi, sotto forma di democrazia esportata, gli Stati Uniti.
Karl Polanyi già nel 1944 (La grande trasformazione) ha descritto la catastrofe bellica come esito ultimo della rabbia degli sfigati: secondo il giornalista ungherese il fascismo e il nazismo sono una risposta della società profonda a un’organizzazione sociale, il mercato capitalistico, in cui non le persone ma la società stessa perde il senso della propria identità.
Il mercato è un'istituzione artificiale in contraddizione con la natura cooperativa dell'uomo (l'homo oeconomicus secondo lui non esiste) che le società occidentali subiscono come violenza.
Attenzione: non è che nello schiavismo e nel feudalesimo, così come nel socialismo reale, non ci fossero dominazione e sfruttamento, però erano inquadrate in rapporti sociali non migliori ma più comprensibili della concorrenza.
La storia del capitalismo è infatti segnata dai tentativi di sottrarsi alla fair competition non solo da parte dei losers ma anche e soprattutto da parte dei winners che la considerano una limitazione della propria libertà e mettono quindi in campo ogni arma, dai trust ai monopoli passando per la corruzione e la truffa, per sottrarsi alle regole: nient'altro che una minoranza di prepotenti che, consacrandosi all'imperativo etico del profitto, lo perseguono todo modo a danno di una maggioranza di sfigati (in inglese losers, perdenti) e si dichiarano perciò migliori.
Il nazismo esprime la reazione della maggioranza, secondo Polanyi, e perciò diventa l'organizzazione statale della prima potenza industriale dell'epoca: mette da parte il libero mercato e struttura un’economia di guerra schiettamente corporativa, oltreché autoritaria.
La stessa cosa che accade in Italia dove negli anni Trenta attorno all'Iri, cioè al corporativismo realizzato, si compattano sedicenti dinastie industriali, con gli Agnelli, i Pirelli, gli Orlando che sono niente più che gli oligarchi dell'epoca: essi non rischiano niente perché non competono con nessuno, sono i direttori di produzione del regime. Che insieme al nazismo si prepara alla guerra, l'unico sbocco possibile.
La crisi degli anni Trenta-Quaranta viene superata in Occidente con una potente riforma del capitalismo che ne ridefinisce gli equilibri. Regole più stringenti per le imprese, welfare state, redistribuzione del reddito, più potere ai sindacati, in Germania addirittura la Mitbestimmung, la cogestione con i lavoratori nei cda delle grandi aziende.
I liberisti più scolastici gridano allo snaturamento del capitalismo, ma alla fine ha prevale l'idea che un mercato meno libero, ma anche meno selvaggio, dia stabilità alle società occidentali ed eviti la formazione di una troppo ampia e quindi pericolosa classe sociale dei perdenti: ciascuno sa qual è il suo ruolo e in quale modulo di gioco, e anche il più sfigato ha un’idea di futuro, quella che oggi non ha più neanche la classe dirigente.
Solo che, mentre economisti e politologi si interrogano su vaghe terze vie per il governo del capitalismo (tra modello liberale e modello socialista), la storia gli serve la fine del capitalismo e loro non la vedono arrivare.
La profezia di Bill Gates
La nostra incapacità di capire che cosa ci sta accadendo fa lievitare un disperato idealismo secondo cui l'ottimismo della volontà di politici e intellettuali porterà i problemi a soluzione.
Ma perché sono finiti lo schiavismo e il sistema feudale e non può finire il capitalismo? Ma veramente crediamo che l'evoluzione umana abbia raggiunto la perfezione professando una religione chiamata razionalità economica?
I fatti lo smentiscono.
Il disastro è accaduto per una ragione storica che va ricondotta alla tecnologia e che non c'è modo di contrastare.
La scoperta del fuoco e dell'agricoltura prima, e poi la macchina a vapore, la chimica, l'acciaio, le onde hertziane e il silicio cambiano tutto determinando un esito chiamato globalizzazione. Che è fino a un certo punto il terreno ideale del capitalismo: il modello astratto di Adam Smith prevede la competizione senza attriti come apoteosi del mercato e come punto di massima soddisfazione dei bisogni.
L'impero britannico, il colonialismo, le reti ferroviarie, l'aviazione civile sono fattori che diffondono benessere per tutti e riducono la povertà dei poveri (un po' meno quella dei più poveri). C'è una globalizzazione, sì, ma limitata.
Negli anni Ottanta avviene la rottura. Bill Gates annuncia che grazie alla rivoluzione elettronica e alla circolazione istantanea delle informazioni in tutto il globo si realizzerà il frictionless capitalism. La profezia si avvera. E insieme crolla il costo dei trasporti.
Il viaggio dell'acciaio cinese fino all'Europa incide sul costo del 10 per cento, questo significa che all'industria del Pacifico bastano costi di produzione inferiori del 10 per cento per mettere fuori mercato la siderurgia europea, e infatti l’Ilva di Taranto è clinicamente morta da anni, tutto il resto è commedia all'italiana.
