Il senso delle sagre
L'estate è il tempo delle processioni, delle feste paesane, dei patroni. C'è qualcosa in quelle manifestazioni di condivisione che crea comunità. C'è il sentirsi parte di qualcosa
C’è qualcosa che prescinde l’evento in sé e parla di noi e che ci spinge in piazza. Me ne sono reso conto in maniera lampante una di queste sere, incontrando tante persone che non vedevo da tempo, per via del mio lavoro, della mia vita e della loro, di vita, e guardando me e i miei amici immersi in quella folla
Fabrizio Tesseri
Buongiorno a tutte e tutti,
leggendo il pezzo che trovate qui sotto di Fabrizio Tesseri mi sono trovato a pensare che spesso i media e i giornali in particolare parlano di tutto tranne che di quello che sperimentiamo nelle nostre vite reali.
Certo, il Medio Oriente, la guerra in Ucraina, le criptovalute: è necessario e interessante che qualcuno si assuma l’onere di costruire un racconto di fenomeni così complessi, di offrire chiavi di senso, attraverso una indagine, uno studio, un lavoro di cronaca.
E tutto il resto? Questo meritorio sforzo di comprensione viene applicato di solito a fenomeni o storie lontane. L’informazione locale arranca, manca la pubblicità e il pubblico pagante, in digitale non è mai davvero decollata perché è più redditizio commentare argomenti di interesse generale, non legato a un territorio.
Eppure, è proprio sulla società che ci circonda, nel senso che ci avvolge, che sarebbe più necessario applicarsi, cercare di capire, perfino di spiegare, o anche soltanto ascoltare.
Fabrizio, ormai lo sapete, è un dirigente pubblico che nel suo lavoro si occupa di tutt’altro, ma qui su Appunti riesce a offrire ogni volta sprazzi di verità con i suoi articoli che si muovono sul confine tra il reportage da fermo - perché parla della sua terra, del suo paese con la p minuscola, vicino Latina - e la letteratura.
In questo pezzo parla dell’estate delle sagre: anche io ne ho frequentate parecchie questa estate, anche se molto diverse da quelle che evoca Fabrizio (niente santi e solo tortelli e grigliate).
C’è qualcosa di interessante da analizzare e capire in questi momenti di condivisione, quando l’ossessione individuale del nostro impianto culturale regredisce in qualcosa di precedente (o si eleva in qualcosa di superiore, chissà), perché collettivo.
Nei mesi lunghi del Covid ci siamo interrogati a lungo sul bisogno vitale di quel contatto, dell’esserci, del vedere altri intorno. Poi abbiamo rimosso, insieme ai lutti e alle angosce, anche queste consapevolezze ritrovate.
Leggete Fabrizio, e fateci sapere cosa ne pensate.
Buona giornata,
Stefano
“Evviva Sarrocco!”
di Fabrizio Tesseri
L’estate è il tempo delle sagre di paese e delle feste patronali.
Sì, lo so, ci sono tutto l’anno, sia sagre che santi patroni. D’altra parte, con 365 giorni e più santi per ogni giorno, è normale che pressoché per ogni giorno dell’anno ci sia qualche paese, piccolo o grande, che festeggia il santo patrono.
Tuttavia, pur senza aver fatto una verifica puntuale, qualcosa mi dice che la concentrazione di santi patroni nei mesi estivi sia maggiore che nel resto dell’anno.
Così come sono certo che le sagre della qualunque abbondino in estate. Sì, perché la narrativa del “prodotto tipico”, della tradizione gastronomica, è così inflazionata che le amministrazioni comunali, le pro-loco, le associazioni dei commercianti, si inventano di tutto per mettere bancarelle in strada e fatturare (si fa per dire!), con la scusa di festeggiare qualcosa. E noi, la gente, accorriamo in massa. Anche quando è tutto farlocco.
C’è un posto qui vicino, sui Castelli, dove da trent’anni fanno la sagra del fungo porcino e da trent’anni si mormora di TIR carichi di funghi che arrivano dai Paesi dell’Est e, data la quantità di funghi cucinati, non è difficile credere sia vero.
