La nostra Europa di Stefan Zweig
Il grande scrittore austriaco, simbolo della cultura e delle speranze europee, per molti anni non riuscì a prendere posizione contro la minaccia nazista. E noi?
Quanto è lecito, non solo per lo scrittore affermato ma anche per il cittadino comune, rimanere inermi, passivi dinanzi alle derive del dibattito pubblico, dei regimi liberali e più in generale della politica internazionale?
Beda Romano
Buon lunedì a tutte e tutti,
qualche anno fa ho scoperto uno scrittore di cui non avevo mai sentito parlare prima: Stefan Zweig. Eppure, ho appreso, ai suoi tempi era stato famosissimo, uno dei quei personaggi che in vita e opere riesce a incarnare lo spirito del suo tempo, uno che vendeva - credo già allora - milioni di copie. E poi niente, poi era sparito. La sua memoria si era quasi persa, almeno fino alla crisi dell’eurozona nel 2011-2012
Ogni volta che l’Europa si avvicina a un pericolo esistenziale, torniamo a leggere Stefan Zweig, lui che ha visto crollare le illusioni e i sogni con due guerre mondiali, che si è esiliato in Brasile e suicidato nel 1942: il “mondo di ieri” che aveva incarnato stava crollando, e lui sentiva forse il dovere di estinguersi con esso.
Oggi sull’Europa incombono nuove minacce, più simili a quelle dei tempi di Zweig che a quelle della crisi dell’euro. E noi dobbiamo decidere se osservare passivi, vivere di nostalgie, reagire, resistere.
La casa editrice Ibis riporta in libreria un breve saggio di Zweig che si chiama Il cuore dell’Europa con una straordinaria prefazione di Beda Romano. Beda è il corrispondente del Sole 24 Ore da Bruxelles, anche lui - un po’ come Zweig - ha sovrapposto vita, biografia e carriera alle evoluzioni dell’Europa che racconta sul suo giornale.
Per gentile concessione dell’editore e dell’autore, condividiamo il saggio di Beda Romano con la comunità di Appunti, sono certo che lo troverete interessante. E inquietante.
Per leggere Zweig, comprate il libro.
Questo pezzo è un ideale seguito per quello di Paola Giacomoni che nella giornata di domenica ha animato un vivace dibattito qua su Appunti.
Buona settimana,
Stefano Feltri
PS: venerdì 7 marzo alle 16 parteciperò a una conversazione digitale con Beda Romano e l’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci organizzata dal progetto Stroncature, trovate le info qui
Stefan Zweig e il cuore dell’Europa
di Beda Romano
Sono passati ottant’anni o poco più da quando Stefan Zweig si tolse la vita insieme alla moglie Lotte nella loro casa di Petrópolis, in Brasile. Era il 22 febbraio del 1942. Sul comodino accanto al letto fu ritrovata una boccetta di acido barbiturico, e una lettera in tedesco in cui lo scrittore spiegava il drammatico addio alla vita. Declaração c’era scritto in portoghese.
Dinanzi alle vittorie del Nazismo sui campi di battaglia in Europa il suicidio appariva agli Zweig il massimo atto di resistenza. Lo scrittore austriaco aveva appena 61 anni; e rimane tuttora una delle più vivide incarnazioni dell’ideale europeo.
Qualche anno prima nel 1939, in una Parigi prossima ormai all’occupazione tedesca, Jules Romains ne celebrava la personalità:
“Stefan Zweig appartiene a una specie che forse non è sul punto di sparire – almeno lo spero – ma che è seriamente minacciata dalle condizioni attuali, e che riesce a perpetuarsi solo attraverso innumerevoli difficoltà: quella dei grandi europei”.
Lo scrittore austriaco, o dovremmo dire austro-ungarico, ha lasciato biografie, novelle, romanzi e memorie. Il testo che segue è in realtà più che altro un reportage giornalistico dedicato al ruolo e al funzionamento della Croce Rossa durante la Grande Guerra.
