Il pronto soccorso in emergenza
Il bilancio amaro di una vita sul fronte della sanità, dove si osserva ogni giorno la crisi di un sistema che sta collassando. E non soltanto perché mancano i soldi
Il Pronto Soccorso ha certamente bisogno di investimenti economici (che riguardano, come abbiamo visto, anche le insufficienze del territorio e dell’ospedale), ma necessita anche di una profonda revisione delle modalità di lavoro
Daniele Coen
Da ER a Grey’s Anatomy, a Scrubs, il Pronto Soccorso si è imposto come genere televisivo, facendo concorrenza ai western, ai legal thriller e ai distretti di polizia di vario genere e nazionalità. In queste serie, medici quasi sempre giovani, volitivi o in crisi, ma sempre profondamente dediti alla loro professione, affrontano situazioni gravissime e complesse con risultati positivi in una percentuale irrealistica di casi. Pacca sulla spalla del primario, sigaretta nel parcheggio dell’ospedale, sguardo languido del bello o della bella di turno e ritorno in trincea a combattere nuove battaglie.
Il quadro che ci restituiscono i media italiani è completamente diverso. I Pronto Soccorso sono infatti saliti all’onore delle cronache per il caos che vi regna, per le aggressioni a medici e infermieri, per fatti di vera o presunta malasanità. I pazienti attendono ore prima di essere visitati e giorni prima che si trovi un letto per ricoverare chi ne ha bisogno. Medici e infermieri abbandonano i reparti d’urgenza appena ne hanno l’occasione e sempre meno giovani sono disposti a sostituirli.
Dopo trentacinque anni di lavoro come medico d’urgenza e ad alcuni anni di distanza da quando ho concluso la mia attività professionale, credo di poter riflettere su questo fondamentale settore del nostro Servizio Sanitario Nazionale con uno sguardo che resta inevitabilmente partecipato, ma spero anche sufficientemente obiettivo.
Sono addirittura arrivato a scriverci un libro, dove mi sforzo di raccontare come i Pronto Soccorso italiani si siano modificati negli ultimi quarant’anni e come, nonostante la grave crisi in cui versano, costituiscano ancora oggi un baluardo irrinunciabile della sanità pubblica. È dunque essenziale difenderli ad ogni costo e metterli in grado di continuare a svolgere il proprio compito con efficienza e soddisfazione dei cittadini e degli operatori.
Sul confine tra due crisi
Mi è sempre piaciuto pensare al Pronto Soccorso come a una terra di confine. Una sorta di “No man’s land” che non è più il mondo esterno all’ospedale, ma neppure compiutamente quello interno. Un limbo o, viste le attuali condizioni, un purgatorio, dove si decide quale sarà il destino delle persone che vi entrano. Di nuovo fuori, a casa propria, dal proprio medico, negli ambulatori specialistici, oppure dentro, nei reparti, nelle terapie intensive, nelle camere operatorie.
Chi abita questa terra di mezzo, i medici, gli infermieri e gli altri operatori dell’urgenza, subisce pesantemente i contraccolpi di quanto accade al di là dei propri confini. Le fragilità sociali, l’immigrazione, la crescita del disagio giovanile, le guerre e gli sfollati, la violenza di genere e no, si rispecchiano nel numero e nel tipo delle persone che accedono al Pronto Soccorso. La crisi economica, i tagli alla sanità, la carenza di personale rendono più deboli tanto la medicina del territorio quanto le retrovie dell’ospedale e inevitabilmente più precario il suo avamposto.
Fuor di metafora, il Pronto Soccorso si trova al centro di un circolo vizioso che vede da un lato un numero eccessivo di accessi dovuti all’incapacità della medicina territoriale di offrire ai cittadini risposte adeguate per qualità e per tempi di erogazione; dall’altro una medicina ospedaliera, fiaccata da vent’anni di tagli alle strutture e al personale, che non è più in grado di accogliere i malati che hanno bisogno di essere ricoverati.
Vale la pena ricordare che tra il 2000 e il 2020 in Italia sono stati chiusi circa 70.000 letti di degenza, cioè poco meno di un terzo del totale, e che, come risposta alla spesa fuori controllo, è stato imposto un blocco delle assunzioni che dura dal 2005 (con una riduzione parziale dal 2019), causa prima di una carenza di medici che si stima oggi in circa 30.000 unità.
Il Pronto Soccorso si trova dunque a dover assistere, spesso per diversi giorni, decine di pazienti che non dovrebbero più essere lì, ma in un reparto, situazione questa che rallenta inevitabilmente l’accesso di chi attende ancora, in barella o in sala d’attesa, di essere visitato.