Bene, oltre alla sagra del porcino, negli anni si sono aggiunte quella delle pappardelle al cinghiale, che sono tipiche come gli spaghetti al pomodoro, visto che si cucinano praticamente ovunque, quella di un tipo di pasta che di particolare ha solo il nome in dialetto, essendo un impasto di acqua e farina come i pici, i troccoli e mille altre paste contadine e, infine, la sagra del Pane che, forse, è l’unico prodotto noto con il nome della cittadina dei Castelli Romani. Per lo meno a Roma e nella parte del Lazio che dalla Capitale arriva fino alla provincia di Caserta.
Mi sono chiesto spesso cos’è che, specialmente d’estate, ci fa ammassare per sagre e feste patronali, imprecare per i parcheggi che non si trovano, per la confusione, il caldo, la birra calda ma, nonostante tutto, ci vede tutti lì, in fila per un panino o il piatto tipico da celebrare, mangiandolo. E me lo sono chiesto anche in questi giorni intorno a Ferragosto.
Da me, la festa del patrono è il 16 agosto, San Rocco, come da molte altre parti d’Italia e d’Europa, dato che il Santo è particolarmente quotato come protettore un po’ ovunque, e la festa ormai inizia giorni prima ma il culmine è, appunto, il 16 agosto.
San Rocco significa da sempre la corsa all’anello dei Butteri, la processione, le giostre, i panini con la porchetta, presi dal camioncino del porchettaro e mangiati per strada, in piazza il concerto di qualcuno più o meno famoso, i fuochi d’artificio a fine festa e il nocciolaro sul Corso, davanti ai giardini.
Ognuno si sceglie la cosa a cui è più legato, per la maggior parte delle persone è il tutto che fa la differenza. Per me, le cose sono cambiate nel tempo, tranne una: il nocciolaro! Se non c’è il nocciolaro, ma non uno qualsiasi, quello lì, non è San Rocco.
Per tanti anni ho evitato di stare qui a Ferragosto e San Rocco: un po’ di snobbismo, lo ammetto, ma soprattutto il rifiuto del caos di una città intera per strada tutta insieme, più altre migliaia di persone che migrano dalle campagne e dai paesi vicini e si spiaggiano in poche migliaia di metri quadrati come branchi di balene pilota che perdono la cognizione dello spazio e del tempo.
Come falene, attratte dalle luci, dagli odori di fritto e brace, dalle musiche più oscene sparate da altoparlanti gracchianti, dal rumore e dalla puzza dei piccoli generatori delle bancarelle. Perché sembra proprio che a Ferragosto, prima, durante e dopo, non si possa restare a casa la sera.
Tanti fanno il tour delle sagre e delle feste, con o senza patrono, per ogni Borgo, paesetto, frazione. Quest’anno, poi, il caldo umido era micidiale e in piazza si stava come sotto la doccia e ugualmente non è mancato nessuno, tra chi era in grado di muoversi nel raggio di 30 chilometri da Piazza XIX Marzo.
Si chiama così, la piazza, perché quel giorno, nel 1944 tutta la città è stata sfollata dai tedeschi. Chi aveva trovato rifugio nelle grotte sotto Palazzo Caetani come chi una casa in piedi ancora ce l’aveva.
Dopo quella data, tra bombardamenti, cannoni e carri armati, in piedi rimase ben poco e qualche rudere e sventratura c’è ancora oggi, a fare bella mostra di sé, della Storia e di quanto sia difficile per questo Paese guardare al futuro e costruirlo, il futuro.
Gli ultimi due Ferragosto, però, li ho forzatamente passati qui, come da ragazzino, e sono pure andato in giro per la città la sera, grazie agli amici che non dicono mai di no a una birra e alle noccioline calde appena tostate e, soprattutto, quando serve ti tirano via dal divano e dalla malinconia.
Quest’anno, più dell’anno scorso, mi sono guardato intorno e ho cercato di capire cosa sia davvero questa festa per tutta questa gente.
Ovviamente, sarà una cosa diversa per ognuno, ma un minimo comune denominatore, mi sono detto, forse c’è. Credo ruoti proprio intorno a San Rocco.
Non solo per l’aspetto religioso, che la secolarizzazione della società procede speditamente anche nell’Agro Pontino e le vecchiette che seguono la processione sono sempre di meno e i rimpiazzi latitano.
La religione poi, nella pratica quotidiana, per molti è ben lontana dai precetti della Chiesa. Benedetto Croce diceva che “Non possiamo non dirci cattolici”, modestamente, e senza voler essere offensivo, aggiungo che è facile, con una religione prêt-à-porter, dove ognuno prende quel che preferisce e si professa cattolico a modo suo e si capisce bene osservando quelli che partecipano alla festa del Santo Patrono.