Fu pubblicato prima ancora della fine del conflitto, nei primi mesi del 1918. Il titolo - Il cuore dell’Europa - ha una doppia valenza. La parola cuore si riferisce tanto al centro geografico del continente, la sede dell’istituzione dopotutto è a Ginevra, quanto naturalmente ai sentimenti di solidarietà e di amore.
Da oltre tre anni, la Prima guerra mondiale stava scuotendo l’Europa come non mai. Il conflitto aveva la particolarità di utilizzare nuove armi sanguinosissime, applicando nel contempo le vecchie regole dei combattimenti corpo a corpo di epoca napoleonica. Le vittime si sono contate a milioni.
Il testo ha chiaramente riflessi sull’attualità. A trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, gli equilibri mondiali sono terribilmente instabili. La pax americana si è rivelata una illusione colpevole, come d’altronde avevano avvertito fin dal 1997 numerosi membri dell’establishment americano.
In una lettera inviata all’allora presidente Bill Clinton, cinquanta diplomatici, ufficiali dell’esercito, professori universitari avevano denunciato l’allargamento della Nato, definendola già allora “un errore politico di storiche proporzioni”, oltre che un inutile affronto all’antico nemico russo.
Nei fatti, Washington si è rivelata incapace di gestire la vittoria emersa dalla fine della Guerra fredda; e oggi oscilla nervosamente tra il desiderio della pace e la tentazione della guerra.
Un tempo la Croce Rossa era l’unica o quasi organizzazione non governativa capace di curare i feriti, rimpatriare i soldati, proteggere donne e bambini. Oggi le ONG, come vengono chiamate, si sono moltiplicate, e il loro compito potrebbe rivelarsi in futuro ancora più cruciale. Sono già in prima linea in Sudan, a Gaza o nello Yemen, dove gli spostamenti di popolazione sono ingenti.
Ma l’attualità del testo riguarda soprattutto il suo autore. Di Stefan Zweig abbiamo una immagine influenzata dall’ultimo drammatico gesto compiuto a Petrópolis. Il suicidio ha modellato per sempre la figura dello scrittore.
Nel togliersi la vita e nell’attribuirne il gesto agli orrori della guerra e alla fine del “mondo di ieri”, come si intitola la sua autobiografia, lo scrittore ci appare come la più pura incarnazione del pacifista cosmopolita, il più degno erede di Immanuel Kant.
Al tempo stesso, e a ben guardare, l’intellettuale viennese non fu privo di dubbi, di angosce e anche di esitazioni sia durante la Grande guerra che successivamente negli anni Trenta, dinanzi all’avvento del Nazismo. In questo senso, Das Hertz Europas è l’occasione per tornare sulla parabola dell’intellettuale austriaco e trarne a cento anni di distanza nuove e inattese lezioni.
Una vita europea
Stefan Zweig nasce nel 1881 in una famiglia borghese della ricca Vienna di fine Ottocento.
Il padre era originario della Boemia, la madre era ebrea di origine tedesca. Ai tempi la capitale dell’impero aveva due milioni di abitanti, e la comunità ebraica rappresentava più o meno il due per cento della popolazione.
Dal 1849 gli ebrei austriaci avevano ottenuto la piena emancipazione. Godevano ufficialmente degli stessi diritti e degli stessi doveri degli altri cittadini dell’impero. La famiglia è borghese, liberale e soprattutto benestante. Non conosce i miserabili shtetl dell’Europa orientale, bensì i maestosi palazzi dello Shottenring. Gli Zweig erano pienamente integrati.
Lo stesso Stefan ricevette una educazione prettamente laica. Non pratica il giudaismo, non frequenta la sinagoga, non parla l’ebraico, né tanto meno lo yiddish, e neppure mangia kosher.
Insomma, il futuro scrittore si considera viennese, membro di una comunità ebraica che Francesco Giuseppe definiva con un sorriso il suo Staatsvolk, il suo popolo di Stato, perché di tutte le comunità presenti nell’impero era quella che meglio si era integrata.