Non dobbiamo però dimenticare quanto sia rilevante anche l’ultimo tratto del circolo vizioso di cui parlavo, che si conclude tornando al territorio, dove mancano le strutture per le cure intermedie, i reparti di riabilitazione, le RSA.
Questo fa sì che nei reparti di medicina dei nostri ospedali circa un terzo dei posti letto sia permanentemente occupato da persone che sarebbero in grado di lasciare l’ospedale per acuti, ma non possono essere dimesse perché non hanno adeguata assistenza domiciliare, né trovano collocazione in altre strutture. Se solo quel trenta percento di “bed blockers” potesse essere dimesso nei tempi corretti, la mancanza di posti letto negli ospedali sarebbe un problema quasi risolto.
Professionisti e “civil servants”
Esiste un elemento che rende il Pronto Soccorso diverso da tutti gli altri reparti ospedalieri e che in qualche modo lo accomuna invece alle forze di polizia, ai vigili del fuoco, alla protezione civile. I medici e gli infermieri di Pronto Soccorso sono infatti tra quelli che gli anglosassoni chiamano “civil servants”, non nel senso di pubblici ufficiali (cosa che peraltro sono, durante l’espletamento del loro servizio), ma nel vero senso di servitori della cittadinanza.
Nello stesso modo in cui le forze dell’ordine rispondono alla chiamata per un crimine e i vigili del fuoco saltano sulle loro autopompe per correre sul luogo di un incendio, il Pronto Soccorso risponde a ogni necessità di salute, grande o piccola che sia, a qualsiasi ora del giorno o della notte. Potranno esserci disguidi o lentezze che è giusto rilevare e criticare, ma nessuno troverà mai la porta chiusa. Questo fatto mi rende orgoglioso come medico e mi rassicura come cittadino perché so che, in un sistema sanitario al quale è sempre più difficile accedere, c’è ancora un luogo a cui chiunque può rivolgersi nel momento del bisogno, indipendentemente dal suo livello sociale, dalla sua condizione economica e dal problema che causa il suo malessere, fisico o mentale che sia.
È per questa ragione che nel mio libro ho indicato il Pronto Soccorso, come “l’ultimo baluardo” del servizio sanitario pubblico. Ho forse scelto un termine troppo enfatico, ma credo che un po’ di enfasi non guasti per sottolineare il concetto.
Il Pronto Soccorso non è solamente l’unico approdo di chi non ha alternative, come i migranti irregolari, i senza fissa dimora, le persone in preda ai sintomi acuti di dipendenza da alcol o droghe. È invece, e soprattutto, uno dei pochi esempi residui di quello che la medicina pubblica dovrebbe offrire: una risposta tempestiva, efficiente e a basso costo ai problemi di salute dei cittadini.
Finché la medicina territoriale non sarà tornata in grado di farlo (e questo è l’obiettivo, visto che più di un terzo delle persone che accedono ai Pronto Soccorso potrebbero essere seguite in altro modo) è bene che questa stampella di invalutabile valore sia messa in grado di resistere.
I soldi non sono tutto
La grave crisi del Pronto Soccorso e, più in generale, degli ospedali pubblici, viene spesso presentata come una questione di soldi. Bisogna investire di più, ammodernare le strutture, pagare di più medici e infermieri. Tutto vero e condivisibile, ovviamente. Vorrei però aggiungere qualche riflessione sul tema degli stipendi dei medici.
La prima considerazione è che i nostri medici guadagnano sicuramente meno della media dei medici europei, ma la stessa cosa avviene per gli insegnanti e in genere per tutti i dipendenti pubblici italiani. Le ragioni travalicano dunque il settore specifico e rimandano a un problema di sistema.
Nella improbabilità che questo divario si colmi rapidamente, possiamo però almeno ragionare su di un aspetto troppo poco considerato, ma tutt’altro che irrilevante, cioè sul rapporto tra guadagno e soddisfazione professionale. I medici (come gli insegnanti ecc.) potrebbero probabilmente tollerare un guadagno poco soddisfacente a fronte della possibilità di lavorare bene, in strutture e con colleghi di buon livello, e di potersi così sentire gratificati dai buoni risultati raggiunti e dalla gratitudine dei propri pazienti.
Oggi parlare di “missione” fa un po’ ridere e certamente i medici e gli infermieri non sono eroi, come si sono sentiti (non senza qualche fastidio) chiamare durante la pandemia, ma la loro scelta di lavorare con e per le persone non deve essere sottovalutata. Il problema è che oggi ampie fasce dei medici, tra gli ospedalieri come tra quelli di famiglia, vede i propri sforzi frustrati dalle insufficienze del sistema.