Nessuno bestemmia, in parole, opere ed omissioni, come i veneti trapiantati qui, che restano comunque tra i pochi a frequentare assiduamente le parrocchie la domenica mattina.
La componente di popolazione di origine campana, invece, esprime la propria religiosità per lo più con manifestazioni esteriori molto pronunciate, ex-voto, catenine e braccialetti con immagini sacre oversize, bestemmie più articolate e meno comprensibili di quelle dei veneti.
Raffaele, che abitava vicino a me, faceva il ferrovecchio e girava con la sua ape a raccogliere rottami pagati con bagnarole, secchi e altra roba di plastica, ne era il massimo esempio, con il vistoso rosario appeso allo specchietto retrovisore e la statuetta di trenta centimetri della madonna in bella mostra sul cruscotto.
Quando è morto, Maria, la moglie, la persona con la parolaccia più creativa e gratuita del mondo, ha chiamato mio fratello per fargli scattare una foto a Raffaele, sul letto di morte. Mio fratello si raggela ancora oggi, dopo quarant’anni.
Una piccola digressione, un’altra, che forse non c’entra nulla o forse sì, ma la faccio lo stesso. Vicino casa mia abitavano tre Maria (senza contare le due Annamaria) e il problema era distinguerle nei discorsi, così le tre erano dette rispettivamente: Maria la napoletana (la moglie di Raffaele), Maria la vedova, perché vedova già da un bel po’ e Maria ‘ntacca perché…vabbè, meglio lasciar stare, tanto avete capito.
Maria la napoletana è rimasta tale, anche dopo che la morte di suo marito Raffaele la rese vedova. Per dire che quello che siamo viene da lontano e ci resta attaccato, come una patella a uno scoglio, nonostante gli eventi della vita.
Oltre a veneti e campani, l’altra comunità più numerosa e più antica è quella ciociara e abruzzese. Le accomuno per la vicinanza geografica dei paesi di provenienza.
Ecco, quelli di origini ciociare, come me per metà, o abruzzesi, sono i più pacati nelle manifestazioni religiose, forse perché abituati a una fatica mortifera che è iniziata ben prima della bonifica e delle migrazioni successive di veneti, campani e altri.
Credo che la maggioranza di chi ancora oggi va in processione, dietro al Santo, al Sindaco con la fascia, al Maresciallo dei Carabinieri e alle altre “autorità civili e religiose”, abbia proprio queste origini.
La cosa più bella della processione, nei miei ricordi, i ricordi di uno che la vedeva passare senza prendervi parte e solo perché Don Livio si segnava a mente tutti i catecumeni che c’erano e, soprattutto, quelli che non c’erano, e per questi ultimi erano pizze sulla capoccia a due mani, i giorni seguenti.
La cosa più bella, dicevo, erano e sono le vecchiette che a un certo punto urlano “Evviva Sarocco!”, tutto attaccato, e qualcun'altra che randomicamente risponde, sempre urlando, “Evviva Maria!”. Il culto mariano ha sempre un suo perché e quando non vince, pareggia.
Mio padre, poi, era un “Sarrocchitto”. Gli ultimi anni lo hanno fatto pure priore della Confraternita di San Rocco. Tutti uomini, abito con tunica bianca e mantella rossa, portano la Statua del Santo a spalla in processione, le altre immagini sacre e le statue, dal Cristo crocefisso a Maria Assunta in cielo, che la chiesa più grande è proprio dedicata a lei.
L’ultima volta, a vedere uscire la processione l’ho accompagnato io mio padre, in sedia a rotelle, e tra i pochi che sono venuti a trovarlo quando ormai non usciva più di casa ci sono stati proprio i suoi confratelli. Presenti più di molti dei parenti, fratelli e sorelle comprese, ma vabbè, succede.
Comunque, San Rocco come minimo comune denominatore credo esprima il legame con le proprie radici, indipendentemente da quello che siamo diventati crescendo. E questo è probabilmente vero ovunque, con qualunque Santo Patrono e ricorrenza laica.