Mentre a qualche centinaio di chilometri a Est, nei paesi baltici, in Polonia e in Romania, prevalevano i ghetti e i pogrom, a Vienna gli ebrei erano la punta di diamante di una borghesia ricca, influente e rispettata. A cavallo del secolo, secondo i dati di Steven Beller autore di Vienna and the Jews 1867-1938, metà dei medici e degli avvocati, e due terzi dei giornalisti erano di origine ebraica.
Eppure, i sentimenti erano contrastanti. C’era nei loro confronti un inevitabile rispetto, ma forse anche un altrettanto inevitabile sospetto. Lo stesso Friedrich Nietzsche in un saggio pubblicato nel 1886 e intitolato Al di là del bene e del male ammetteva: “Gli ebrei se lo volessero (…) potrebbero avere fin da ora la preponderanza e letteralmente il controllo sull’Europa intera”.
Nei suoi scritti, Stefan Zweig osserva che la sua origine ebraica provocava di tanto in tanto “saltuarie prese in giro”, nulla di molto grave. Mai nel suo ambiente avrebbe sentito l’espressione Saujude, sporco ebreo in dialetto viennese, che veniva invece utilizzata nei quartieri più periferici della capitale.
Vi erano a dire il vero alcuni circoli judenrein, puri da ebrei, ma erano per lo più ignorati. All’università dove si iscrisse nel 1900, il futuro scrittore godeva di tutti i diritti salvo quello, curiosamente, di battersi in duello, un privilegio concesso solo agli studenti cattolici.
Malgrado il sostegno di Francesco Giuseppe, nei fatti agli ebrei venivano precluse le carriere pubbliche. Potevano frequentare l’università, diplomarsi come un qualsiasi gentile, intraprendere con successo una professione privata, ma erano esclusi dalle posizioni apicali dell’amministrazione statale. Un ebreo poteva diventare professore associato (ausserordentlicher Professor), ma non certo professore ordinario (ordentlicher Professor).
A leggere i suoi scritti, Stefan Zweig preferisce tralasciare questi aspetti. È talmente integrato nella borghesia viennese, che ritiene l’antisemitismo un dettaglio minore in un quadro che si vuole idilliaco, forse un inevitabile prezzo da pagare per la straordinaria accoglienza che Vienna ha riservato alla sua stirpe.
Peraltro, il nostro protagonista non ha ambizioni di carriera. Può vivere di rendita grazie al patrimonio famigliare. Preferisce leggere, ascoltare musica, visitare musei, assistere a conferenze. Insomma, approfittare pienamente della belle époque. Parla tedesco e inglese, italiano e francese.
Nel 1904 termina gli studi, e diventa Herr Doktor in filosofia, venendo incontro al desiderio dei suoi genitori. Iniziano i Wanderjahre, gli anni del vagabondaggio. Percorre in lungo e in largo l’Europa: si reca in Belgio, in Francia, in Italia, in Spagna, in Inghilterra, e anche in Algeria.
Successivamente parte per l’Asia, visita Ceylan, Chemnai, Agra, Calcutta, Varanasi, Rangoon. Alla vigilia della Prima guerra mondiale è sulla costa orientale degli Stati Uniti, si ferma a Cuba, a Portorico e in Giamaica. Risale in Canada, per poi ridiscendere il continente americano e visitare il canale di Panama, allora in costruzione.
“Il mondo intero è la mia patria”, spiega Stefan Zweig che ai tempi aveva già scritto qualche novella e numerose pièces di teatro.
La sua visione del mondo era impregnata dello spirito austro-ungarico, vale a dire quello di un impero che permetteva a una miriade di popoli, lingue e religioni di convivere in armonia.
Dal nazionalismo al pacifismo
Lo scoppio della Grande Guerra lo colse di sorpresa? Forse, in parte. Certo è che a tutta prima, ed è l’aspetto più interessante, lo scrittore rivela un inatteso patriottismo, austriaco ma anche tedesco.
Sulla Neue Freie Presse scrive articoli dal tono nazionalista, sottolineando che tra l’Austria e la Germania c’è in realtà una fratellanza d’armi e che la lingua in fondo è l’unica patria. Lo scrittore è innamorato della ricca cultura tedesca, appassionato di Goethe e Schiller.