Per avere un’idea delle ragioni del loro malessere, dobbiamo aggiungere alle cose a cui ho già accennato: un carico di burocrazia ai limiti del sopportabile (un medico di famiglia dedica circa 3 ore al giorno a impegni di carattere amministrativo), la scarsa possibilità di carriera (il numero di primariati si è ridotto di circa un terzo negli ultimi anni e i ruoli intermedi spesso non comportano alcun miglioramento della qualità del lavoro), i crescenti contenziosi medico legali (in Italia ci sono trentamila nuove cause all’anno e il nostro paese divide in Europa con la sola Polonia il poco invidiabile primato di prevedere un procedimento penale per gli errori medici).
Resta da dire che a nessun medico dovrebbe essere richiesto di restare per quarant’anni di fila in un ambiente di lavoro fisicamente e mentalmente faticoso come è il Pronto Soccorso. Prendendo in prestito un titolo dai miei omonimi, i fratelli Coen, mi sentirei di affermare che il Pronto Soccorso “Non è un paese per vecchi”. È invece una inestimabile palestra professionale e clinica dove tutti medici dovrebbero trascorrere una parte della propria formazione, ma dalla quale anche i più entusiasti dovrebbero poter uscire dopo tre, cinque, dieci anni di lavoro se le energie o la motivazione li abbandonano.
Oppure, dovrebbero dedicare solo una parte del loro tempo (il cinquanta percento propone qualcuno) al lavoro di prima linea, dedicando le ore restanti alle unità di osservazione breve o ai reparti di medicina d’urgenza. Sono convinto che, se così fosse, molti più giovani accetterebbero la sfida e che questa “Terra di mezzo” tornerebbe ad essere popolata da hobbit motivati e intraprendenti.
In definitiva, il Pronto Soccorso ha certamente bisogno di investimenti economici (che riguardano, come abbiamo visto, anche le insufficienze del territorio e dell’ospedale), ma necessita anche di una profonda revisione delle modalità di lavoro, di una maggiore elasticità dei contratti, della sperimentazione di modelli innovativi. Il suo funzionamento è un sensibile termometro del funzionamento dell’intero servizio sanitario nazionale. I messaggi che ci manda oggi dicono che il sistema si sta surriscaldando e va velocemente verso un livello di non ritorno. I cambiamenti sociali, le evoluzioni della tecnologia, l’aumento dei costi e le aspettative dei cittadini rendono indispensabile correre ai ripari in tempi molto più brevi di quelli che la politica sembra immaginare.
Daniele Coen è medico d’urgenza e ha guidato per quindici anni il Pronto Soccorso dell’Ospedale Niguarda di Milano. A fianco dell’attività clinica e di ricerca, si è sempre occupato di divulgazione scientifica. Ha appena pubblicato per Chiarelettere Corsia d’emergenza
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E qui l’articolo di Appunti che approfondisce il tema:
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Su questo argomento potrei scrivere un'enciclopedia. Sempre restando sul territorio che conosco, Trieste in particolare, ho diretto un'associazione di promozione sociale (così si chiama dopo la riforma del terzo settore). Mi hanno chiamata ad arginare un dissesto finanziario da quasi 1 milione di euro. Porto con me un'esperienza indimenticabile, appassionata e amara. Dopo la riforma i dirigenti non dovrebbero più essere pensionati interessati esclusivamente alla medaglietta da appuntare sulla giacca, ma veri e propri imprenditori. Ci sono appalti da milioni di euro per sopperire alle carenze sanitarie locali quanto a soccorso in emergenza. I dipendenti delle APS guadagnano poco più di metà dei colleghi delle ASL (qui ASUGI) e hanno una professionalità maggiore dei più fortunati colleghi. Non voglio dilungarmi inutilmente su questo. Mi fa piacere sottolineare che strutture importanti del territorio sanno fare da filtro ai ricoveri in pronto soccorso grazie appunto alla professionalità e competenza che solo una formazione costante riesce a determinare. Scusate la lunghezza del mio commento, ma sono decine le cose da realizzare/creare per poter risparmiare. Purtroppo queste sono ostacolate da direttivi incapaci e refrattari ad un cambiamento.
Si potrebbero aggiungere tante cose a questo articolo e farne uno dei filoni di Appunti ma è abbastanza evidente a tutti il collasso di questo sistema sanitario con conseguenze inevitabili a tutto il complesso economico che vi sta attorno.
A titolo di esempio mi piace far notare che sui giornali per molto tempo si è parlato di medicina solo per i successi in camera operatoria, poi è arrivato il covid e ci siamo resi conto che c'erano tanti altri reparti importanti.