C’è qualcosa che prescinde l’evento in sé e parla di noi e che ci spinge in piazza. Me ne sono reso conto in maniera lampante una di queste sere, incontrando tante persone che non vedevo da tempo, per via del mio lavoro, della mia vita e della loro, di vita, e guardando me e i miei amici immersi in quella folla.
La mia amica del cuore che vive a Venezia e torna ogni anno a San Rocco; la coppia di amici che vive a pochi passi da me e che di certo non ha inclinazioni religiose di alcun tipo; l’amica, veneta di famiglia, che ancora va in giro a ballare pizzica e taranta, esempio di puro sincretismo pontino, e tutti gli altri che sono visi e storie conosciute, anche senza particolari legami affettivi.
Tra questi, ho incontrato Pietro, che a mezzanotte, tra la folla, si è messo a fare l’esegesi laica del Santo e della sua popolarità e Donato, che da oltre dieci anni vive in Germania, fa il burattinaio e ora pare abbia aperto una gelateria e ci ha salutato con un eloquente e sentito “Evviva Sarocco”, urlato sotto il Comune vecchio.
Le radici!
Persone tanto diverse, con nessuna ideologizzazione spicciola delle origini, che però restano legate a qualcosa. Quelli cha partono e non tornano più. Quelli che invece a un certo punto tornano. E quelli che sono restati, sempre, nonostante tutto. Le radici, quello che siamo.
Come ho capito forse troppo tardi, le radici però non fanno di noi alberi e quello che siamo possiamo esserlo ovunque. Anzi, forse allontanarci un po’ ci può solo far crescere meglio, che sotto gli alberi crescono solo cespugli e funghi e fragoline, quando va bene.
Ecco, al di là della mercificazione dei Santi, delle sagre vere o inventate, credo che quello che lega tutte le persone che si riversano in strada in queste occasioni, soprattutto nei mesi d’estate, sia il sentirsi parte di qualcosa, riconoscersi in un luogo, nelle facce di chi ci sta intorno e, in fondo, forse ne abbiamo tremendamente bisogno di questo riconoscersi. Come persone e come società.
E allora, dopo tanti anni, “Evviva Sarocco!”
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Questo rinnovato successo delle foze più antidemocratiche ha colto molti di sorpresa e suscita sconcerto.
Cosa si può fare? Ne discutiamo su Appunti per tutta l’estate.
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Mi ci ritrovo perfettamente
Ciao Fabrizio! Nella tua perfetta descrizione del quadro festivo locale, io colgo un 'giovane' appena entrato nell'età nostalgica. Per inciso io questa età l'ho passata da parecchio, e non 'coltivo' più i bei ricordi che in te pulsano di vita e di entusiasmante osservazione. Ho, sì, ritrovato nel tuo 'quadro' una bella parte di atmosfera del mio paese com'era fino a parecchi (parecchi!!!) decenni fa. Un paese che da 8.000 abitanti è passato a 18.000, che da terra di emigrazione è diventato monopolio di immigrazione, non può proprio definirsi una comunità-specchio in cui 'riconoscersi'. Tuttavia c'è molto vero in ciò che esprimi, e condivido perfettamente il fatto che in certi 'bagni' di folla si va alla ricerca di qualcosa che solo l'inconscio (e non solo il palato) può davvero definire bene per ciascuno dei presenti. Io che alle sagre non vado più per tutti i motivi possibili e immaginabili, (e aggiungo purtroppo: dieta, età, un marito disincantato; ma dico anche per fortuna: nuovi interessi e viaggi), trovo illuminanti due punti ben evidenziati nel tuo racconto. Il primo è quel tuo "come da ragazzino", tornato 'alla base' dopo i ferragosti da evaso. Il secondo "Le radici!". Ecco. Il mistero delle sagre credo stia qui: per un verso nel bisogno, o larvata ricerca di fermare il tempo rivivendo il passato; per altro verso dar spazio a quella parte di sé che rimane simbioticamente legata ai luoghi della crescita, della prime conoscenze/esperienze del mondo... Detto ciò, caro Fabrizio, come vorrei poterci essere in una delle 'tue' sagre, camminare sulle 'tue' strade tenendoti per mano e chiederti di fare un ballo con me (a volte usano ancora, non solo concertoni). E immaginare che tu, come fossi mio figlio, mi sorridessi felice e volteggiassi con me! Grazie per questo bel sogno! Un abbraccio, Loretta (mamma di un 42enne 'lontano')