Annota nel suo diario alla data del 5 agosto del 1914: “La mia angoscia per la Germania è indicibile. L’Austria, i nostri beni, il pericolo che corro contano ben poco a confronto”. Dinanzi alle prime vittorie della Reichswehr, scrive: “Dio protegge la Germania!”.
Segue con incredibile passione l’avanzata a Ovest delle truppe tedesche. Ha parole molto dure per la Francia, il Belgio e l’Inghilterra, le sue patrie di adozione. È incredibilmente partigiano: “La Francia combatte per vanità, l’Inghilterra per il suo portafoglio”. Nel frattempo, ormai autore prolifico e maturo, ha interrotto i legami con i suoi amici francesi o belgi.
Addirittura, Stefan Zweig vorrebbe combattere al fronte, ma la sua costituzione fisica non glielo consente. Viene quindi assegnato agli archivi di guerra, e inviato nella Stiftskaserne di Vienna. Sognava l’uniforme austriaca, ma quando finalmente la indossa ammette: “Ci si sente un po’ ridicoli con una sciabola che non viene adoperata”.
Lo scrittore è chiamato ad occuparsi di propaganda, e a scrivere per il giornale dell’esercito, Das Donauland, il paese del Danubio. Il colmo per un futuro pacifista. Settimana dopo settimana, le mansioni ripetute non sono solo fastidiosamente degradanti.
Le notizie dal fronte, gli orrori delle trincee, la contabilità tragica dei morti lo inducono a una profonda riflessione: “Non sono che conflitto permanente, sempre nemico di me stesso”, scrive incerto sul modo in cui affrontare e soprattutto interpretare la guerra e le sue tragedie.
Gradualmente il nazionalismo lascia spazio al pacifismo. Ottiene da parte dell’esercito la possibilità di trasferirsi in Svizzera dove era stato invitato a tenere alcune conferenze. Zurigo, Ginevra, Lucerna, Basilea sono i centri cosmopoliti di un paese neutrale dove nel frattempo hanno trovato rifugio altri intellettuali: l’irlandese James Joyce, gli ungheresi Andreas Latzko e Rosika Schwimmer, il francese Ivan Goll o il lettone-tedesco Bruno Götz.
Nel suo diario, Stefan Zweig si lamenta di conversazioni troppo lunghe e verbose, ma ammette che lo spirito dominante gli ricorda la Vienna dell’anteguerra, dinamica e liberale. A Zurigo ama risiedere allo Schwerdt, l’albergo che a suo tempo accolse anche Casanova. A Ginevra visiterà la sede della Croce Rossa, nell’ex Musée Rath della Place Neuve, e ne trarrà l’articolo ripubblicato in questo volume, dedicato al “corpo crocefisso dell’Europa”.
L’intellettuale viennese ha abbandonato le vesti patriottiche di qualche anno prima, ed è diventato il portavoce più noto del pacifismo di inizio secolo. La conversione è notevole. Nei primi mesi del 1918 accusa la Germania “di intestardirsi nel continuare le ostilità”.
In precedenza, aveva pubblicato una pièce di teatro intitolata Geremia, nella quale indirettamente accusa le grandi potenze europee di eccessiva ostinazione nelle trincee di Verdun o della Marmolada.
In un articolo pubblicato dalla rivista Friedenswarte dal titolo Omaggio al disfattismo, condanna il patriottismo, difende la diserzione dello spirito, l’unica posizione che uno spirito umanista possa assumere in risposta a un conflitto. Viene accusato di tradimento della patria, di egoismo e di viltà, mentre Romain Rolland condanna lo scritto, bollandolo di “pseudo-buddismo”.
La fine della Grande Guerra lascia Stefan Zweig orfano della Vienna multiculturale di cui era stato fino a quel momento l’orgoglioso cittadino. Il Trattato di Versailles sancisce la disintegrazione dell’impero, il Kaiser Carlo I è costretto all’esilio, e mentre viene proclamata la repubblica il paese rimpicciolisce drammaticamente e soprattutto perde l’accesso al mare.