Quindi, prima di chiedersi per chi vota il cassintegrato Ilva e come restituirgli dignità e identità, magari con dosi di gratificante “partecipazione”, chiediamoci a che cosa dovrebbe partecipare visto che non sa chi ha in mano il futuro di Taranto, non sa chi è il suo padrone, non sa qual è il suo mercato, non sa qual è il suo mestiere, non sa con chi dovrebbe competere, in che modo e per quale ragione.
Le protezioni geografiche, normative, doganali, sociali, viste dalla mistica liberista come ostacoli al libero dispiegarsi della competizione, in realtà consentivano la sopravvivenza della maggior parte delle imprese, proteggendole almeno in parte da una sfida in cui the winner takes all.
Se non ci sono più ostacoli geografici o di altro tipo alla competizione alla fine ci sarà un unico fabbricante di magliette (o di telefonini, o di automobili, o di servizi online) che ammazzerà tutti gli altri. Infatti è già successo: avete mai sentito parlare di competizione serrata tra i due o tre maggiori colossi tessili cinesi? E l'unico argine possibile al dominio dei monopoli sarà il potere statale.
Siamo cresciuti in un mondo in cui l'operaio Fiat vedeva arrivare l'avvocato Agnelli in ufficio (ogni tanto) e sapeva benissimo con chi era in conflitto e chi erano i suoi compagni nel conflitto con il padrone, quel padrone che tutti (giornali, partiti, sindacati) gli indicavano come tale.
Oggi un operaio di Mirafiori non sa da dove viene la minaccia, sa solo che persone che si riuniscono a Parigi decidono ogni giorno chi, tra i suoi colleghi polacchi, serbi, francesi o spagnoli del gruppo Stellantis, diventerà il nemico che lo spingerà alla disoccupazione.
Di fatto queste decisioni vengono prese da comitati di manager che a loro volta non sanno chi è il loro padrone, quali sono i loro obiettivi, quali sono i loro avversari, se non alcuni colleghi che passano la vita a contendersi stipendi (non dividendi) da milioni di euro.
Dire la verità
Azzardo una sintesi brutale. Quando intellettuali e analisti spiegano allo schiavo moderno che il suo futuro dipende dalla contesa - verosimilmente a base di lancio di missili - per il controllo delle terre rare, è arduo attendersi una reazione diversa dalla disperazione.
I cantori della democrazia liberale si schifano dei poveri cristi che votano per dei pagliacci analfabeti, ma in fin dei conti appare più sensato votare per il mago Otelma che per gente che ti promette che i tuoi figli avranno da mangiare solo se riusciremo (noi chi?) ad ammazzare tutti i cinesi prima che ci sottomettano con le terre rare.
L'unico modo di placare la rabbia degli sfigati è dunque la verità. Inutile pensare di far sentire importanti gli sfigati chiamandoli alla scelta di quartiere tra piantare alberi e costruire una tangenziale. Meglio ammettere che il libero mercato non c'è più e che viviamo in una società di tipo nuovo, un sistema neo-corporativo con tendenze autoritarie e caratteri schiavisti.
Stabilito questo si fissino le nuove regole del gioco.
Fino a quando si consentirà a colossi multinazionali di assumere personale a 4 euro l’ora con contratti di 5 giorni e di rispondere alle proteste degli sfigati con “è il mercato, bellezza”, la rabbia crescerà.
Fino a quando in Italia mancheranno 7 milioni di posti di lavoro, e chi governa annuncerà trionfante “questo mese ne mancano solo 6,9 milioni”, la rabbia crescerà.
Fino a quando, alle richieste di giustizia sociale o di regole minime, magari copiate dai diritti degli schiavi nell'antica Roma, si opporrà il mantra neo-liberista sulle spietate regole della competizione globale, crescerà la rabbia di chi annaspa in un sistema indefinibile e sconosciuto, che sembra schiavistico ma è peggiore di quello dell'antica Grecia o dell'Impero romano che avevano regole note.
Il popolo si innervosisce e oggi vota Meloni e Trump. Domani potrebbe fare di peggio, fino a che qualcuno deciderà che è meglio non farlo votare più.
Sul tema ti segnalo questo mio remoto contributo del 2018: https://limmateriale.net/2018/01/28/low-cost-causa-dimenticata-del-populismo/
Analisi perfetta, a mio avviso secondo i dettami più classici del quarto libro del capitale, rimarchereo solo una cosa che la struttura del nostro Occidente è la finanza capitalista mentre la sovrastruttura è la politica che di volta in volta rappresenta gli umori del popolo e dura sino a che non mette in discussione le regole di accumulazione sottese. Tanto per ridere: la tassazione dei sovraprofitti... l'avessero fatta ci saremmo liberati di Salvini, Meloni e tutti gli altri colti pensatori in un sol colpo!