Lo scrittore considera l’accordo di pace vergognoso. Mentre il comunismo prende il potere a Mosca, l’uomo avverte che i nuovi equilibri europei non potranno stabilmente sopravvivere e preannuncia “futuri sconvolgimenti nei quali l’odio delle classi sociali occuperà il mondo con la sua massa gigantesca”.
Tuttavia, la sua perspicacia in questo frangente sembra passeggera, tanto che alla fine degli anni Venti e poi ancora negli anni Trenta egli tarderà a capire il gravissimo significato dell’avvento del Nazismo.
Di fronte al nazismo
Stefan Zweig è reticente a denunciare il pericolo rappresentato da Adolf Hitler, tanto che Joseph Roth gli scriverà una lettera da Parigi il 7 novembre del 1933:
“Tutto il male viene dal vostro atteggiamento esitante. Tutto il male. Tutte le incomprensioni (…) Rischiate di perdere tutto il credito morale del mondo e di non guadagnare alcunché dal Terzo Reich”.
Il nostro protagonista è consapevole in cuor suo del carattere dispotico e autoritario del nuovo regime tedesco, anche perché l’ha toccato con mano. Tra i libri bruciati dai nazisti sulla Opernplatz di Berlino il 10 maggio del 1933 c’erano anche alcuni suoi volumi.
In quella occasione notò: “È una pubblicità di cui avrei fatto a meno”. Al tempo stesso, esita nel dichiarare pubblicamente la sua posizione, nell’esprimere le sue critiche, tanto che numerosi conoscenti gli rimprovereranno un silenzio troppo ambiguo.
“Da un punto di vista morale, state rinnegando trent’anni del vostro passato”, aggiunge Joseph Roth nella sua missiva. L’anno precedente, nel 1932, lo scrittore si era recato in Italia dove aveva apprezzato alcuni aspetti del fascismo e di Benito Mussolini, malgrado le prime critiche dei suoi amici italiani.
L’uomo è reticente, ma non cieco. Dal 1934 ha abbandonato l’Austria e si è trasferito in Inghilterra, dove è diventato cittadino britannico. Come è possibile quindi che per anni, addirittura fino al 1937, si rifiuti di prendere posizione chiara contro il Nazismo? Il fenomeno è curioso.
Ha a che fare probabilmente con il suo attaccamento a una visione idealizzata della Germania, della sua cultura, e di un popolo che probabilmente ritiene superiore al resto del mondo. C’è di più.
Forse, in Stefan Zweig il pacifismo a oltranza si è ormai tradotto in un disgusto per la politica che lo acceca, o meglio lo paralizza. È talmente au-dessus de la mêlée, al di sopra della mischia per riprendere il titolo di un testo scritto da Romain Rolland nel 1914, da non volere o da non sapere trattare direttamente del pericolo nazista. Quasi si giustifica in una lettera a un amico, scrivendo che “gli intellettuali sono impotenti nella vita reale e politica”.
Mentre Thomas Mann denuncia il nazismo nei suoi scritti e Marc Bloch torna sugli stessi campi di battaglia in cui aveva combattuto meno di venti anni prima, Stefan Zweig si trincera in una torre d’avorio, come Erasmo da Rotterdam o Jean de Montaigne.
Finalmente intorno al 1937 prende realmente coscienza della gravità del momento, tanto da lasciare l’Europa e rifugiarsi in Brasile, dove concluderà i suoi giorni in preda a un pessimismo tanto profondo quanto buia era la sua precedente apparente cecità. Verrà ritrovato allungato sul letto, la barba fatta, vestito di tutto punto, una cravatta elegantemente annodata al collo di una camicia a maniche corte.
Questa prefazione a Das Hertz Europas non è il luogo in cui riflettere compiutamente sui motivi dei dubbi e delle incertezze che hanno attanagliato Stefan Zweig, prima negli anni Dieci e poi negli anni Trenta.
Hanno probabilmente a che fare con l’invincibile amore per la cultura tedesca, un ambiguo rapporto con l’ebraismo e forse anche un colpevole distacco dalla politica. In questo senso, l’esperienza dello scrittore austriaco è una lezione da tenere a mente, mentre affrontiamo a cento anni di distanza la possibile fine di una nuova belle époque.
Quanto siamo prigionieri delle nostre convinzioni e dei nostri paradigmi, delle nostre speranze e delle nostre illusioni, anche quando il mondo appare sul punto di ribaltarsi?
Quanto è lecito, non solo per lo scrittore affermato ma anche per il cittadino comune, rimanere inermi, passivi dinanzi alle derive del dibattito pubblico, dei regimi liberali e più in generale della politica internazionale?
Mentre il continente europeo è in preda a nuovi preoccupanti scossoni e le democrazie nazionali appaiono drammaticamente in bilico, Das Hertz Europas è un monito rivolto a tutti noi.
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Anch'io sono da anni un lettore di Zweig di cui ho letto quasi tutti i romanzi, adesso devo iniziare coi suoi saggi, comprese le stupende biografie. Lo trovo intelligente, stimolante e contradittorio.
Ci sarebbero tante considerazioni da fare sugli eventuali parallelismi coi nostri tempi. Ne prendo due a caso.
Zweig faceva parte di una élite (economica e culturale) lontana dal popolo. La stratificazione delle classi era molto superiore rispetto ai nostri tempi, perché le classi meno educate e più povere non avevano accesso al sapere.
E paradossalmente oggi, quando invece c'è molto più accesso all'informazione (anche quella di qualità) e al pensiero, e quindi tutte le classi dovrebbero poter avere il necessario per farsi un'opinione, prevale l'informazione facile, veloce e la manipolazione.
Ne risulta che gli intellettuali sono quindi ugualmente lontani dal "popolo".
L'altro fenomeno che mi sembra interessante è l'assuefazione alla barbarie e l'accettazione degli eccessi, purché il leader abbia carta bianca per risolvere i nostri problemi ("alcuni aspetti di Mussolini non dispiacevano a Zweig", dice l'articolo), esistente allora come oggi. [Si veda il caso "Meloni vs Magistratura" in cui lei invoca il diritto alla libertà di manovra "per poter migliorare la nazione"].
La classe media sempre più impoverita, di fronte a una sinistra che sembra occuparsi più di diritti civili (importantissimi ma vitali solo per una minoranza) che di trovare soluzioni per rendere compatibile l'economia di mercato con la costruzione di un futuro, di sicuro non trova nelle destre estreme quelle soluzioni di politica economica che potrebbero risolvere i loro problemi.
Ma trova i digestivi anti-acidità: lotta alla delinquenza, ai nostri "nemici" (tutti, chiunque essi siano, interni o esterni) e lotta alle ideologie "woke" che "vi distraggono" dalle cose importanti.
E ci resta lo sconforto di non saper cosa fare, nel nostro piccolo, per resistere.
Escludendo, per ora, che la soluzione sia, anche per noi, la boccettina e il bigliettino con scritto sopra "Declaraçao".
Zweig per me è un faro. Ho letto buona parte dei suoi libri.
Beda Romano ci ricorda, che nonostante la sua grandezza, non riusci a prendere posizione contro il nazisimo.
Sono perfettamente d'accordo sul fatto che deve essere l'Europa intera e non una singola nazione a ribellarsi alle destre estreme di Trump e Musk e alle nostre destre estreme in Europa
Ma mentre la Germania sembra aver imparato la lezione (vedi le grandi manifestazione anti-destra nella Germania di questi gg) Non vedo alcun segno provenire da altri Paesi europei, a iniziare dall'Italia, condotta da una che pratica l'amicizia con Musk.
La sinistre e il pd mi sembrano ben avviate contro alcuni gravi problemi interni; ma sono afasiche rispetto alle gravi minacce di cui sopra.
Oggi non basta una buona politica interna, ma è urgente prendere posizione, in piazza, contro il nazismo che si sta GIA affermando , a partire dagli USA per giungere in Europa.
Se non ora, quando ? (da Primo Levi)